Feb 21 2009

Le Pasque Veronesi del 1797

Category: Verona storia e dintornigiorgio @ 08:05

Case Mazzanti

 

L’Armata d’Italia di Napoleone nel territorio della Repubblica di Venezia

 

Verso la fine del 1796 tutta la parte occidentale del territorio della Repubblica di Venezia è occupata militarmente dalle forze della Repubblica Francese: a una a una le città più importanti della terraferma — Bergamo, Brescia, Peschiera e Vicenza — vedono l’arrivo dell’Armata d’Italia, guidata dal generale Napoleone Bonaparte (1769-1821).

A Verona i francesi giungono il 1° giugno 1796 e s’impossessano subito dei forti della città come pure di varie chiese, adibite poi a ospedali e a ricoveri per la truppa.

Il rapporto fra cittadini e forze d’occupazione sarà sempre difficile, anche perché i francesi si comporteranno sistematicamente come occupanti e non come ospiti, come avrebbero dovuto sulla base dei rapporti ufficiali con la Repubblica di Venezia, la cui politica estera era espressa nella formula “neutralità disarmata”.

 

La situazione a Verona e la rivolta dell’aprile del 1797

Il 17 aprile 1797, dopo circa dieci mesi di permanenza della truppa straniera, la situazione della città di Verona era critica: non solo i francesi operavano sistematiche confische ai danni dei cittadini, ma tramavano anche con i giacobini locali al fine di incrinare la fedeltà dell’antica città verso il suo legittimo governo.

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Feb 20 2009

Verona: Chiesa dei Santi Apostoli, allargate le crepe

Sarebbero peggiorati i danni ai muri del sacello

Technital smentisce la ditta titolare del parcheggio

 

L’antico sacello trema, e la dimensione delle crepe lo dimostra ben oltre il metodo dei vetrini: parola della ditta Technital, che per voce del suo amministratore Massimo Raccosta rilancia l’allarme sulla gravità delle condizioni della chiesa dei Santi Apostoli.

All’indomani del primo «verdetto» espresso dall’azienda Mantovani, che sta eseguendo i lavori per il parcheggio sotterraneo, e che solo l’altro giorno ha affermato che da un primo esame dei vetrini posizionati lungo le crepe sarebbe da escludere che le fessure notate dal parroco sulle pareti del sacello delle Sante Teuteria e Tosca siano legate ai movimenti di assestamento del terreno seguiti allo scavo per il parcheggio, arriva una prima smentita: le crepe sono aumentate, e le immagini lo dimostrano.

«Possiamo confrontare due immagini molto indicative», spiega Raccosta. «La prima è stata scattata il 22 dicembre 2008, la seconda il 29 gennaio 2009: si vede chiaramente che la fessura nell’arcata sovrastante l’altare si è ampliata. Con questo non vogliamo dire che la responsabilità sia dell’azienda Mantovani e dei lavori che sta eseguendo. Ora bisogna, prima di tutto, evidenziare il pericolo e porvi tempestivo rimedio, e don Ezio ha scritto già al Comune, al vescovo, alla Sovrintendenza e all’azienda Mantovani stessa per dare notizia del problema. A noi pare che non sia il momento per uno scarico di responsabilità, per un rimbalzo di accuse. Allo stato attuale del rilevamento, come non è possibile affermare con certezza che l’ampliamento delle crepe è dovuto ai lavori del parcheggio, così non si può dire che le crepe abbiano origine indipendente dai lavori, come hanno affermato i titolari della Mantovani».

Quanto alla tecnica di rilevamento coi vetrini effettuata dallo studio Campagnola, Raccosta spiega: «In un primo tempo erano stati posti vetrini troppo grossolani per rilevare mutamenti così piccoli, per cui sono stati sostituiti. Quelli nuovi sono stati posizionati a inizio febbraio e possono rilevare variazioni millimetriche. Per questo, nonostante il reale ampliamento della crepa, non c’è stata rilevazione coi vetrini, che solo ora sono del tipo adatto per l’indagine».A.G.

 

Fonte: L’Arena di Verona di giovedì 19 Febbraio 2009, cronaca, pagina 15


Feb 20 2009

Il decalogo del perfetto mafioso

Category: Regno delle Due Sicilie,Società e politicagiorgio @ 08:49

 

I precetti mafiosi secondo Lo Piccolo

Dalla fedeltà all’obbedienza al boss, dalla moderazione nei costumi ad una rigorosa morale sessuale. Ecco il decalogo del “perfetto mafioso”.

Primo comandamento: “Non ci si puo’ presentare da soli ad un altro amico nostro, se non è un terzo a farlo”. 



Secondo comandamento: “Non si guardano mogli di amici nostri”. 



Terzo comandamento: “Non si fanno comparati con gli sbirri”. 



Quarto comandamento: “Non si frequentano né taverne e né circoli”. 



Quinto comandamento: “Si è il dovere in qualsiasi momento di essere disponibile a cosa nostra. Anche se ce (testuale ndr) la moglie che sta per partorire”. 



Sesto comandamento: “Si rispettano in maniera categorica gli appuntamenti”. 



Settimo comandamento: “Si ci deve portare rispetto alla moglie”. 



Ottavo comandamento: “Quando si è chiamati a sapere qualcosa si dovrà dire la verità”. 



Nono comandamento: “Non ci si puo’ appropriare di soldi che sono di altri e di altre famiglie”.

Decimo comandamento: è il piu’ articolato e fornisce indicazioni precise sulle affiliazioni, ovvero su “chi non puo’ entrare a far parte di cosa nostra”. L’organizzazione pone un veto su “chi ha un parente stretto nelle varie forze dell’ordine”, su “chi ha tradimenti sentimentali in famiglia”, e infine su “chi ha un comportamento pessimo e che non tiene ai valori morali”.

 

 

Fonte: TGCOM


Feb 20 2009

Quando i normanni conquistarono la Sicilia arrivarono i milanesi

Category: Regno delle Due Siciliegiorgio @ 00:42

 

I fratelli Altavilla sbarcano in Sicilia, chiamati dall’emiro di Catania, impegnato in una sanguinosa guerra con il califfo di Girgenti. 

L’aiuto all’emiro di Catania è solo un pretesto per iniziare la conquista della Sicilia ed essere, nel contempo, considerati i “liberatori” delle residue popolazioni cristiane ancora presenti nell’isola dopo, due secoli e mezzo di dominio musulmano. 

Nel febbraio del 1061, Ruggero organizza uno sbarco a Messina con poco più di un migliaio di soldati. 

Messina cade senza opporre resistenza, per cui i Normanni arrivano facilmente fino a Castrogiovanni e Girgenti. 

Nella primavera del 1062, Ruggero, con truppe fresche, torna in Sicilia con l’intento di occupare l’intera isola.

Un feroce scontro avviene a Cerami, a ovest di Troina. 

Il cronista Goffredo Malaterra riporta che le forze normanne erano esigue. 

Ma Ruggero riesce egualmente a mettere in fuga i nemici. 

I Normanni controllano ormai una vasta zona, da Messina a Troina, dove Ruggero pone la sua capitale isolana e, nonostante i rinforzi saraceni  arrivati dall’Africa, con una serie di impegnative battaglie che vedono cadere una ad una le più importanti città, nell’agosto del 1071 giunge alle porte di Palermo.

L’assedio dura fino al gennaio del 1072, quando Ruggero, con l’aiuto del Guiscardo, riesce a penetrare nella città fortificata e Palermo cade. 

Una messa solenne  di ringraziamento viene celebrata nell’antico Duomo, che per 240 anni era stato una moschea. 

A poco a poco cadono anche Castrogiovanni, Butera ed infine, nel 1091, Noto. 

Occorreranno trenta anni, a Ruggero, per conquistare l’intera Sicilia e le isole di Malta e Pantelleria, il cui possesso renderà sicuri i traffici nel canale di Sicilia e consentirà di avviare scambi commerciali con i paesi che si affacciano sul Mediterraneo.

Con Ruggero, mentre la maggior parte dell’Europa è ancora feudale, si gettano nel Meridione d’Italia le basi di uno Stato moderno. 

Il re non governa più tramite i suoi potenti feudatari, ma tramite i suoi funzionari (burocrati dello Stato e non i potenti signorotti). 

Diversamente dal resto d’Europa, che diventa sempre più intollerante, egli è tollerante con i costumi e le tradizioni greche, latine ed arabe che in quel periodo coesistono nel Meridione, lasciando le proprietà e la libertà di culto.

La conquista normanna trova  un’agricoltura che praticamente non esisteva piu’ e  non  piu’ un grado di  fronteggiare le   esigenze alimentari  della popolazione. 

La Sicilia difatti era un luogo dove venivano a vivere, gli ultimi anni della loro vita i pensionati piu’ eccellenti del mondo islamico di allora, e l’industria piu’ fiorente in Sicilia era diventata quella delle lapidi mortuarie in marmo che venivano imbarcate verso Bagdad con i feretri di questi vecchi quando morivano, incredibile ma vero! 

Nella Sicilia (Scalìa in arabo), che era stata il “granaio Di Roma e del mondo antico”, non si coltivava piu’ ne’ il grano ne’ la vite, ma vi erano stati impiantati distese di boschi di querce da sughero e altri ameni parchi. 

Gli Altavilla percio’ per riportare  in Sicilia un tipo di agricoltura “cristiana” pensarono allora agli agricoltori piu’ avanzati dell’epoca, che erano i longobardi, e ne incentivarono l’immigrazione. 

Di Logobardi ne arrivarono in grande quantità, e numerosi sono ancora ora i siciliani di origine longobarda, tanto è vero che  la Sicilia e’ il posto al mondo dove c’e’ piu’ sangue longobardo, dopo la Lombardia: basta prendere un elenco telefonico di una qualsiasi citta’ siciliana e cercarci: Lombardo. 

Ma ci sono pure i Milana e tanti altri.

Il  ripopolamento,  specialmente con cristiani dal continente europeo, fu promosso e intensificato  da Ruggero I. 

Le zone occidentali della Sicilia furono colonizzate da immigrati della Campania. 

Le zone orientali-centrali della Sicilia furono ripopolate invece da coloni della Padania che importarono la propria lingua gallo-italica. 

Dopo la morte di Ruggero I,  e sotto la reggenza di Adelaide (lei stessa proveniente dall’Italia del nord),  durante la tenera età di suo figlio, Ruggero II, il processo di colonizzazione lombarda raggiunse la massima  intensificazione.


Feb 20 2009

Vedi, anzi, “Vivi Napoli” e poi muri – Anatomia dei napoletani

Category: Monade satira e rattatuje,Regno delle Due Siciliegiorgio @ 00:11

Divertente   e ironico post trovato su internet, lo dedico alla napoletanità di mia suocera

 

In questo racconto parler di tutte quelle manifestazioni della napoletanità che qualsiasi persona, che decidesse di trascorrere qualche giorno nel paese di una delle più antiche maschere italiane, potrebbe autonomamente constatare.

Per comprendere la napoletanità è necessario capire l’indole del napoletano, ci che lo muove, qual è il suo approccio alla realtà contingente. Va subito premesso che un napoletano non ha, generalmente, un approccio civico nel suo vivere quotidiano. Con questo, s’intende alludere a quello atteggiamento che fa sentire un individuo parte integrante di una comunità e che, se anche non concorre al benessere morale ed economico di tale comunità, perlomeno garantisce un certo e non disprezzabile livello di civile convivenza. Egli invece mostra una spiccata predisposizione ad una forma particolare d’immobilità, cosiddetta dinamica, ed essere mosso da tale stato solo da eventi strettamente contingenti. L’immobilità dinamica può essere spiegata ricorrendo ad un detto tipico partenopeo che sintetizza in maniera impeccabile tale  concetto: facimme a muina (lett. Facciamo la moina). Tale detto dagli studiosi viene fatto risalire ad un comando utilizzato nella règia marina del Regno delle Due Sicilie nel corso d’ispezioni a bordo di navi.

Al comando “facimme a muina” tutti i marinai si mettevano in moto spostandosi da una parte allaltra della nave (chille che stanno ingoppa vanne abbascio, e chille che stanno abbascio vanne ingoppa), non facendo effettivamente nulla, ma dando allesterno una impressione di frenetica ed organizzata attività.

E dare l’impressione di frenetica ed organizzata attività è parte della personalità del napoletano. Ma si badi bene che egli ricorre a tale espediente solo se sollecitato da un evento esterno di controllo. Altrimenti la sua attività è propriamente una siesta perenne.

Il primo evento esterno giornaliero che turba la sua tranquillità è il datore di lavoro, per cui egli è costretto a raggiungere ed occupare il posto di lavoro. Tale adempimento motorio causa un tale stress al napoletano, che non gli consente di iniziare la sua normale attività lavorativa senza prima aver sorseggiato il primo di una lunga serie di caffé ed aver letto con particolare cura il quotidiano locale, a cui si ispira il titolo di tale racconto. L’attività produttiva perlopiù coincide con l’aver raggiunto il posto di lavoro. Forse perché per raggiungere il posto di lavoro egli è costretto ad affrontare, come un torero fa col toro, il traffico cittadino. Ed è con una nota di merito che va detto che in tale tragitto semafori, sensi unici, diritti di precedenza, marciapiedi, pedoni sono solo fastidiosi ostacoli da superare in qualsiasi modo e ricorrendo ad ogni genere di astuzia.

Il semaforo per esempio per il napoletano non rappresenta un mezzo che disciplina la civile convivenza automobilistica. Di fatto rappresenta un abbellimento luminoso e deve essere considerato come un affronto alla propria autonomia motoria. Il semaforo rosso significa via libera, mentre il semaforo verde paradossalmente genera più prudenza.

Riguardo ai sensi unici, l’unico senso unico che esiste qui è quello in cui procede l’autovettura. Il diritto di precedenza poi, non è dovuto ma va conquistato sul campo. Più che altro esiste il dovere di prendersi la precedenza. I pedoni vengono visti come ostacoli da scansare e, a tal proposito, è utile raccomandare che se non si è in ottima forma ginnico-atletica è consigliabile non avventurarsi a piedi nel traffico cittadino. Il pedone infatti, è costretto a vere e proprie acrobazie per superare gli ostacoli più impensabili e per scansare i veicoli. Per par condicio va assicurato che il napoletano a piedi non si discosta molto da quello alla guida: anche per lui non esistono semafori, strisce pedonali, marciapiedi.

La presenza di vigili urbani non attenua in alcun modo la foga degli automobilisti, anzi essi sfruttano questa presenza per compiere i più scorretti atti di prevaricazione del diritto acquisito da altri. Così se ad un incrocio vi è una coda di auto ferma, perché un vigile sta tentando di disciplinare l’alternanza del flusso, immediatamente vi sarà il furbo di turno che, sorpassando la fila, andrà ad occupare la prima posizione.

Tale situazione è abbastanza comune da queste parti, tanto da poter essere considerata una attrattiva turistica. Essa per non spinge il tutore della legge ad intervenire con una salatissima contravvenzione, che, oltre al danno economico, procurerebbe una perdita di tempo, costituendo così un sicuro ed ottimo deterrente per la perenne sterile fretta del napoletano. Il tutore della legge, partenopeo anch’esso, permette all’automobilista scorretto di passare per primo pur di non bloccare il restante flusso di auto. E questo alla bella faccia degli altri. Ci che è più sbalorditivo è che in ogni caso tale situazione non provoca nessuna reazione indignata nei presenti. Evidentemente essi sono consapevoli che la ruota gira ed in futuro saranno loro a beneficiare della magnanimità del vigile.

Un’altra attività in cui si riscontra la prepotenza partenopea, è nella consuetudine locale di fare la spesa. Quando un napoletano fa acquisti s’immerge in un gioco tipo Risiko, in cui il suo obiettivo è Raggiungere il bancone prima di tutti gli altri avversari. Per far ci spinge e si intrufola come se fosse la cosa più normale di questo mondo. Il grado di strafottenza che viene raggiunto in queste situazioni, è talmente insopportabile che può addirittura far abbandonare il campo a chi non riesce a competere.

Per comprendere le ragioni di tale comportamento, va per detto ad onor del vero che il povero napoletano, sin dalla più tenera età, riceve un’educazione pedagogica che predilige le capacità inventive e di adattamento più complicate e pittoresche, piuttosto che il sano rispetto delle regole. Tali leggi e regole appaiono monotone e frustranti al cospetto del temperamento da cow-boy del napoletano. Egli è educato a cavarsela in qualsiasi situazione agendo in modo più furbo degli altri,. Anche qui esiste una parola giusta che esprime tale capacità: azzimma.

Tale vocabolo sta ad indicare quella furbizia applicata con destrezza e malizia in tutte le situazioni. Tale qualità, invece che avere valenza negativa, da queste parti riscuote invece una tale approvazione che sconfina nell’ammirazione se non nell’invidia da parte dei soggetti meno dotati.

Una delle applicazioni della azzimma è l’inventiva tipica del napoletano: il lavoro, per esempio, quanto non lo si trova ce lo si inventa. Così il parcheggio, se non c’è, lo si inventa, ad esempio parcheggiando al centro della carreggiata.

La continua esigenza del napoletano di esaltare le proprie capacità inventive va naturalmente oltre il mezzo automobilistico ed è attuato nelle forme e nelle situazioni più svariate. Un altro ambiente che fa da sfondo a tali rappresentazioni, talvolta davvero teatrali, è costituito dai mezzi di trasporto pubblico.

Il napoletano usufruisce di autobus e tram liberamente, ma non digerisce quell’inconveniente costituito dall’obbligo di convalida del biglietto. Salire su un tram e vidimare il biglietto, effettivamente genera quel tintinnio da parte della macchinetta, che probabilmente suona alle sue orecchie come una sveglia alla regolarità e questo deve dargli molto fastidio. Il singolo biglietto tranviario in gergo qui è detto abbonamento perché ne basta portare solo uno con sé da custodire in tasca. All’eventuale controllore viene mostrato così com’è, senza vidimazione, come fosse un abbonamento.

Anche in questa situazione si pu ammirare un atteggiamento tipico da parte del controllore. Anziché applicare immediatamente il regolamento ed affibbiare la multa, egli cerca innanzitutto di comprendere le ragioni che non hanno permesso al viaggiatore di vidimare il biglietto. E qui la fantasia si può scatenare: c’è chi mostra lastre mediche accampando che ha la mamma in ospedale (ma non si capisce il nesso con il pagamento del biglietto), c’è chi dice candidamente che ha dimenticato di farlo, ed i più facinorosi arrivano anche a mettere in discussione l’autorità stessa del controllore (mo solo perchè ti si mise o cappiello in capo te cride o patetierno trad. : Ora solo perché hai una divisa ti credi un padreterno). Se l’evasore di turno riesce a tirarla per le lunghe fino alla sua fermata, riesce a farla franca, perché è fatto scendere proprio dove deve arrivare; altrimenti deve accontentarsi di scendere prima. Poco male perché con la stessa faccia tosta di prima è pronto a salire sul mezzo pubblico successivo e ripetere la sceneggiata.

Quello che di solito accade su un autobus introduce ad un’altra particolarità: i napoletani amano coinvolgere chiunque si trovi nei paraggi in quelli che sono anche i più personali dei problemi. Un problema è immediatamente comunicato e fatto condividere alla comunità circostante e questo solo ad fine di mostrare e dipingere la propria sfortuna. Dipingere è la parola da adoperare in questo caso in quanto essi sono artisti nell’affrescare scene di martirio in cui essi stessi sono sempre immancabili protagonisti.

Il napoletano si sente costantemente martire, vessato da tutti e quindi in diritto di reagire con qualsiasi mezzo a tali soprusi. Probabilmente dimentica che, in realtà, è martire solo di se stesso.

Uno dei mestieri più ambiti dal napoletano, è quello del vigile *****. Questo sia perché gli conferisce autorità sul flusso automobilistico, ma soprattutto perché gli permette di lavorare solo poche ore al giorno (quando accade). Il vigile ***** napoletano è un soggetto molto schivo che il turista può vedere solo al mattino, tra le otto e le nove, se s’avvicina a qualche crocevia molto trafficato. Lo si distingue non dalla divisa, che porta molto di rado e malvolentieri, ma dal fatto che ha in mano un block-notes ed una penna, e che tenta di disciplinare il traffico gesticolando e facendo uso del fischietto d’ordinanza. Si parlava della divisa: il vigile ***** non la indossa quasi mai. La spiegazione ad un tale atteggiamento non va ricercate né nella povertà dei sovvenzionamenti comunali, né a più elementari problemi igienici di lavanderia. Dopo numerose e attente osservazioni l’arcano è stato svelato. Tutti i misteri più intriganti e curiosi hanno sempre una spiegazione semplice. Poiché si è detto che un vigile ***** napoletano si distingue dal fatto che è ha un block-notes, una penna, un fischietto e si trova ad un crocevia, di conseguenza allorché vengono meno tali condizioni e cioè che block-notes, penna e fischietto finiscano in tasca ed il suddetto individuo sul marciapiede, ecco trasformato istantaneamente un vigile in un normale cittadino a spasso! In tal modo l’esemplare di vigile napoletano non è più riconoscibile, se non dai suoi consimili, per anch’essi in borghese, e più finalmente dedicarsi a più interessanti e redditizie attività.

In ogni modo ad onor del vero, in altre parole, della congenita strafottenza del napoletano, va assicurato che anche se in divisa è perfettamente capace d’imboscarsi in qualsiasi bar o di dedicarsi alle personali incombenze. La mancanza di divisa per gli consente una maggiore capacità di movimento e soprattutto d’evitare le scocciature che derivano dall’indossarla, qualora un concittadino o un turista avesse bisogno del suo intervento.

La donna napoletana, instancabile generatrice e perpetuatrice della civiltà partenopea, rappresenta un formidabile esempio d’emancipazione femminile. Essa è facilmente distinguibile da alcune caratteristiche che costituiscono quasi un denominatore comune per la fascia tra i tredici ed i quaranta anni. La donna napoletana ama truccarsi con abbondantissimo rossetto trasbordante, colore alla moda, attualmente preferibilmente rosso scuro. Ha una mascella che rumina incessantemente un inesauribile chewing-gum, e tra le dita stringe una sigaretta accesa. I tre elementi citati, in tutte le culture occidentali, hanno rappresentato e sono stati abusati dalle donne come simbolo d’emancipazione femminile. Oramai per si può constatare il loro declino o, in ogni caso, che sono usati per la funzione che gli è propria e non più come status symbol. Da queste parti invece sono ancora attuali. Un’altra caratteristica dell’emancipazione femminile è la rozzaggine sia linguistica sia di comportamenti che le donne napoletane esibiscono nel vivere quotidiano che davvero fanno concorrenza ai modi dei corrispettivi uomini partenopei.

Utili esempi sono già stati in precedenza descritti a proposito di mezzi pubblici e di supermercati, ma ne esistono degli altri altrettanto spettacolari. Per esempio, il citofono (a proposito da queste parti è protetto da una griglia di ferro contro le altrimenti inevitabili vandalicherìe) è uno strumento inutilizzato. Ci che normalmente è usato dalle donne napoletane è il citofono viva voce: per comunicare all’esterno si usa la finestra o il balcone, da cui si urla per chiamare un figlio, per parlare con un conoscente, per comunicare con passante, per colloquiare con le coinquiline.

Il gergo utilizzato dalle donne napoletane, come detto non da meno di quello degli uomini, è costellato di volgari intercalari e fa rabbrividire ed arrossire chi è uso ad un vocabolario di stampo più classico. Si potrebbe obiettare che forse sono solo le classi meno acculturate ad utilizzarlo, e di questo parere era anche chi scrive, ma esperienze dirette hanno dimostrato il contrario. Signore ben vestite ed all’apparenza raffinate, che accidentalmente si urtano, anziché porgersi le reciproche scuse, vengono facilmente alle parole grosse sviluppando una sequela singolare di contumelie e maledizioni, che partendo dagli avi più lontani ripercorrono tutte le generazioni fino alle presenti ed alle possibili future, con ampi riferimenti ad attività peripatetiche svolte dalla rivale e conseguente titolo onorifico del di lei marito, fino a concludersi con un perentorio invito a recarsi in un posto, facilmente intuibile, che da queste parti deve essere affollatissimo, non tanto per le persone che ci sono, quanto per quelle che ci mandano.

Un’altra regola della sana convivenza cui il napoletano non è avvezzo, è quella dell’utilizzo del cestino e del cassonetto per i rifiuti. Così mozziconi di sigarette, relativi pacchetti vuoti, fazzoletti di carta, buste e cartacce d’ogni genere, non vedono migliore sorte che finire in terra. I cassonetti, tutti inesorabilmente scoperchiati, sono utilizzati a mo’ di bersagli. Con questo voglio riferirmi ad un’altra usanza locale consistente nella pratica di gettare l’immondizia domestica dal balcone. Non sempre per la mira è felice con conseguenze facilmente immaginabili per l’igiene della zona. Per il turista non è facile assistere ad una tale esibizione, dato che solitamente è praticata a tarda sera.

A fronte di tanta poca pulizia cittadina si potrebbe pensare ad un numero insufficiente di operatori ecologici. Ebbene, questa città ha il numero più elevato di spazzini! Ovviamente è inutile ricordare che il lavoro non è svolto quotidianamente, ma quando fa più comodo. Quando vi è nell’aria un’ispezione, si può assistere ad uno spettacolo unico. Per le vie cittadine decine di operatori ecologici, tutti ovviamente senza tuta da lavoro (per le stesse ragioni dei vigili urbani), si dividono ogni singola strada. Ciascuno si occupa di scopare una striscia di marciapiede. L’attrezzatura di lavoro non è quella cui siamo abituati: carretto con bidone, paletta e scopa. Molto più spartanamente consiste di scopa, un cartoncino per raccogliere i rifiuti ed uno scatolone per contenerli. Una volta pieno, lo spazzino napoletano svuota il suddetto scatolone nel primo cassonetto che trova nei paraggi. In una giornata ventosa, dopo qualche minuto, tutto ci che ha raccolto è nuovamente disperso nei paraggi. Ma questo deve importargli poco. L’essenziale non è il risultato, ma svolgere la mansione.

Un’altro mestiere che da queste parti fa campare moltissima gente è quello del cantante. Il cantante partenopeo ha un look estremamente pittoresco: capelli ingelatati abbondantemente, camicia aperta sul petto (preferibilmente villoso) su cui spicca una vistosa collanona, pantaloni in pelle, anelli tipo C****ttiera.

Il cantante napoletano ama esibirsi dappertutto ma soprattutto scorazza nelle numerose TV locali dove è possibile seguirlo in modalità non-stop 24 ore al giorno. Ritengo che qualsiasi persona dotata di un minimo di intonazione possa intraprendere proficuamente la carriera di cantante napoletano purché per segua tre semplici regole: innanzitutto, cantando, occorre assumere un atteggiamento quasi estatico; quindi fare assumere alla voce quella tipica melodia nasale qui detta a fronne e limone (trad. a rami di limone, ma non chiedetemi perché dicono così); infine, occorre che l’argomento della canzone sia trappa-lacrime e tratto dal di qui vivere quotidiano. Eccellenti soggetti sono: figlio/padre/fratello che va in carcere; figlio e/o figlia che scappa via di casa; fidanzata/moglie che ha messo le corna al titolare della canzone; e chi più ne ha più ne metta. Una canzone napoletana pu essere definita una sceneggiata napoletana sintetizzata e messa in musica. La sceneggiata napoletana non è altro che la rappresentazione della realtà quotidiana dei bassi strati sociali del luogo, in cui essi trovano in essa conforto e riscontro mitizzato. Ne consegue che il napoletano, abituato a rispecchiarsi nelle canzoni che ascolta, finisce per convincersi della sua eroicità quotidiana, di quanto sia vessato dallo stato, dagli altri… Ma questo è un argomento già trattato.

Da quanto detto appare evidente il significato del detto vedi Napoli,  e poi muori: ovvero più in basso di così non si può andare !

Fonte: N.R.


Feb 19 2009

FACITE AMMUINA

Category: Regno delle Due Siciliegiorgio @ 22:27

REGNO DELLE DUE SICILIE

COLLEZIONE DEI REGOLAMENTI  DELLA REAL MARINA

ANNO 1841   N. 266

(N. 6976)  Regolamento da impiegare a bordo dei legni e dei bastimenti della Real Marina Napoli

20 Settembre 1841

Capitolo XIX

Art. 27 –FACITE AMMUINA

All’ordine ‘facite Ammuina” tutti chilli che stanno a prora, vann ‘a poppa e chilli che stann’a poppa vann’a prora; chilli che stann’a dritta vann’a sinistra e chilli che stanno a sinistra vann’a dritta; tutti chilli che stanno abbascio vann’ncoppa e chilli che stanno n’coppa vann’abbascio, passann’tutti p’o stesso pertuso; chi nun tiene nient’a ffa, s ‘aremeni a ‘cca e a’lla.

Ordine: “FACITE AMMUINA!

N.B. : da usare in occasione di visite a bordo delle alte Autorità del Regno.

IL MARESClALLO IN CAPO DEI LEGNI E DEI BASTIMENTI DELLA REAL MARINA”

Amm. Giuseppe di Brocchitto

(dall’archivio storico della Marina Militare)

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Un falso quasi storico

Sebbene il facite ammuina non nasca affatto da un regolamento della marina borbonica, esso trae origine da un fatto storico realmente accaduto (anche se dopo la nascita della Regia Marina italiana).

Un ufficiale napoletano, Federico Cafiero (1807 – 1889), passato dalla parte dei piemontesi già durante l’invasione del Regno delle Due Sicilie, venne sorpreso a dormire a bordo della sua nave insieme al suo equipaggio e messo agli arresti da un ammiraglio piemontese, in quanto responsabile dell’indisciplina a bordo. Una volta scontata la pena, l’indisciplinato ufficiale venne rimesso al comando della sua nave dove pensò bene di istruire il proprio equipaggio a “fare ammuina” (ovvero il maggior rumore e confusione possibile) nel caso in cui si fosse ripresentato un ufficiale superiore, con lo scopo di essere avvertito e contemporaneamente di dimostrare l’operosità dell’equipaggio.


Feb 19 2009

Nel 1861 non conosceva l’emigrazione poi vennero i Savoia

Category: Italia storia e dintorni,Regno delle Due Siciliegiorgio @ 20:47

 

Il Genocidio del Sud

Lettera aperta al Presidente della Repubblica italiana Dott. Azeglio Ciampi 



 

Sig. Presidente, 


La rivendicazione degli ebrei all’ottenimento del rispetto universale, parte dai terrificanti numeri dei morti deportati dell’olocausto. Terrificanti e raccapriccianti per l’entità. Qui si parla di milioni; non di bruscolini ma di esseri umani. E tutta l’umanità riconoscendo la giustezza delle rivendicazioni ebraiche si schiera dalla sua parte, giustamente, ricercando, nei limiti del consentito, i risarcimenti possibili (oltre la caccia agli ultimi carnefici sopravvissuti).

 

Lei si sta accingendo a compiere il viaggio della memoria nelle terre dei re chiamati Galantuomo, Buono, Soldato, perché una agiografia e storiografia di parte e una scuola di regime hanno fatto credere a milioni di italiani che la casta sabauda fosse fatta di Galantuomini, di Buoni e di Soldati. Le cose non stanno così purtroppo. 

 

Per quanto riguarda la questione Savoia il ragionamento dovrebbe essere analogo a quello degli ebrei. A condizione che si possano conoscere i numeri riguardanti: 

 

1) i morti procurati al Sud con l’invasione barbarica del 1860, quella piemontese appunto; i deportati, i torturati, i fucilati o fatti morire di fame, di freddo e di stenti nei dieci anni e passa di repressione fatta chiamare dal re Galantuomo Vittorio Emanuele II repressione del brigantaggio. Secondo La Civiltà Cattolica del tempo i morti furono assai maggiori dei voti del plebiscito. A conti fatti, più di un milione 

 

2) i beni depredati al Sud e trasportati nel Piemonte: ricchezze finanziarie, culturali, sociali, sottratte con la forza dai vincitori 

 

3) gli emigranti diasporati in tutto il mondo per sfuggire alle persecuzioni , alla fame, alla miseria e all’oppressione delle orde piemontesi. Sono 25 milioni Sig. Presidente. Emigrazione biblica dei duosiciliani dopo il nefando 1861 ( medie annue: dal 1863 al 1880, 110.000; fino al 1900, 310 mila; fino al 1905 , 554.000; fino al 1913, 811.000), poi i nostri compatrioti divennero carne da cannone per la prima guerra mondiale ( il Sud ebbe 350 mila morti ) e per la seconda guerra mondiale ( il Sud ebbe 210 mila morti ) dopo quest’ultima guerra sono stati cacciati dal Sud altri 5 milioni di persone e l’emorragia continua con 100.000 nostri connazionali costretti ad emigrare nell’anno corrente. Una vera vergogna per l’Italia repubblicana e democratica. Uno stillicidio. Una diaspora che nemmeno gli ebrei hanno avuto. 

 

4) miliardi incalcolabili di dollari, sterline, pesos, bolivars, escudos, marchi, franchi procurati ai boiardi liberali, capitalisti e massoni del Nord, nell’arco di un secolo ed oltre da chi prima del 1860 non conosceva cosa fosse l’emigrazione, gli emigranti meridionali appunto. Le rimesse degli emigranti, sicuramente più voluminose del Vesuvio, dell’Etna e dello Stromboli messe assieme, sono finite tutte nelle tasche dei predoni cispadani, totali detentori dei mezzi di produzione. Il Sud, privilegiato bacino di mercato dei magnaccia del Nord liberale, liberista e piduista, condannato soprattutto alla disacculturazione più feroce, sta leccandosi ancora le ferite inferte dalla bestialità savoiarda. 

 

5) i morti delle guerre coloniali; i morti contadini ed operai nelle varie repressioni a favore del capitalismo liberista ( cattolici, socialisti, comunisti, borbonici, papalini uccisi dai vari Fumel, Della Rocca, Pinelli, Bixio, Bava Beccaris, Lamarmora ecc ecc); quelli procurati dalle cannonate sulla Sicilia nel 1866, quelli dei fasci sicliliani, quelli di Milano con il criminale Bava Beccaris su ordine del re Buono e quelli della Prima e Seconda guerra mondiale per colpa del re soldato detto pippetto. Se qualcuno vuole dare i numeri è libero di darli ma dovrebbe riuscire a dare quelli su richiamati. E se ci riuscisse farebbe un buon servigio al popolo Meridionale e scoprirebbe che le cifre vanno ben oltre quelle, maledette dell’olocausto. 

 

I piemontesi furono degli assassini spietati, invasero il Regno delle Due Sicilie a tradimento e senza dichiarazione di guerra; rasero al suolo 54 paesi, incendiarono villaggi, bruciarono i raccolti dei contadini per anni, scannarono armenti e bambini, donne, vecchi. Il generale Pinelli negli Abruzzi incendiò 14 paesi in pochi giorni, Bixio eseguì 700 ( settecento) fucilazioni di contadini ed operai con l’assenso dei Savoia. Vi furono eccidi disumani, tremendi, barbari, truculenti. Quegli assassini dei fratelli d’Italia cominciarono a Genova nel 1849 ove il generale Lamarmora soffocò nel sangue il rigurgitare repubblicano dei genovesi, ne morirono circa 700 e la città messa a sacco e fuoco, la violenza dei bersaglieri i liguri se la ricordano ancora. Poi il garibaldino Bixio su ordine del suo generale pirata dei due mondi massacrò i siciliani a Bronte, Recalbuto, a Linguaglossa, e in tutta la fascia etnea, il tutto coordinato dal console inglese che stava a Messina e in nome dei Savoia. 
Gaeta, simbolo del martirio del Sud fu sprofondata da 160 mila bombe dal generale Cialdini, ritenuto macellaio dal popolo del Sud. Gaeta fu rasa al suolo e i morti furono migliaia, sia civili che militari; i gaetani, dopo l’assedio chiesero i danni di guerra al governo torinese, stiamo ancora aspettando quei soldi, due milioni di lire del 1861. Noi li vogliamo. Se questa repubblica, ha ereditato quella italietta artificiale dai Savoia che paghi Sig. Presidente. 

 

Gli eccidi si susseguirono senza soluzione di continuità per oltre dodici anni; gli stati d’assedio erano la regola dei Savoia per scannare i nostri compatrioti Meridionali; la Legge Pica emanata nel 1863 è stata la legge più infame che un parlamento avesse potuto emanare, sotto l’egida savoiarda. Con quella legge furono istituiti tribunali di guerra in tutto il Sud, i soldati avevano carta bianca, le fucilazioni erano cosa ordinaria e non straordinaria. A causa di quella legge furono fucilati vecchi di 90 anni e bambini di dieci e dodici anni. Eccidi vi furono a Vieste, a Venosa, a Bauco, ad Auletta, a Gioia del Colle, a Sant’Eramo, a Pizzoli, a Pontelandolfo e Casalduni ove il generale Negri su comando di Cialdini arrostì e fucilò quasi mille persone; a Nola il generale Pinelli fece fucilare 232 paesani; a Montefalcione fu ecatombe, a Montecillone pure; a Teramo in una settimana furono trucidati 526 contadini; a Isernia i garibaldini ne trucidarono altri 1500; in Basilicata i morti non si contarono, solo il cielo sa quanti furono, in Calabria il generale Gaetano Sacchi fucilò a centinaia i calabresi paesani fino al 1870 e passa, il generale Fumel in un memoriale disse di aver fucilato almeno trecento tra briganti e non briganti; il generale Della Rocca disse che i suoi ufficiali fucilavano solo i capi dei briganti (come venivano chiamati i nostri patrioti e partigiani), e siccome erano migliaia le fucilazioni telegrafava a Torino dicendo di aver fatto fucilare uno,due tre sessanta capi briganti; in Sicilia vi furono migliaia di morti, nel basso Lazio, nel beneventano, nel Molise, nell’avellinese, in Capitanata. 

 

La nostra terra è inseminata di croci, di morti senza nome. Non vi fu villaggio non insozzato dalle orde piemontesi. A Gaeta, nel 1960 trovarono una foiba con duemila morti fucilati sullo spiazzo di Montesecco, li ricordava una stele, una piramide tronca, anche quella è sparita, la gente non deve ricordare, Cavour diede ordine a Cialdini di sparare cannonate anche dopo l’armistizio, durante l’assedio di Gaeta. I piemontesi si comportarono da veri assassini e criminali di guerra. Sig. Presidente, ci fa piacere che stia ricordando agli italiani di San Martino e Solferino dove i francesi si comportarono da eroi, in cambio vollero Nizza e la Savoia e i nostri statisti, ritenuti sommi, li accontentarono. Per molti quegli statisti furono solo dei traditori della patria. Vendettero la moglie al diavolo. 
Ci fa piacere Sig. Presidente, veramente. Il Sud si rallegra di questo, capiamo la sua voglia di unire la Patria sotto un inno nazionale che non capiamo, sotto una bandiera tricolore a cui abbiamo giurato fedeltà e che rispettiamo comunque; tre colori: verde uguale a prosperità dei padani, bianco come la neve delle alpi, rosso come il sangue versato dai meridionali durante la costruzione artefatta di questa Italia che amiamo tanto. I secessionisti hanno tentato la fuga, lo sappiamo. 
L’Italia era costituita da sei staterelli poveri, e da un grande Stato, il Regno delle Due Sicilie, ricco e prospero ove non si conosceva l’emigrazione e la disoccupazione era parola sconosciuta. Per Noi Meridionali l’Italia è nata il 2 giugno del 1946 e in quel giorno nacque il patto tra Nord e Sud che ormai sembra scemare. Non per colpa Nostra. Il Risorgimento piemontese e nordista non ci appartiene, quella genia di malfattori siano incensati da altri. 

 

Lei Sig. Presidente deve essere Super Partes, Noi non possiamo santificare chi ha commesso eccidi nefandi, chi ha derubato il Sud di tutto, chi ha commesso crimini contro l’umanità. È contro la storia, è contro il nostro essere Meridionali. 
Il Sud, nella sua memoria storica ricorda gli eccidi piemontesi, ricorda le stragi, ricorda i crimini commessi in nome e per conto dei Savoia e si sente offeso quando gli si vuole imporre una storia non veritiera; la gente del Sud ribolle rabbia quando gli si ricorda dei Savoia o dei nazisti. 

 

Cavour, Garibaldi, Vittorio Emanuele II di Savoia non sono i nostri eroi Sig. Presidente, non si può far studiare nelle scuole che quei signori ci hanno liberato dalla barbarie e dal tiranno, la ragione è solo una, tiranni e criminali erano loro, i savoiardi appunto. Il Sud era industrioso, laborioso e soprattutto pacifico, mai i nostri governati han dichiarato guerre ad alcuno. Da noi si costruì la prima ferrovia d’Italia, le prime navi a vapore e in ferro, da Noi vi erano le più grandi fabbriche d’Italia…. 

…. da noi vi era lo stabilimento di Pietrarsa, quello della Mongiana o i cantieri navali di Castellammare, da noi vi erano fabbriche di tessuti, di specchi, industrie metallurgiche; vi lavoravano 1,600,000 persone e da Noi vi era un’agricoltura fiorente all’avanguardia; da Noi vi erano banche dei Merdionali, società di assicurazioni, società di mutuo soccorso; da Noi vi erano capitali; da noi nacquero le prime comunità di tipo collettivo e le prime case per gli operai; da noi venne introdotta, per prima, la pensione ; da Noi vennero inventati gli assegni bancari; da Noi scomparì per prima la povertà: si costruirono gli alberghi dei poveri per dare loro un riparo ed un mestiere. 
Da Noi arrivò il gas nel 1836 e nel 1852 il telegrafo elettrico, primissimi in Italia; da Noi la terra fu tutta bonificata e data ai contadini del Sud, ciò che non fecero i sabaudi prosciugando parte della pianura pontina che regalarono ai veneti e friulani mentre i nostri contadini erano costretti all’emigrazione. Tutto questo è stato distrutto dai savoiardi. 


 

Noi siamo un popolo civile Sig. Presidente, l’annessione dell’Italia, quella vera, quella della civiltà, quella di Archimede, di Parmenide, di Zenone, di Epicuro, di Pitagora) operata dalle orde barbariche delle ex province di Roma, secondo alcuni storici ha dato vita all’unità. L’unità d’Italia fatta dai Galli. Incultura o dabbenaggine? L’Italia di Pitagora, quella dei numeri, è stata cancellata dalle menti di certi meridionali e dai cuori dei felloni, ne hanno fatto uso i Crucchi e i Longobardi che sanno fare bene i loro conti, sempre pagati dal Sud. 
Vi è stato sempre chi ha creduto nelle favole, come certo Mussolini, stampella dei Savoia e del vapore padano, che avendo chiamato i veri italici a difendere la patria nell’ora della pugna e del pericolo, se li vide arrivare in Sicilia, ad Anzio e a Salerno. Tutti figli dei diasporati in America dai Savoia. Arrivarono eccome gli italici! E Sciaboletta fuggì, come si conviene ad un re Savoia. Lei Sig. Presidente ha sofferto la fuga del Savoia infingardo, l’hanno sofferta milioni di italiani, milioni di europei, milioni di americani, australiani, neozelandesi, africani. L’Italia ridotta a maceria, alla fame, all’emigrazione. 

 

Sig. Presidente, 
A Sand Creek gli americani assassinarono 165 Cheyenne ed Aràpaho ma dopo 136 anni, sentendo i lamenti di Antilope Bianca, di Donna Sacra e di Pentola Nera massacrate sulle rive di quel di torrente di sabbia il Congresso americano ha sentito il dovere di approvare all’unanimità l’erezione di una stele che ricordasse al mondo tale nefando eccidio. Non fu certo l’unica strage perpetrata dai soldati blu americani quella di Sand Creek e il lontano west oggi è pieno di stele e monumenti che ricordano le barbarie commesse per costruire quel gigante economico che è oggi l’America. 

 

Lei sta visitando i luoghi e i siti cari alla leggenda risorgimentale: San Martino, Solferino, Novara, Goito, Torino, le case dei cosiddetti padri della Patria per infondere negli italiani l’amore per la bandiera, per l’inno nazionale, per unire gli italiani. Fa bene Sig. Presidente, glielo diciamo col cuore. 
Nel 1860 l’Italia il Regno delle Due Sicilie era il più ricco tra gli Stati italiani, il suo debito pubblico era tenuissimo, la sua riserva aurea pari al doppio di quelle degli altri stati della penisola messi assieme. Il Tesoro italiano, costituito nel 1861, era di 668 milioni di lire di cui 443 appartenevano al Reame e solo 8 alla Lombardia e 27 al Piemonte che ci lasciò un debito pubblico di oltre un miliardo di allora, debito che il Sud sta ancora pagando con lacrime e sangue. Nel vituperato regno dei Borbone non esisteva quasi la disoccupazione, la povertà era stata estirpata, i poveri censiti  messi nei vari alberghi dei Poveri a imparare un mestiere e l’emigrazione era parola inesistente nel vocabolario delle nostre popolazioni. Il primo ad emigrare fu Francesco II di Borbone che il 14 febbraio del 1861 dopo aver difeso la sua patria fino alla morte, da vero eroe dovette andare in esilio a Roma, ospitato dal papa nel palazzo ove Lei oggi risiede, e fatto morire all’estero dai Savoia. 


 

Sig. Presidente, 

per dodici anni il Sud fu immolato alla causa dell’Italietta artificiale ed artificiosa dei Savoia, i Meridionali trattati da quegli assassini dei fratelli d’Italia come maiali da appendere e spennare. Un grande meridionalista di nome Antonio Gramsci, il cui padre era di Gaeta che conoscendo a menadito la storia ebbe a dire che Lo Stato italiano (leggasi sabaudo) è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti. 

 

I veri briganti erano loro, i Savoia. Il Sud divenne un inferno, il Piemonte era stato delegato dalle potenze di allora a creare una borghesia vorace, liberale, senza scrupoli. A spese del Sud. Il Piemonte accentrò il potere, l’economia, annullò l’autonomia impositiva dei comuni; annullò tutte quelle istituzioni, sia pubbliche che religiose, che per secoli avevano consentito un equilibrio unico al mondo, che consentiva ai deboli di difendersi dai soprusi dei ricchi; annullò l’ordinamento fiscale in vigore nel Reame dei Borboni ritenuto il migliore del mondo; annullò lo stato Sociale del Sud e che i Borbone avevano eletto a patrimonio morale; annullò la libertà e impose gli stati d’assedio perenni, negò la libertà di stampa facendo chiudere tutti i quotidiani di opposizione. Il Piemonte, grazie alla vendita dei beni ecclesiastici e demaniali espropriati alla comunità incamerò centinaia di miliardi che hanno sostentato l’industria del Nord; il Piemonte con le leggi protezionistiche a danno del Sud decretò la morte del sistema industriale meridionale. 

 

Sig. Presidente, 

per oltre un secolo scrittori salariati e storici infami di regime hanno denigrato il Sud e i Borbone…
tanto che la parola borbonico nell’accezione imperante è diventata sinonimo di arretrato, di inefficiente. Quei signori prezzolati , pennivendoli di parte, hanno infangato la Nostra terra, un Regno in salute, efficiente, ricco e prospero; quei signori hanno infangato la sua amministrazione, la sua efficienza amministrativa e tributaria, hanno infamato i contadini del Sud chiamandoli briganti, la sua storia. È ora di rendere giustizia al Sud. 

 

Sig. Presidente, 
il Sud sta prendendo coscienza del suo male, l’Italia potrebbe dividersi veramente se non si mette fine ad una divisione di fatto, quella operata dai Savoia nel 1861. Il pericolo non è Bossi che siede da ministro tra gli scranni governativi, il pericolo viene dal Sud, dal Sud martoriato da 140 anni di bugie risorgimentali, da quel Sud scannato e colonizzato dai piemontesi. Al Sud sta nascendo un partito che vuole giustizia dei torti subiti dalle orde savoiarde, che vuole giustizia dei suoi morti, delle ruberie perpetrate ai suoi danni, dei danni di guerra ancora non pagati, dei demani messi in vendita dai vari governi per far fronte alla voragine debitoria del Paese. Non possiamo avere strade e piazze intitolate a Cavour che fece radere al suolo intere città mietendo migliaia di vittime, non possiamo avere strade e piazze intitolate agli infingardi Savoia e ai loro generali macellai e criminali di guerra che scannarono le nostre popolazioni. Questo è colonialismo puro. Il Sud vuole riappropriarsi della sua storia, delle sue ricchezze depredate, delle sue tradizioni, della sua bandiera da esporre a fianco di quella italiana, come avviene in tutto il mondo civile. In America accanto alla bandiera a stelle e strisce, in tutti gli uffici pubblici degli stati confederati, vi è quella del Dixie, cioè la bandiera degli stati del Sud sconfitto. 


 

Sig. Presidente, 

la invitiamo a Gaeta, città simbolo del Sud martoriato, città ove è nata quell’Italia artificiale; anche i nostri morti vogliono essere ricordati con pari dignità, i nostri eroi vogliono essere ricordati e riconosciuti dalla massima autorità dello Stato, come quelli di Novara, di Solferino. Perfino i repubblichini di Salò sono stati legittimati, forse anche loro combattevano per una patria serva dei tedeschi, molti erano in buona fede , altri no. 

 

La cittadina tirrenica è ancora un cimitero senza croci dopo 140 anni, le cannonate dei Savoia le sentiamo ancora, l’assedio di Gaeta grida vendetta; venga al Sud Sig. Presidente, venga a Pontelandolfo e Casalduni, venga a a Montefalcione, a Nola, a Isernia, a Bronte. 


Il Sud intero aspetta una Sua autorevole visita nei luoghi della Nostra memoria; venga a visitare le mille città meridionali immolate al Risorgimento piemontese e savoiardo. Ognuno, sotto un’unica bandiera innalzi monumenti ai propri eroi, intitoli loro piazze e strade. Un giorno potremmo cancellare le lapidi intitolate ai vari Garibaldi e ai vari felloni che strangolarono e divorarono il Sud, non possiamo assistere al ritorno di quelle ideologie del Nord che hanno infamato l’Italia, non possiamo assistere allo spettacolo pietoso di immoralità che pervade la nostra patria, allo spettacolo vergognoso di pregiudicati che siedono sugli scranni del parlamento italiano, questo non succede nemmeno nelle Repubbliche delle Banane e il mondo ci schifa, ci rifiuta. 

 

Sig. Presidente,
La imploriamo da italiani veri, venga a Gaeta a rinsaldare i veri valori italici; i nostri soldati, morti da veri eroi sulla fortezza ove si fece l’Italia, aspettano una parola, un conforto, aspettano soprattutto giustizia. L’Italia non sia più matrigna ma madre di tutti. 


Noi non odiamo il tricolore, vogliamo veramente una Italia unita, vogliamo veramente una economia unita; non più ricchezza solo al Nord, non più banche strozzine nei confronti del Sud; non più razzismi; non più emigrazione; non più disoccupazione; chiediamo solo lavoro, salute, ospedali, scuole, infrastrutture come chiediamo una programmazione scolastica degna di una nazione civile. Il Congresso americano non si è vergognato di chiedere scusa agli indiani per gli eccidi commessi, ma oggi l’America è una sola nazione, il suolo americano ritenuto sacro da tutti, sia dagli indiani che dagli invasori europei, dagli italiani fatti emigrare dai Savoia come dagli spagnoli e portoricani. Quando andrà a visitare Torino vada a visitare anche il carcere lager di Fenestrelle, quello di San Maurizio e quello di Alessandria, vi morirono 56 mila soldati napolitani che non vollero tradire il giuramento fatto alla loro bandiera e al loro re. 

 

Sig. Presidente, 
esiste in Italia una realtà territoriale senza territorio, come l’isola che non c’è di Peter Pan abitata da amebe che, nell’ignavia più totale, lasciano che la catastrofe socio-economica si consumi fino in fondo, conservando, comunque, sentimenti patriottici che vedono deperire il territorio all’ombra del tricolore italiano. Il demanio intende vendere la nostra storia al miglior offerente e dalle nostre parti il miglior offerente è quasi sempre la Camorra, i nostri legislatori han messo in vendita tutte le batterie borboniche, strade, castelli, caserme. Il Piemonte invece incassa 606 miliardi per riattare i suoi siti storici. Questo è colonialismo. Gaeta deve pagare il pizzo allo Stato per far passeggiare i suoi abitanti, per far studiare i suoi figli, da Noi tutto è demaniale e mentre i Borbone pagavano al nostro comune 5 grana al giorno per ogni militare di stanza sul suolo della nostra comunità i Savoia hanno preteso una tangente fissa che si continua a pagare. 


Gaeta è città piena di storia, anello di congiunzione tra Nord e Sud, pur avendo avuto per oltre un millennio una sua moneta, leggi proprie veramente federaliste, un governo democratico, navigatori come Giovanni Caboto ed Enrico Tonti che esportarono democrazia e leggi del Ducato di Gaeta (vera repubblica marinara) nelle lontane Americhe, una Città-Stato che ha avuto un ruolo rilevantissimo e determinante nella battaglia di Lepanto ( di cui conserva lo Stendardo). La battaglia che insieme a quella di Poitiers ha permesso di salvare la Civiltà Occidentale, Cristiana, Umanista e laica di stampo Greco-Romana si trova nella grottesca situazione per cui, chissà a quale misterioso sortilegio, le sue strade, le sue piazze, le sue scuole, la Casa comunale, i suoi litorali, i suoi castelli, i suoi palazzi, le sue montagne e quant’altro risultano proprietà dello Stato. 

 

Alle soglie del 2002 d.c., mentre troppi, salvo Lei Sig. Presidente della Repubblica italiana che perora la Causa Costituzionalmente sancita del decentramento, si sciacquano la bocca con la parola federalismo e fanno gargarismi con la locuzione autonomie locali, ci troviamo a Gaeta ancora in presenza dell’occupazione sabauda operata dal generale Cialdini, il quale completava il disegno colonialista portato avanti in Italia dai Savoia. La continuazione di tale nefanda situazione a quale ragionevole reazione dovrebbe condurre un cittadino di questa plaga così umiliata nella sua storia, nelle sue radici culturali? Deve invocare il federalismo o la secessione per riscattare la propria dignità? Noi siamo per un confederalismo serio, che dia a Gaeta e a tutte le città del Sud il maltolto e la propria storia. Confidiamo in una sua risposta positiva alla richiesta di invito del Partito del Sud per ristabilire la verità storica e il dovuto tributo ai nostri morti. Viva l’Italia, viva il tricolore, viva la bandiera del Sud.

 

Fonte: da  IL PARTITO DEL SUD  -ANTONIO CIANO- 
Via Piave, 15 – Gaeta  (LT)


Feb 19 2009

L’ olocausto di casa nostra

Category: Regno delle Due Siciliegiorgio @ 19:06

 

Appunti sull’ olocausto del popolo del Regno delle due Sicile

 

“Si arrestano da Cialdini soldati napoletani in grande quantità, si stipano ne’ bastimenti peggio che non si farebbe degli animali, e poi si mandano in Genova. 

Trovandomi testé in quella città ho dovuto assistere ad uno di que’ spettacoli che lacerano l’anima.  

Ho visto giungere bastimenti carichi di quegli infelici, laceri, affamati, piangenti; e sbarcati vennero distesi sulla pubblica strada come cosa da mercato. Alcune centinaia ne furono mandati e chiusi nelle carceri di Fenestrelle: un ottomila di questi antichi soldati Napoletani vennero concentrati nel campo di S. Maurizio”

Fonte: Fulvio Izzo,  da – I lager dei Savoia.

 

«Potete chiamarli briganti, ma combattono sotto la loro bandiera nazionale; potete chiamarli briganti, ma i padri di quei briganti hanno riportato due volte i Borbone sul trono di Napoli. 

E’ possibile, come il governo vuol far credere, che 1500 uomini comandati da due o tre vagabondi tengano testa a un esercito regolare di 120.000 uomini? 

Ho visto una città di 5000 abitanti completamente distrutta e non dai briganti» 

(Ferrari allude a Pontelandolfo, paese raso al suolo dal regio esercito italiano il 13 agosto 1861)”.

Fonte: Deputato Ferrari, Novembre 1862 – Aula dei Deputati.

 

“Contro la duplice oppressione cui li hanno sottoposti in questi cinquant’anni di unità politica i “galantuomini” locali e l’industrialismo settentrionale, i “cafoni” meridionali hanno reagito sempre, come meglio o come peggio potevano. 

Subito dopo il 1860 si dettero al brigantaggio: sintomo impressionante del malessere profondo che affaticava il Mezzogiorno, e nello stesso tempo indizio caratteristico del vantaggio che si potrebbe ricavare – quando ne fossero bene utilizzate le forze – da questa popolazione campagnola del Sud, che senza organizzazione, senza capi, abbandonata a se stessa, mezzo secolo fa tenne in scacco per alcuni anni tanta parte dell’esercito italiano”.


Fonte: srs Gaetano Salvemini

 

«sessanta battaglioni e sembra non bastino»: «Deve esserci stato qualche errore; e bisogna cangiare atti e principii e sapere dai Napoletani, una volta per tutte, se ci vogliono o no… agli Italiani che, rimanendo italiani, non volessero unirsi a noi, credo non abbiamo diritto di dare delle archibugiate».

Fonte: Massimo D’Azeglio nel 1861 si domanda in aula come mai «al sud del Tronto» sono necessari

 

«Desidero sapere in base a quale principio discutiamo sulle condizioni della Polonia e non ci è permesso discutere su quelle dei Meridione italiano. E’ vero che in un Paese gl’insorti sono chiamati briganti e nell’altro patrioti, ma non ho appreso in questo dibattito alcun’altra differenza tra i due movimenti».

Fonte: Disraeli ex cancelliere dello Scacchiere (e futuro primo ministro), alla Camera dei Comuni di Londra, nel 1863- da http://digilander.libero.it/fiammecremisi/briganti.htm

 

“Dal 1861 al 1865 la ribellione sociale del mezzogiorno d’Italia cosò la vita a 5212 “briganti”. Altri 5044 furono arrestati e, assieme ai 3597 “consegnati” 

Fonte: Controstoria dell’Unità d’Italia, di Gigi Fiore

 

“Si è sempre creduto che le uniche colpe di cui si coprirono gli ignobili Savoia, fossero riconducibili alle 2 guerre mondiali, l’uso di armi chimiche nelle guerre coloniali e non solo, la firma delle leggi raziali ed il fascismo. Ma i Savoia fecero di molto peggio. Durante e dopo l’annessione del Regno delle due Sicilie si manifestò un problema inaspettato. I soldati Borbonici rimanevano fedeli al loro re e visto che per motivi di immagine non potevano essere massacrati sul posto, si decise di allestire per loro una SOLUZIONE FINALE. 

Furono trasferiti al nord tra milano genova e torino in appositi CAMPI DI CONCENTRAMENTO, con una sola certezza, dovevano entrarci in piedi ed uscirci stesi. L’italia era ormai unita e quelli erano italiani, ma italiani di serie B. Solo la fortezza delle finestrelle, ora emblema del Piemonte e di Torino, ingoiò tra 25000 e 50000 soldati Borbonici, risputandone solo i corpi esanimi. Il numero ufficiale dei morti nei LAGER è ancora coperto dal segreto di stato, malgrado questo decada dopo 50 anni, ma in fondo ne sono passati solo 170. Visto che alcuni dubitano su quanto scrivo vi allego il carteggio trà cavour e il generale lamarmora, riguardante questa tematica e anche la bibliografia, aspetto vostri commenti e domande.”

Fonte: da RifondazioneBorbonica


 

Carissimo amico. Io vi prego a nome pure dei miei colleghi a rifletterci ancora sopra prima di spedire qui tutte le truppe napoletane che il Papa e i Francesi ci restituiscono, è, a parer mio, atto impolitico sotto tutti gli aspetti. Il trattare tanta parte del popolo da prigionieri non è mezzo di conciliare al nuovo regime le popolazioni del Regno. Il pensare di trasformarli in soldati dell’esercito nazionale è impossibile e inopportuno. Pochissimi consentono ad entrare volontariamente nel nostro esercito, il costringerli a farlo sarà dannoso anziché utile almeno per ciò che riflette gran parte di essi. Ho pregato Lamarmora di visitare lui stesso i prigionieri che sono a Milano. Lo fece con quella cura che reca nell’adempimento di tutti i suoi doveri. Poscia mi scrisse dichiarandomi che il vecchio soldato napoletano era canaglia di cui era impossibile trarre partito; che corromperebbe i nostri soldati se si mettesse in mezzo a loro. Credo che bisogna fare una scelta, mandare a casa tutti quelli che hanno piú di due anni di servizio, dichiarando loro che al menomo disordine sarebbero richiamati sotto le armi e mandati a battaglioni di rigore. Tenere sotto le armi quelli che non hanno compiti due anni di servizio e quelli fonderli nei reggimenti, costringendoli a servire per amore o per forza. Vi prego di comunicare queste idee a Fanti, invitandolo a nome del Consiglio a soprassedere almeno per qualche tempo dallo spedire a Genova quegli ospiti incomodi… Vi mando la lettera di Lamarmora sui prigionieri Napoletani… “.

Fonte: lettera di Cavour a Farini, luogotenente a Napoli, datata 21 novembre 1860, n. 2551 vol. III:

 

“… Non ti devo lasciar ignorare che i prigionieri Napoletani dimostrano un pessimo spirito. Su 1600 che si trovano a Milano non arriveranno a 100 quelli che acconsenton a prendere servizio. Sono tutti coperti di rogna e di vermina, moltissimi affetti da mal d’occhi… e quel che è piú dimostrano avversione a prendere da noi servizio. Jeri a taluni che con arroganza pretendevano aver il diritto di andar a casa perché non volevano prestare un nuovo giuramento, avendo giurato fedeltà a Francesco secondo, gli rinfacciai che per il loro Re erano scappati, e ora per la Patria comune, e per il Re eletto si rifiutavan a servire, che erano un branco di carogne che avressimo trovato modo di metterli alla ragione. Non so per verità che cosa si potrà fare di questa canaglia, e per carità non si pensi a levare da questi Reggimenti altre Compagnie surrogandole con questa feccia. I giovani forse potremo utilizzarli, ma i vecchi, e son molti, bisogna disfarsene al piú presto”.

Fonte: la lettera di Lamarmora;  del Carteggio di Cavour, La Liberazione del Mezzogiorno, Zanichelli


Feb 19 2009

Carlo Antonio Gastaldi: un operaio Biellese, brigante dei Borboni

Category: Regno delle Due Siciliegiorgio @ 00:12

Carlo Antonio Gastaldi da soldato dell’esercito piemontese, sceso al sud per reprimere il brigantaggio, diventa brigante della banda del sergente Pasquale Domenico Romano di Gioia del Colle, in provincia di Bari. 

Nacque il 7 novembre 1834 in Piemonte a Vagliumina (oggi quarantasei abitanti), piccola frazione di Graglia, in provincia di Biella. Il padre era selciatore, lui cardatore. 

Nel 1855 fu arruolato in fanteria. Combattè contro gli austroungarici a Palestro, meritandosi una medaglia d’argento. Ma la vita militare non era per lui. Venne condannato più volte, dal Tribunale di guerra, al carcere. Due volte fu graziato dal re piemontese. 

Il 1861 fu l’anno dell’Italia “unita”. L’esercito piemontese, per unire il sud al regno sabaudo, scese nell’ex Regno delle Due Sicilie con un’imponente armata per combattere la Resistenza del popolo meridionale. Anche Carlo Gastaldi, numero di matricola 17056, nel “Corpo Cacciatori Franchi” del 16° Reggimento di Fanteria, IV Battaglione, partì per dare la caccia ai “briganti”. 

Fu prima a Taranto e poi a Brindisi. Nelle Puglie era in atto una delle più grosse rivolte contadine, capitanata da Pasquale Domenico Romano, ex sergente dello sconfitto esercito borbonico e ora comandante generale, nominato dal Comitato borbonico segreto di Gioia del Colle. 

Un grande successo della banda brigantesca del sergente Romano, che contava oltre 200 uomini sotto la bandiera bianca gigliata borbonica, fu la riconquista di Gioia del Colle, suo paese natale, avvenuta il 28 luglio 1861. Ma la vittoria durò poco. La vendetta dei piemontesi fu terribile. Secondo quanto si dice nella tradizione popolare furono massacrati 150 rivoltosi. 

Intanto Carlo Gastaldi, per aver venduto due mazzi di cartucce ed una coperta da campo viene prima rimesso in prigione e poi destinato per “cattiva condotta” al Corpo disciplinare di Finestrelle (Torino). Ma durante il trasferimento, sotto scorta dei carabinieri, nella notte tra il 17 ed il 18 novembre 1862, nei pressi di Fasano, riesce a scappare. Viene dichiarato disertore per la terza volta. 

Abbandonato l’esercito piemontese, mentre era alla macchia incontra i briganti del sergente Romano e si arruola con loro. Erano povera gente come lui. 

Entra subito nelle simpatie del comandante Romano, diventandone amico e confidente, una specie di segretario-luogotenente. E non solo. Il Gastaldi ottiene anche le confidenze più segrete ed intime del Comandante: personali ed amorose. Perso l’amore di Lauretta d’Onghia, Enrico La Morte (era questo il nome di battaglia che si era dato il sergente Romano) si consolava come poteva con altre ragazze che incontrava nelle masserie che lo ospitavano. 

Il Gastaldi partecipa attivamente a tutte le scorribande brigantesche del Romano. Il 21 novembre 1862 si ottiene la vittoriosa battaglia di Carovigno. Il giorno dopo viene assaltata la masseria Santoria, a cinque chilometri da Torre Santa Susanna, dove viene sequestrato il massaro Giuseppe de Biase, vecchio liberale, che poi verrà ucciso. A queste azioni partecipa anche il comandante Cosimo Mazzei di San Marzano, detto Pizzichicchio, che aveva unito la sua banda a quella del Romano. Nei giorni successivi si è ad Erchie, Avetrana, Grottaglie, Massafra, Mottola. 

La mattina del 24 novembre 1862 la banda Romano si acquartiera nel bosco delle Pianelle, nei pressi di Martina Franca, che già nei primi anni del secolo era stato la base per le imprese del prete brigante don Ciro Annicchiarico. Da qui il Romano manda dei corrieri in Basilicata per proporre un’intesa al capobrigante Carmine Donatelli Crocco. Ma non se farà niente. 

Il 1° dicembre 1862 la compagnia fa sosta alla masseria dei monaci di San Domenico. Sono presenti tutti i comandanti delle bande del Salento e del Barese. Nella notte i piemontesi sferrano un attacco di sorpresa. E’ una disfatta per i briganti. Ne muoiono in tanti; muore anche il comandante Giuseppe Nicola La Veneziana, vengono feriti Pizzichicchio e Quartulli. Molti fuggono. 

Pasquale Romano, che con 40 uomini era andato alla ricerca di provviste e foraggio, non partecipa alla battaglia. Si salva anche Carlo Gastaldi. 

I comandanti superstiti decidono di sciogliere la compagnia e prendono strade diverse. Il Romano rimane alle Pianelle con una quarantina dei più fedeli: tra questi vi è Carlo Gastaldi. 

Curati i feriti e recuperati i fuggiaschi dispersi, dopo qualche giorno si parte per la masseria Santa Chiara di Noci. Qui il Gastaldi consegna al prete don Vito Nicola Tinella (che si trovava lì per celebrare una messa ai briganti) una lettera da far recapitare ad un fratello che si trovava a Napoli. Ma il prete anziché spedirla, apre e legge la lettera, che strappa poi in quattro pezzi e si mette in tasca.  La lettera verrà consegnata dallo stesso don Tinella alla polizia, che lo aveva arrestato, a dimostrazione che non aveva voluto collaborare con i briganti. 

Nella lettera, in realtà indirizzata al padre, Gastaldi tra l’altro parlava delle battaglie vittoriose degli uomini capitanati dal Romano, che non erano «briganti come erano spacciati». 

Dopo varie scaramucce con i piemontesi, il sergente Romano decide di ritirarsi con i pochi a lui rimasti fedeli nel bosco di Vallata, nei pressi del suo paese Gioia del Colle. La sera del 6 gennaio 1863 i piemontesi circondano il bosco. E’ la fine. Ventidue “briganti” restano uccisi sul campo, Tra essi il sergente Pasquale Domenico Romano. Pochi si salvano, o facendo finta di esser morti, o dandosi alla fuga. 

Tra gli scampati vi è Carlo Gastaldi, che qualche mese dopo, con la speranza di aver salva la vita, si consegna ai piemontesi a Bari. Subisce due processi; nel primo per fatti inerenti al brigantaggio viene condannato a 15 anni, nel secondo per la diserzione la condanna è di 18 anni di lavori forzati. A seguito di questa sentenza il Gastaldi viene radiato definitivamente dall’esercito. 

E’ l’ultima notizia che abbiamo di lui: poi più nulla. 

 

Ma il Gastaldi merita di essere ricordato, se non altro perché ebbe il coraggio di schierarsi al fianco del più idealista dei “briganti” del Mezzogiorno. 

 

 

Gustavo Buratti, grande studioso delle minoranze linguistiche esistenti in Italia, scrive la storia del Gastaldi in dialetto piemontese con traduzione italiana a fronte. Nella traduzione ho notato qualche inesattezza, specialmente dal punto di vista geografico sui paesi pugliesi. 

 

Mi piace chiudere la mia recensione con un passo tratto dalla nota di edizione che introduce il libro: «Il Piemonte non sono solo i Savoia, sono anche e soprattutto i Gastaldi, i contadini delle Langhe, del Cuneense, delle sue campagne. Sono i Nuto Revelli, i Gustavo Buratti». 

E con loro e tramite loro è possibile un incontro tra Nord e Sud. 

In appendice al libro sono elencati, con brevi cenni biografici, 169 (centosessantanove) uomini della banda Romano. 

Rocco Biondi 

 

 

 

Fonte:  srs di   Gustavo Buratti (12-4-2008)/ Carlo Antonio Gastaldi – Un operaio Biellese brigante dei Borboni, Qualecultura (Vibo Valentia) – Jaca Book (Milano), 1989, pp. 100


Feb 18 2009

Il Giuramento dei Briganti, i partigiani del Regno delle Due Sicilie

Category: Regno delle Due Siciliegiorgio @ 22:58

 

Noi giuriamo davanti a Dio e dinanzi al mondo intiero di essere fedeli al nostri augustissimo e religiosissimo sovrano Francesco II (che Dio guardi sempre);  e promettiamo di concorrere con tutta la nostra anima e con tutte le nostre forze al suo ritorno nel regno; di obbedire ciecamente a tutti i suoi ordini, a tutti i comandi che verranno sia direttamente, sia per i suoi delegati dal comitato centrale residente a Roma. 

Noi giuriamo di conservare il segreto, affinché la giusta causa voluta da Dio, che è il regolatore de’ sovrani, trionfi col ritorno di Francesco II, re per la grazia di Dio, difensore della religione, e figlio affezionatissimo del nostro Santo Padre Pio IX, che lo custodisce nelle sue braccia per non lasciarlo cadere nelle mani degli increduli, dei perversi, e dei pretesi liberali; i quali hanno per principio la distruzione della religione, dopo aver scacciato il nostro amatissimo sovrano dal trono dei suoi antenati.

Noi promettiamo anche coll’aiuto di Dio di rivendicare tutti i diritti della Santa Sede e di abbattere il lucifero infernale Vittorio Emanuele e i suoi complici.” 

“Noi lo promettiamo e lo giuriamo”.

 

Fonte:  Campani Arrabbiata./ da: M. Monnier, Notizie storiche documentate sul brigantaggio nelle province napoletane, Barbera, Firenze, 1863

 

 

GIURAMENTO TROVATO NELLE TASCHE DEL BRIGANTE SERGENTE ROMANO

 

Promettiamo e giuriamo

di sempre difendere con l’effusione del sangue Iddio, il sommo pontefice Pio IX, Francesco II, re del regno delle Due Sicilie, ed il comandante della nostra colonna degnamente affidatagli e dipendere da qualunque suo ordine, sempre pel bene dei sopranominati articoli; così Iddio ci aiuterà e ci assisterà sempre a combattere contro i ribelli della santa Chiesa.

Promettiamo e giuriamo ancora

di difendere gli stendardi del nostro re Francesco II a tutto sangue, e con questo di farli scrupolosamente rispettare ed osservare da tutti quei comuni i quali sono subornati dal partito liberale.

Promettiamo e giuriamo inoltre

di non mai appartenere a qualsivoglia setta contro il voto unanimemente da noi giurato, anche con la pena della morte che da noi affermativamente si è stabilita.

Promettiamo e giuriamo

che durante il tempo della nostra dimora sotto il comando del prelodato nostro comandante distruggere il partito dei nostri contrari i quali hanno abbracciato le bandiere tricolorate sempre abbattendole con quel zelo ed attaccamento che l’umanità dell’intiera nostra colonna ha sopra espresso, come abbiamo dimostrato e dimostreremo tuttavia sempre con le armi alla mano, e star pronto sempre a qualunque difesa per il legittimo nostro re Francesco II.

Promettiamo e giuriamo

di non appartenere giammai per essere ammesso ad altre nostre colonne del nostro partito medesimo, sempre senza il permesso dell’anzidetto nostro comandante per effettuarsi un tal passaggio.

Il presente atto di giuramento

si è da noi stabilito volontariamente a conoscenza dell’intera nostra colonna tutta e per vedersi più abbattuta la nostra santa Chiesa cattolica romana, della difesa del sommo pontefice e del legittimo nostro re.

Così abbracciare tosto qualunque morte per quanto sopra si è stabilito col presente atto di giuramento

 

Fonte: srs  T. PEDIO  “Inchiesta sul brigantaggio” Fasano di Puglia 1983

 

 

I  COMANDAMENTI DEL BRIGANTE

 

1. – Cercare di colpire sempre gli ufficiali e i graduati, è meglio uccidere un solo ufficiale che molti soldati (quando si colpisce la testa, le altre membra diventano inutili).

2. – Caduto l’ufficiale, gli uomini, senza direzione facilmente fuggono

3. – Non accordare mai quartiere ai feriti e ai prigionieri, ucciderli, scannarli e massacrare i cadaveri in modo da impressionare i soldati quando li ritroveranno.

4. – Il soldato quando si batterà, penserà sempre alla fine che l’aspetta se cade ferito o prigioniero e quando vedrà le brutte… scapperà…

5. – Esporre la vita per salvare un compagno, ucciderlo piuttosto che resti ferito o prigioniero dei soldati.

6. – Nei combattimenti corpo a corpo non fare le spacconate dei soldati di menare calciate di fucile; giuocare invece serrato di coltello; tirare colpi alla pancia e girarvi dentro la lama; si fanno ferite più dolorose, che si sentono subito, si vedono uscire fuori le budella, e difficilmente guariscono.

7. – Attaccare la truppa quando si ha la certezza di vincere, mantenersi nascosti, o fuggire quando non si è in numero e in posizione vantaggiosa.

8. – Mettersi tanto di notte quanto di giorno in posizioni elevate, possibilmente vicino a boscaglie, che offrono sicuro scampo, perché i soldati difficilmente vi si internano.

9. – Non risparmiare la vita dei soldati, mai e poi mai quella degli squadriglieri; far del tutto per averli vivi in mano per poi farne strazio.

10. – Durante il combattimento qualunque atto di insubordinazione o mancata obbedienza deve essere punita dal capobanda con una schioppettata nella testa.


Feb 18 2009

LA COCCARDA ROSSA DEI BRIGANTI MERIDIONALI

Category: Regno delle Due Siciliegiorgio @ 20:54

 

La coccarda appartenente   al Sergente Romano 

 

Era il distintivo di cui i leggittimisti meridionali si fregiavano sin dall’invasione francese del 1799. Dopo la caduta di Gaeta i briganti mostrarono con orgoglio la coccarda rossa nella quale capeggiava il giglio borbonico sia sui copricapo a grosse falde che sul petto.

da: “BRIGANTI & PARTIGIANI” – a cura di: Barone, Ciano, Pagano, Romano – Edizione Campania Bella

 


Feb 18 2009

LE GESTA DEL BRIGANTAGGIO: IL SERGENTE ROMANO

Category: Italia storia e dintorni,Regno delle Due Siciliegiorgio @ 19:58

 

Nell’intervallo di tempo che corse dall’estate del 1861 all’autunno del 1863 si svolsero in Puglia le gesta più formidabili del brigantaggio; il quale per audacia di tentativi e per numero di seguaci, arrivò a tal segno da infrangere la fiducia d’ogni classe di cittadini nelle nuove istituzioni. 

A nord, fra il basso Molise, il Beneventano e la Capitanata, imperversavano le bande di Varanelli, Schiavone, Del Sambro e Caruso di Torremaggiore, che era il più sanguinano e crudele dei briganti pugliesi; nel montuoso Gargano infuriava con Palumbo, Sammarchese, Scirpoli, Paletta ed altri fuoriusciti il feroce Gatta, orbo da un occhio; e a mezzogiorno della medesima provincia, tiranneggiava Palliacello: erano centinaia e centinaia di predoni, che sovente si adunavano al bosco delle grotte, non lungi dal Fortore, ove anche convenivano, per macchinare più arrischiate imprese, Crocco, Minelli, Cicogna e simili protagonisti della reazione borbonica. 

A sud, nella penisola salentina, scorazzavano altre numerose, ma piccole bande, capitanate da La Veneziana, Mazzeo, Trinchera, Monaco, Valente, Scarati, Perrone, Cristilli e Locaso, che con una orda composta in gran parte di contadini di Santeramo batteva gli estremi limiti di Puglia, Basilicata e Calabria. Al centro della regione, in Terra di Bari, oltre al sergente Romano, correvano le nostre pianure Francesco Saverio l’Abbate di Polignano, Cataldo Franchi di Ruvo, Luigi Terrone di Corato, Riccardo Carbone e Riccardo Colasuonno (Ciucciariello) di Andria; Marco e Scipione de Palo di Terlizzi, Bellettieri di Spinazzola ed altri minori duci. 

Alle quotidiana rappresaglia di torme indigene si aggiungevano qui le irruzioni delle masnade finitime, favorite dall’intermedia positura dell’agro barese. Carmine Donatello, che stanziava d’ordinario sulle rive dell’Ofanto, Giuseppe Nicola Summa, che soggiornava nei boschi di Lagopesole, Tortora, Cavalcante, Coppolone, Serravalle, il Capraro, Nenna Nenna e Pizzichicchio, il quale aveva il suo quartiere fra le macchie di San Marzano, in Terra d’Otranto; quasi tutti i capi banda di Basilicata e Lecce, a brevi intervalli, connivente il Romano, piombavano sull’agro barese, apportandovi calamità inaudite. Gravi minacce incombevano sulla provincia di Bari nell’autunno del 1861. Un ufficio riservatissimo, inviato dalla nostra prefettura al presidente della Gran Corte Criminale di Trani, riferendosi agli arresti compiuti nel comune di Gioia in conseguenza della nota sommossa, si esprime così circa il contegno delle nostre popolazioni:

“Credo opportuno mettere sotto gli occhi di V.S. che la condizione dei tempi che corrono, è più grave di quella in cui furono eseguiti gli arresti; che la ridicola credenza dell’avvenuta o possibile restorazione dei Borboni è generale nel basso popolo, che l’impudenza nell’agitarsi e spargere tali notizie, precisamente dalle famiglie dei detenuti, è massima, che il Governo è vivamente preoccupato dalla possibilità di una invasione generale nel Barese dei numerosi briganti concentrati sul confine della Basilicata”.

E vari dispacci, anch’essi urgenti e riservati, spediti nei primi di ottobre dal Ministero degli Interni al nostro governatore, esortavano le autorità a vigilare sui movimenti delle torme lucane, le quali ordinavano tentativi reazionari ed incursioni ai danni di queste ubertose contrade. 

Infatti, nel successivo novembre, il generale carlista José Boryes, che aveva assunto la direzione suprema delle ciurme operanti nella Basilicata, apparve minaccioso tra le colline di Altamura; ma, fossero i dissensi e le gelosie che allora agitavano la comitiva del Donatello, invido e sospettoso della presenza e della superiorità dell’avventuriero catalano, fossero le provvidenze dei nostri governanti o altri motivi che non ci è dato conoscere, la spedizione si fermò, a quanto pare, sul confine delle due province, e non ebbe ulteriori effetti. 

Di lì a tre mesi, però fu ritentata, e compiuta. 

Duecento banditi a cavallo, agli ordini di Crocco e compartecipe il Romano, il 24 febbraio 1861 entrano in Terra di Bari e avanzano fin sotto le campagne di Andria e di Corato. 

Qui uccidono a fucilate alcuni militi coratini che andavano in cerca di sbandati, depredano le masserie e, fatto un copioso bottino, riprendono il cammino in direzione ovest. A tali notizie il maggiore Alfonso Grilli, della guardia nazionale di Corato, corre sulla Murgia con un centinaio di gregari, ansiosi di vendicare la morte dei commilitoni: ma non trovò la masnada e, recando con sé i cadaveri delle vittime, rientrò in città fra i pianti e l’esasperazione dei conterranei. I predoni, frattanto, si fermano alla masseria Viti, in tenimento altamurano, occupano la strada fra Toritto e Altamura e, intercettate le corrispondenze postali e telegrafiche, spadroneggiano in quei luoghi con ogni sorta di spoliazioni. 

Il generale Regis, sorpreso dall’audace scorreria, ordina una celere concentrazione di truppe sulle posizioni occupate dai borbonici; da Gioia, Noci, Alberobello, Acquaviva, Barletta, Matera ed altri comuni partono manipoli di guardie nazionali e soldati del cinquantesimo fanteria; onde, quelli vedendosi minacciati di avvolgimento, fuggono via e, toccando la casa colonica Mercadante, la Risecca di Grumo, i boschi di Cassano e Santeramo, pervengono alla selva di San Basile, ove indugiano alcune ore. Il comandante italiano dispone per telegrafo l’avanzata di qualche compagnia dai quartieri tarantini allo scopo di precludere la ritirata ai fuggiaschi; ma questi, più agili ed. accorti, sfuggono agli inseguitori e si mettono in salvo fra i boschi di Craco. 

Nella prima quindicina di marzo un’altra comitiva, se non forse la medesima, composta di centoquaranta uomini, riappare sulle balze altamurane, soggiorna nell’abitato rurale di Claudio Melodia ed occupa il castello di Guaragnone. Agguerrite colonne di fanti e guardie civiche marciano colà; ma, secondo il solito, al primo apparire delle nostre milizie, i briganti si dileguano. 

Non trascorre un mese ed un’altra invasione si effettua da parte di Ninco Nanco, che, attraversate le Murge di Spinazzola, minaccia con le bande riunite la nostra pianura. Anche in questa emergenza la guardia coratina, sostenuta da un plotone di carabinieri, affronta la masnada, che, dopo una fugace scaramuccia, abbandona le posizioni, lasciando sul terreno un cadavere e quattro cavalli. 

Ai primi di maggio la stessa banda, sorpresa dai cavalleggeri del Mennuni di Genzano, viene gravemente sconfitta; e il tenente generale Cosenz partecipa la lieta novella ai nostri comuni col seguente dispaccio inviato da Bari alle sette pomeridiane del 9maggio 1862:

“Colonna Davide Mennuni ha disfatto comitiva Ninco Nanco. 15 briganti uccisi, molti feriti, ferito Ninco Nanco, cavalli ed armi abbandonati”

Il Prefetto: COSENZ

L’esultanza fu assai breve. Di lì a pochi giorni la compagnia del sergente Romano comparve nei parchi delle Monache Chiariste e nel bosco municipale Bonelli, presso Noci. 

Un plotone di cinquanta militi muove per quei luoghi; ma, di fronte al numero soverchiante dei nemici, retrocede e si ferma sulla Murgia d’Albanese, aspettando rinforzi chiesti con urgenza da Bari e da Taranto. Il Romano, informato delle intenzioni avversarie, lascia il territorio di Noci e si rifugia nella foresta di Pianella. 

Il 15 giugno, banditi e guardie civiche di Martina vengono alle mani nelle vicinanze della masseria Marrocco; il giorno 8 i masnadieri assaltano sull’imbrunire la fattoria del Chiancarello, appartenente ai signori Cassano di Gioia, e ucciso il fittavolo Domenico Pugliese di Putignano, depredano armi, cavalli ed oggetti di considerevole valore; il 12 commettono ruberie e ricatti nel territorio di Santeramo; il 19 contristano di nuovo le adiacenze di Noci, ove la tranquillità cittadina è ognora turbata “perché i malviventi si fanno vedere in punti diversi, ora uniti ed ora divisi”; fra il 20 e il 25, devastano i campi e le masserie di Alberobello, Cisternino e Locorotondo, e negli ultimi giorni del mese tornano ad occultarsi fra gli inospiti covi di Pianella per prendere nuova lena e commettere nuovi orrori. 

Così passano i giorni queste nomadi turbe: è un agitarsi continuo al gelido soffio della tramontana e al torrido sole dell’estate, fra le macchie spinose, che lacerano le carni, e le buie caverne che corrodono le fibre; è un correre vertiginoso ed ansante interrotto da fugaci tregue, una vita di torture inenarrabili, cui pone termine la fucilazione o la galera! 

Tener dietro ai movimenti disordinati e molteplici della banda Romano, sarebbe una fatica assai dura e fors’anche priva di interesse storico: barbari eccidi, effimeri trionfi, rotte sanguinose, estorsioni, rapine, vandalismi compiuti sempre in nome del sovrano e della fede, ecco in brevi parole la storia, triste ed uniforme, della comitiva. Sorvolo sui fatti di secondaria importanza e mi avvio rapidamente alla fine, indugiandomi sugli episodi più notevoli.

L’ASSALTO AD ALBEROBELLO

In uno degli ultimi giorni di luglio, le guardie civiche di Alberobello, perlustrando le finitime selve, si presentano alla masseria dei Monaci di San Domenico, frequente rifugio del Romano, e fatta una perquisizione, sequestrano sedici pacchi di cartucce e catturano il reticente guardiano. Di ciò informati, i banditi risolvono di infliggere subito ai temerari militi un’esemplare punizione. Sul declinare del giorno 26, il sergente Romano chiama a raccolta la ciurma, e schieratala in ordine militare con opportuni fiancheggiatori e vedette, muove sulla borgata. 

Giunti verso le dieci della sera a poco meno di un miglio dall’abitato, i masnadieri si fermano, e poiché scorgono ancora delle luci e odono dei canti, rimandano l’aggressione a notte più inoltrata. In questo mezzo, favoriti dall’oscurità, pervengono al Romano alcuni messaggeri di quel Comune, fra i quali, secondo le noti4e di autorevoli documenti, ci sarebbe qualche ufficiale della guardia civica, complice del misfatto. 

Ottenuti precisi ragguagli e prese le ultime disposizioni, uno stuolo di trenta fuoriusciti, staccatisi dalla masnada, va all’assalto con passi guardinghi e silenziosi. Il milite Tommaso Locorotondo, che era di sentinella, intravveduta fra le tenebre l’insidia, grida : – Alto Chi va là? Ma non ha proferite queste parole che dieci briganti gli sono addosso, lo disarmano e lo legano, imponendogli di tacere. 

Quindi, con le baionette innastate, invadono il quartiere e domandano dell’ufficiale di guardia. A tale ingiunzione si presenta il caporale Antonio Greco, da cui chiedono, e ottengono immediatamente, la restituzione delle cartucce sequestrate alla masseria dei Monaci.

Intanto i militi, che erano li presenti, sbigottiti dall’ingrata sorpresa, tentano di fuggire; ma i banditi, coi fucili in pugno, comandano loro di non muoversi, pena la vita. 

Alcuni, per disgrazia, trasgrediscono agli ordini e vanno a rifugiarsi in una stanza contigua barricandovisi dentro. I predoni, allora, infrangono la porta, uccidono la guardia Curri, alla quale tolgono la giacca e le scarpe, e feriscono i militi De Felice, De Leonardis e Castellano. Poscia mettono a soqquadro ogni cosa; prendono una trentina di fucili con altrettante baionette, un tamburo, sei daghe, venti bandiere ed altri oggetti. 

Da ultimo, schierate a due a due le guardie, se le trascinano dietro, parte libere, parte avvinte con funi, sulla via di Martina. Giunti però all’estramurale, ed impietositi dalle lacrime di quegli infelici, li lasciano andar via. L’aggressione fu compiuta in un quarto d’ora!

GLI ECCIDI DEL 6 AGOSTO

Sul cadere dello stesso mese di luglio, fra i seguaci del Romano erano sorte gravi discordie, per cui un gruppo numeroso di fuoriusciti, Cecere, Guarini, Convertini e Chirico di Cisternino con altri compagni, avevano disertato, aggregandosi alla comitiva di un capobanda napoletano. Poscia, vedendosi deboli e mal protetti, tornarono in cerca del vecchio duce, che allora soggiornava nelle campagne di Ostuni, Locorotondo e Alberobello. 

Come i reduci briganti si avvicinano ai nascondigli già noti, avvistati dalle sentinelle e accolti a fucilate, si danno alla fuga; ma due di essi, Vitantonio Cecere e Francesco Chirico, son catturati dai contadini che per caso lavoravano in quei dintorni, e in particolar modo da un tal Riccardo Tanzarella di Ostuni, che, intuito il movente della fuga e punto persuaso delle loro dichiarazioni, insiste presso i compagni, perché sian trattenuti e consegnati alle autorità. 

Mentre si discute sul da farsi, sopraggiungono due massari, Francesco d’Errico e Francesco Seleraro, occulti ricettatori del malandrinaggio; i quali, facendosi mallevadori dell’onestà di quei furfanti, non solo dissuadono il Tanzarella dal temerario proposito e ne ottengono la liberazione, ma intercedono presso il Romano, perché li accolga di nuovo alla sua dipendenza. 

Riammessi così nella compagnia, implorano dal sergente soddisfazione e vendetta delle patite ingiurie; l’uno, Vitantonio Cecere, contro il Tanzarella che li aveva esposti a sì grave pericolo; l’altro, Francesco Chirico, contro il liberale Oronzo Terruli, agricoltore di quella contrada che nel giugno precedente lo aveva denunciato come un pericoloso reazionario, costringendolo ad abbandonar la famiglia. Il capitano accondiscende alle voglie dei militi ed ordina che la spedizione punitiva si compia, rapida e spietata. 

Sul tramonto del 6 agosto, un manipolo di codesti forsennati sorprendono il Tanzarella presso la sua “casedda”, il “trullo” caratteristico di quei luoghi, lo acciuffano, gli avvincono le braccia con una corda in presenza degli atterriti familiari, e lo trascinano a viva forza nella vicina selva. 

Verso le undici della notte, la compagnia si scinde: gli uni rimangono con il condottiero in custodia del catturato, gli altri muovono sulla masseria Marangiuli, ove si trovava Oronzo Terruli. 

Questi, rassegnato all’inevitabile destino, ma risoluto a vender cara la vita, da un balcone respinge gli aggressori a fucilate e ferisce gravemente un masnadiero di Viareggio, che vien subito condotto alla presenza del Romano. 

Come l’impulsivo sergente scorge il compagno ferito e barcollante, preso da repentino furore, ordina, per rappresaglia, l’immediata fucilazione del prigioniero. Il povero contadino implora la vita; ma quegli, acceso dall’ira, non recede dal suo proposito, sì che il Tanzarella cade fucilato nel silenzio delle tenebre. Esegnita la condanna, accorrono tutti alla masseria, sfondano le porte e, saliti al primo piano, ammazzano il vecchio Marangiuli, che era congiunto e socio del Terruli nell’azienda agricola. 

Questi si rifugia sotto un letto; ma è tratto fuori dal Chirico, suo implacabile nemico, che, avutolo nelle mani, esclama: – Assassino traditore! Mi hai fatto lasciare i figli miei! – E anche il Terruli cade trafitto da numerosi proiettili e da ventisei pugnalate.

IL MARTIRIO DI VITO ANGELINI

Di li a pochi giorni, sulle prime ore della mattina, un branco di quei fanatici si reca alla masseria Serinello, dove soleva dimorare l’agricoltore Vito Angelini di Putignano, fervido seguace delle istituzioni liberali. Trovatolo colà, lo traggono in arresto a nome di Francesco II, gli legano strettamente i polsi e lo conducono al bosco De Laurentis, fra Santeramo e Gioia. Qui attende il Romano, che lo sottopone ad una specie di interrogatorio e gli chiede: – notizie dell’opera spiegata da lui e dai congiunti nella recente rivoluzione, mostrandosi informato di ogni particolare. 

Quindi, consultati i compagni, lo dichiara nemico del Papa, di Cristo e traditore dei figli, ed emana sentenza di morte. L’Angelini si dispera e piange; ma il sergente non si lascia commuovere ed ordina che il verdetto si compia senza esitazione. I gregari denudano il disgraziato, lasciandogli addosso il panciotto e la camicia; e fattolo inginocchiare, gli impongono di recitare il Credo e il Paternoster. Infine lo colpiscono con tre fucilate e, credutolo morto, si allontanano di là. 

Taluni, nell’andar via, accortisi che la vittima dava segni di vita, vorrebbero tornare indietro a finirlo coi pugnali; ma uno di loro distoglie i compagni dal truce proponimento, esclamando con gioia feroce: – Così devono trovarsi tutti gli amici di Vittorio Emanuele! L’Angelini, riavutosi dai colpi mortali, si trascina carponi ad una masseria vicina, ove è accolto e curato da mani pietose.

IL CONVEGNO DEL BOSCO PIANELLA

Nell’agosto 1862, i masnadieri delle province di Bari e Lecce, per ordine del comitato centrale romano; convennero al bosco Pianella, nelle adiacenze di Martina Franca, per dare unità direttiva al movimento reazionario e fondere in una grande compagnia tutte le torme fin allora frazionate e disperse. 

All’adunanza, che fu tenuta nei profondi recessi di una vicina grotta, capace di oltre ducento cavalli, parteciparono il sergente Romano, Mazzeo, Valente, La Veneziana, De Palo, Trinchera, Locaso, Monaco, Terrone, Testino; e tutti riconobbero l’opportunità dell’accordo, nel duplice intendimento di fronteggiare con maggiore vigoria le ostilità sempre più minacciose della truppa ed effettuare con sollecitudine il vagheggiato programma della restaurazione borbonica. 

Giurati i vincoli dell’alleanza e costituita un’orda di circa ducento uomini, quasi tutti a cavallo, il sergente Romano, che fra quelle turbe destituite d’ogni cultura eccelleva per intelligenza ed autorità, ottenne il comando supremo con il grado di “maggiore”, mentre gli altri condottieri, in conformità alle attitudini personali e a seconda del maggiore o minor numero di seguaci fino ad allora capeggiato, furono eletti capitani, sergenti e caporali. 

Orgoglioso di tanto onore, il Romano si accinse all’opera, proponendosi di esplicare un’azione gagliarda; e poiché la provincia di Bari, ove già si andavano concentrando numerose forze, non porgeva facili speranze di riscossa, pensò, d’accordo con gli altri caporioni, di trasferire il campo delle operazioni nel Brindisino. 

Pertanto, ai primi di settembre, la grande comitiva era già nella penisola salentina, e quivi per lo più si trattenne fino agli ultimi giorni di novembre. 

Il vandalismo agrario e le stragi, che per un intero trimestre desolarono quelle cittadinanze, sorpassano ogni immaginazione: smantellate le masserie dei liberali, bruciate le messi, interrotte le comunicazioni, sospeso il traffico: tutta la vita economica e civile della regione fu sottoposta all’arbitrio dei reazionari, la cui baldanza trascese a tali eccessi che agli occhi del popolino e della stessa borghesia parve addirittura imminente il crollo dell’edificio nazionale e il ritorno del decaduto monarca. Ecco gli avvenimenti più considerevoli dell’attività brigantesca in Terra d’Otranto.

IL MASSACRO DI CELLINO

Verso il mezzogiorno del 24 o 25 ottobre, due squadriglie della guardia di Cellino e di San Pietro Vernotico, accompagnate dai rispettivi tenenti e da un plotone di carabinieri a piedi e a cavallo, a circa nove miglia da si erano fermate alla fattoria Angelini, Brindisi. 

Mentre prendevano ristoro dalla faticosa marcia, videro schierata sulla “Piana” della masseria Santa Teresa, li vicina, una grossa comitiva di briganti. 

Si comanda l’assalto; ma gli ufficiali, giunti a cinquecento metri dal nemico, volgono le briglie, trascinando nella fuga ignominiosa i militi a piedi, che si disperdono per la campagna circostante. I carabinieri, rimasti soli contro la forte masnada, non si perdono d’animo, e rattenendo l’impeto avverso con un fuoco incessante di fucileria, retrocedono a lento passo in direzione di Cellino.

Ad un certo punto, alcuni fuoriusciti accerchiano due carabinieri a piedi, li atterrano e sono già in procinto di impadronirsene, quando il lombardo Giovanni Arizzi, noncurante della vita, galoppa in soccorso dei camerati e, dopo un’acerrima lotta, in cui rimase ferito lui stesso, li trae a salvamento. 

All’azione ardimentosa concorsero i carabinieri Biancardi e Piluti delle stazioni di Lecce e Campi Salentina. Arrivati a breve distanza da Cellino, i masnadieri si ritirarono, dando la caccia alle guardie nazionali, che si erano nascoste nei prossimi poderi. 

Ne scovano dodici, le avvincono con funi e, frustandole come bestie da soma, le spingono sulla masseria Santa Teresa, ove un’orrenda sorte attende i prigionieri. 

La scena raccapricciante, ivi svoltasi, è narrata dal milite Vitantonio Donadeo, che ebbe salva la vita per uno strano accidente. Ne trascrivo l’autentico, genuino racconto: “Quando arrivammo vicino a Santa Teresa, svillaneggiati e battuti per strada, posero me con gli altri undici prigionieri ginocchioni a terra e in fila, e dissero a Giuseppe Mauro, che fu poscia fucilato: – Tu avevi quattro carlini al giorno come spia sotto Francesco, ed ora ne hai tre sotto Vittorio. E poi, rivolti al Pecoraro ed al Miglietta, pur fucilati, dissero: – Conosciamo che voi siete andati facendo la spia. – Tenevano tutto segnato in un libro che portava il capitano, e dicevano: – I villani non hanno colpa; noi vogliamo i capi della guardia nazionale. 

Quindi uno dei briganti che era tornato ferito dal combattimento coi carabinieri, disponeva sulla sorte di noi altri, e tutto ad un tratto fu ordinata ed eseguita la fucilazione del Pecoraro, del Mauro e del Miglietta, i quali stavano inginocchiati i primi nella fila di noi altri; ed a misura che dovevano fucilare li facevano mettere faccia a terra, poggiando la bocca del fucile sul collo. 

Dopo i tre suddetti sventurati, dovea essere fucilato io, e mi ordinarono di mettermi con la faccia a terra, il che avendo io fatto, con lo squallore della morte, gridai: – Madonna del Carmine, aiutatemi! – ed intesi lo scatto del fucile che non dié fuoco. Allora un brigante disse: – Alzati che tu sei salvo, e devi essere veramente devoto alla Madonna del Carmine come lo sono io; le devi fare una gran festa. 

E dopo aver parlato un poco fra essi loro, fecero alzare da terra me e gli altri otto compagni, con la forbice mi mozzarono un pò l’orecchio sinistro come fecero ad altri sette; due, perché avevano ricevuto dei colpi in testa e la portavano fasciata, ad essi non furono mozzati gli orecchi.  Dopo questa operazione, il Capitano si avvicinò a noi e ci disse di andarcene”. 

Il brigante che, commosso dall’invocazione della Vergine, sospese l’iniziato massacro, fu il sergente Romano; e colui che, animato da istinto feroce, mozzò le orecchie ai prigionieri, fu lo Spadafino di Palo del Colle. Altri testimoni oculari aggiungono che i fuoriusciti ventilarono l’idea di recidere il capo ad uno dei catturati ed inviarlo al capitano della Guardia Nazionale di Cellino; ma l’infame proposta non fu eseguita per le implorazioni disperate di quei miseri. 

E’ certo però che Francesco Monaco di Ceglie Massapica con un rasoio tagliò il mento di un cadavere, e fattolo disseccare al sole, e ripostolo nella bisaccia, lo portò via con sé, qual segno e ricordo della vittoria. 

E’ indubitato altresì che alcuni di quei ribaldi conservarono nelle tasche le mutile orecchie dei prigionieri, mostrafldole qua e là, per i campi e le masserie, ai contadini che incontravano durante il percorso. 

Va ricordato infine, come le salme dei fucilati cellinesi furono date alle fiamme, perché delle odiate spie si disperdessero finanche le ceneri. Tale era l’aberrazione di quelle turbe sciagurate nel cui animo la frequenza delle scelleraggini aveva cancellato ogni traccia di umanità.

L’INVASIONE DI CAROVIGNO

Sull’albeggiare del 21 novembre, la comitiva, dalla masseria Colacorti, ov’erasi fermata fin dalla sera precedente, s’incammina alla volta di Carovigno, uno dei più ardenti focolari di brigantaggio reazionario. 

Non lungi dall’abitato, il “maggiore” trattiene la sua ciurma e manda all’assalto del corpo di guardia un drappello di dodici briganti a piedi. Come la sentinella Emanuele Patisso, nell’incerto chiarore della notte che già si dilegua, scorge l’avanguardia brigantesca, chiede con voce risoluta: – Chi vive? – Guardia piemontese! – si risponde. E nel dire tali parole i masnadieri piombano sul milite con rapidità fulminea, lo disarmano ed entrati – nel quartiere, fracassano panche, tavole, rastrelliere, quadri, stemmi reali. 

Sopraggiungono i banditi a cavallo e si riversano “per lo stradone” sparando archibugiate a salve e invitando il popolo alla rivolta. – Fuori i lumi! Fuori i lumi! – si esclama; e immantinente migliaia di lumi sporgono dagli usci e dai balconi, per modo che il paese, come affermano i documenti, è illuminato a giorno. 

Molti contadini scendono sulle vie e accolgono la masnada con le fiaccole accese e con manifestazioni di giubilo. 

Gli urli della plebe, espressioni sintomatiche di reazione politica e di riscossa sociale, richiamano alla memoria le torbide giornate del 1799. – Viva la Santa Fede! – si grida – Viva la Madonna! Viva Dio! Viva – Francesco II! Abbasso Vittorio Emanuele! All’impiedi il popolo basso! 

E una gran calca di popolo delirante segue i ribelli che, col Romano in prima fila, avanzano sulle loro cavalcature, baldanzosi e trionfanti. 

Assaltano quindi le case dei capitani Azzariti e Brancasi, dei patrioti Simone, Brandi, Santoro, Del Prete e del regio delegato Calò; atterrano la porta d’una rivendita di privative; calpestano le insegne sabaude, e penetrati nella bottega, depredano sigari e vari oggetti. 

Invadono poscia un pubblico ritrovo appartenente ad un caffettiere liberale, rompono tazze – e bicchieri, infrangono i quadri di Cavour, Garibaldi e Vittorio Emanuele. 

Da ultimo, fattosi già chiaro, obbligano il sacerdote Federico Vacca a seguirli fuori del paese, al santuario della Madonna del Belvedere, ove la moltitudine, inginocchiata e riverente, intona col prete litanie e inni di grazia. Compiuta la funzione sacra, i briganti invitano la folla a rientrare nella borgata e, scambiati auguri di prossimo trionfo, si allontanano per la via di San Vito, in direzione della masseria Badessa. Nessun reato di sangue, tranne qualche lieve ferimento, turbò la clamorosa manifestazione.

IL CONFLITTO DELLA BADESSA

Nelle ore antimeridiane di quel giorno medesimo, come nella borgata limitrofa di San Vito si ha sentore dell’invasione di Carovigno, s’inviano carabinieri e guardie civiche in soccorso di un drappello di militi, che, per disposizione dell’autorità, si trovava in distaccamento alla tenuta Serranova, non lungi dalla Badessa.

 Le vedette dei masnadieri, che vigilavano dall’alto della fattoria, visto il plotone che avanzava sulla consolare di Brindisi, segnalano ai compagni l’imminente pericolo. 

Il Romano, osservata la positura e avute dal massaro D’Adamo, ardente borbonico, precise informazioni circa il numero e l’armamento dei nazionali, ordina la banda su due schiere e muove a spron battuto contro i nemici con disegno di accerchiarli. 

Ma quelli, forniti di buone armi da fuoco, sostengono con intrepidezza l’assalto e, contrastando il terreno a palmo a palmo, raggiungono l’oliveto Argentieri e la masseria De Leonardis, ove si trincerano saldamente. 

Il Romano, cui premeva di tenere integra la compagine dei suoi e non sacrificar mai gente in imprese di dubbia efficacia, dopo un’ora di accanita lotta, si ritira, trascinando con sé la guardia Catamerò, catturata all’inizio del combattimento. Radunatosi, secondo la consuetudine, il consiglio dei capi, il prigioniero è condannato all’estremo supplizio. 

Alcuni briganti lo afferrano per i piedi, altri lo costringono al suolo con le braccia e la testa; e il masnadiero tarantino Antonio gli recide la gola con una sciabola o grosso coltello adoperato a mo’ di sega.

IL RITORNO AL BOSCO PIANELLA

Dopo il conflitto della Badessa, il Romano, che con la sua tormentosa guerriglia aveva attratto nel Leccese molte forze regolari, pensò di sottrarsi all’urgente pressione della truppa, trasferendosi nella pristina sede di Pianella. 

Partito dal litorale adriatico, il 21 novembre, per l’istmo collinoso della penisola messapica, fra Brindisi e Taranto, – discese nell’opposto versante. 

La notte del 22 si fermò con tutta la banda alla fattoria Santoria, nei dintorni di Torre Santa Susanna, e la mattina seguente, provedutosi colà di viveri e di biada, si accinse a partire, dichiarando in arresto il massaro De Biase, reo di avere obbligato i suoi contadini ad acclamare Vittorio Emanuele re d’Italia. Indotti dalle vive insistenze dei familiari di quell’infelice, i masnadieri consentirono di rilasciarlo, previo riscatto di mille piastre; e poiché quelli ne offrivano solo trecento che avevano a disposizione, rigettarono la proposta con parole di sdegno. 

Gli sventurati, lacrimando, chiesero una breve dilazione per procacciarsi la somma vistosa; ma i banditi, specialmente Pizzichicchio che conduceva le trattative, non accolsero neppure tale richiesta e trascinarono via, in groppa ad un cavallo, il vecchio patriota, che nella macchia di Avetrana incontrò la pena di morte con armi da fuoco e da taglio. 

Dalla fattoria Santoria,- nelle ore antimeridiane del 23 i ribelli prendono la via di Erchie e sostano alcune ore presso il piccolo villaggio, dove, a somiglianza di Grottaglie, Crispiano, Statti, Carovigno, Palagianello ed altri Comuni del Leccese, si rinnovano le solite dimostrazioni popolari inneggianti al Borbone e alla fede. 

Verso mezzogiorno si allontanano di là, incamminandosi verso la marina ionica; durante la notte successiva si attardano fra i boschi di Maruggio, nei quali abbandonano un compagno di Santeramo in Colle, moribondo per le gravi ferite riportate in Erchie; e sul mattino del 24, per i territori di Grottaglie, Massafra, Mottola, devastando masserie, rompendo fili telegrafici e schivando fra mille peripezie gli incontri con la truppa, arrivano al bosco Pianella, ultima tappa del periglioso e lungo itinerario. In questo mezzo il Romano, imbaldanzito di tanti prosperi successi, medita un folle disegno: fondersi con la banda Crocco, muovere su Brindisi e impadronirsi della Terra d’Otranto; indi, raccolte grandi masse di popolo, correre su Gioia, Noci ed altri comuni del Barese,- inalberando dappertutto il – vessillo della controrivoluzione. 

Allettato dal chimerico piano, spedì messi al Donatello, che si trovava in Basilicata, e mandò in giro per le campagne Otto manipoli di arrolatori, affine di raccogliere gente, armi e cavalli. 

Se non che Carmine Crocco, cui la politica serviva di pretesto ad accumular quattrini, dapprima richiese alcuni giorni di tempo per una definitiva risposta, e poi, adducendo futili motivi, dichiarò senz’altro di non poter assecondare l’iniziativa del temerario collega. Il sergente Romano, intanto, rafforzata con nuove reclute la compagnia, esce dal bosco di Pianella in cerca di nuovi trionfi; ma le milizie italiane, rese ormai vigili ed esperte dalla dura esperienza, lo attendono al varco.

LA DISFATTA DELLA MASSERTA MONACI

Sul cadere del primo dicembre, l’intera compagnia si ferma alla masseria dei Monaci di San Domenico, tra Noci ed Alberobello. 

Erano lì presenti circa centosettanta uomini con tutti i caporioni del brigantaggio salentino e barese: Romano, La Veneziana, Pizzichicchio, Monaco, Valente, Quartulli, Locaso, De Palo ed altri. Il sedicente maggiore ordina alla ciurma di scendere da cavallo e di riposarsi nell’ampio caseggiato, mentre lui, espertissimo dei luoghi, con quaranta seguaci, va in cerca di viveri e foraggi. 

Molti dei banditi si andavano adagiando nei fienili, ed altri si apprestavano a desinare o attendevano al governo dei cavalli, quando, d’improvviso, la sedicesima Compagnia del decimo Reggimento di Fanteria, condotta dal capitano Molgora, sbuca fuori dalle circostanti macchie e piomba sui masnadieri scompigliati e dispersi. 

La Veneziana, Pizzichicchio e Valente, chiamati a raccolta i compagni, affrontano i soldati e si battono coraggiosamente in prima linea. Mentre la mischia infuria e la banda già ripiega, sopravviene il Romano, che era atteso con ansia; ma scorto il disordine dei suoi e il sopravvento della truppa, getta via le insegne del comando e, postosi in capo il berretto di un compagno, volge le terga. 

Alla fuga del condottiero segue una rotta piena ed irreparabile: muore La Veneziana, son feriti Pizzichicchio e Quartulli, cade prigioniero Scipione De Palo con altri nove banditi, e son catturati più di ottanta cavalli con armi e bagagli. 

Trentacinque briganti, che riposavano in un pagliaio e non presero parte alla zuffa, sfuggirono per miracolo alla cattura; dei restanti, molti, col favore delle tenebre sopraggiunte, se ne andarono – ai loro paesi; altri, dopo essersi aggirati per molte ore fra i boschi, tornarono alla grotta Pianella. 

Capi e gregari, superstiti di una grave sconfitta, tennero un’adunanza; e dopo una vivace discussione, durante la quale si coprirono di villanie, accusandosi d’imperizia e di viltà, decisero lo scioglimento della comitiva. 

La sera del 7 dicembre, i vari capi partono per vie diverse: Valente, con sedici o diciassette compagni per Carovigno; Monaco con altrettanti per Ceglie Messapica; il Capraro per Ginosa; e Pizzichicchio, riavutosi dalla ferita, per la Basilicata. 

Quindici fuoriusciti, avendo espressa la risoluta volontà di abbandonare la masnada, sono dichiarati vili, e quindi licenziati. Il Romano, diminuito di autorità e di grado, resta in quei luoghi con una cinquantina dei più antichi e fedeli proseliti. Era completa la dissoluzione, imminente la fine.

 

 

Fonte: srs di  Antonio Lucarelli – da: “AVVENTURE ITALIANE” Vallecchi Editore, Firenze, 1961


Feb 18 2009

IL SERGENTE ROMANO

Category: Italia storia e dintorni,Regno delle Due Siciliegiorgio @ 13:52

Pasquale Domenico Romano nacque a Gioia del Colle il 24 Agosto 1833 da Giuseppe e Angela Concetta Lorusso. Ebbe un’educazione semplice, sana ma rigida che ne forgiò il carattere. 

Fin dall’adolescenza aiutò il padre nella pastorizia che gli permise una particolare conoscenza di quei boschi e di quelle contrade che poi lo videro quale dominatore incontrastato. 

Nel 1851 si arruolò nell’Esercito Borbonico dove intraprese una brillante carriera assumendo ben presto il grado di “primo sergente” e dove, per le sue particolari doti militari, ebbe l’onore di diventare “Alfiere” della Prima Compagnia del 5° di Linea. 

Disciolto l’Esercito del Regno delle Due Sicilie non si diede per vinto diventando comandante del Comitato Clandestino Borbonico di Gioia del Colle Tuttavia, avvertendo i tempi stretti, la gravità della situazione e mai sopportando l’inoperosità degli adepti del Comitato, dopo poco tempo abbandonò i “salotti” e passò senza esitare alla lotta armata, dando il via alla sua guerra partigiana contro i piemontesi. 

Nel giro di qualche settimana costituì una prima squadra formata esclusivamente da militari del disciolto Esercito Borbonico. Il 26 luglio 1861 si rifornì di armi e munizioni assaltando e prendendo prigioniera l’intera guarnigione di Alberobello nonché i militari del presidio di Cellino. 

Il 28 luglio del 1861 con i suoi militi attaccò Gioia del Colle dove s’impegnò in una vera e propria battaglia, travolgendo le truppe del maggiore piemontese Francesco Calabrese, costringendole a ripiegare nel Borgo San Vito. Alla vista della fuga dei militi piemontesi si sollevò l’intera cittadina di ventimila abitanti. Nella confusione furono molti i gioiesi che si unirono ai ribelli, tra essi Vito Romano di soli anni 17, fratello minore del Sergente. 

Fu questa la rima vera e propria azione con la quale il Sergente Romano inaugurò la lunga serie di colpi contro le truppe piemontesi, la Guardia Nazionale e i nemici liberali, ma fu anche l’inizio delle vendette trasversali, da parte di questi ultimi, ai suoi amici ed alla sua famiglia che, subito dopo la ritirata da Gioia del Colle, venne colpita duramente. Ciò non fece altro che inasprire ulteriormente il suo risentimento infondendogli maggiore risolutezza e rabbia contro chi considerava senza mezzi termini: “usurpatori, invasori, senza Dio, oppressori del popolo”. 

Le azioni di guerra fulminee ed imprevedibili, la spietatezza e nel contempo la lealtà e l’alto senso dell’onore, la ferrea disciplina militare a cui erano sottoposti i suoi uomini, le motivazioni legittimiste e religiose che lo spingevano a lottare con coraggio e determinazione, l’assoluta fedeltà al suo sovrano Francesco II ed al Papa lo fecero diventare un mito: l’eroe che difendeva gli oppressi, la giusta rivalsa sui conquistatori, il partigiano imprendibile e coraggioso, il guerriero invincibile, la volpe dei monti e dei boschi, il “brigante” degno dell’ammirazione delle popolazioni meridionali. 

Effettivamente fu un grosso problema per carabinieri, esercito e guardia nazionale che a migliaia gli diedero la caccia giorno e notte, d’estate e d’inverno. Mentre con veloci apparizioni distoglieva l’attenzione della truppa nemica colpendo nello stesso momento in località tra loro distanti, nel frattempo reperiva armamenti, munizioni e vettovagliamenti, reclutava uomini, stringeva accordi con altri guerriglieri, contattava sindaci e patrioti, pianificava colpi micidiali in tutta la regione. 

Il 24 Febbraio 1862 insieme a Carmine Donatelli, soprannominato “Crocco”, bloccò le strade di accesso ad Andria e Corato, tese un’imboscata alla guardia nazionale e, dopo averne avuto la meglio, ebbe via libera nell’assalire tutte le masserie di liberali ed ex garibaldini della zona, seminando il panico e facendo strage tra i “traditori del Popolo meridionale”. 

Qualche giorno dopo toccò alla strada fra Altamura e Toritto dove furono intercettati e colpiti il corriere postale e la scorta armata. 

Tra Maggio e Luglio 1862 il sergente Romano entrò più volte in Alberobello con la sua truppa, immobilizzando la guardia nazionale, rifornendosi di armi e munizioni, innalzando i vessilli borbonici e sparendo puntualmente nel nulla. 

Il 9 Agosto 1862, dopo la solita scorribanda per Alberobello, assaltò la fattoria di un certo Vito Angelini accusandolo di essere il delatore che aveva permesso l’assassinio della sua fidanzata Lauretta d’Onghia. Dopo averlo “processato” lo fece fucilare sull’aia. 

Qualche giorno dopo il Romano, dopo essersi unito nel bosco Pianella con i capibanda Laveneziana e Trinchera, si accampò nel cuore della penisola Salentina da dove avrebbe potuto colpire con maggior sicurezza. I primi di Ottobre assaltò nuovamente il presidio di Cellino ma questa volta ne fucilò tutti i militi. 

Il 24 ottobre 1862 verso le ore 12 la compagnia al completo puntò nuovamente sulla masseria Angelini, forse per completare la vendetta, quando gli si pararono davanti due squadre di guardia nazionale accompagnate da carabinieri a cavallo e comandate da due ufficiali anch’essi a cavallo. Lo scontro fu inevitabile e violentissimo.  Accortasi chi aveva davanti, la guardia nazionale si disimpegnò scappando verso Cellino mentre i carabinieri cercarono di proteggerne in qualche modo la ritirata.  Dopo un accanito inseguimento vennero però raggiunti e sopraffatti: dodici di essi caddero prigionieri. Due vennero fucilati immediatamente, mentre gli altri furono liberati dopo aver subito il taglio dei lobi auricolari. Nel frattempo la masseria Angelini venne data alle fiamme. 

Il 21 novembre 1862 il Sergente Romano e la sua truppa entrarono trionfanti in Carovigno dove, dopo una travolgente scorribanda per le vie del paese, si concentrarono nella piazza principale per abbattere i simboli Sabaudi ed innalzare quelli Borbonici. 

Qui il Sergente Romano dall’alto di un balcone tenne un appassionato discorso alla folla in delirio, invitando tutti alla rivolta contro gl’invasori piemontesi ed i traditori liberali loro alleati. 

A questo punto il resto del paese scese tumultuante per le strade inneggiando a Francesco II, le case dei liberali vennero date alle fiamme, fu devastato il comune, distrutto il presidio militare, poi l’intera popolazione si portò in processione al santuario della Madonna del Belvedere per un solenne “Te Deum”. 

Lasciato Carovigno con l’aiuto di Cosimo Mazzei e la sua squadra che, rimasta di guardia nelle campagne circostanti si avventò con incredibile ardimento sui soldati piemontesi accorsi dai dintorni, il Romano ed i suoi uomini si diressero sicuri verso sud marciando tutta la notte per raggiungere la masseria Santoria nei pressi di Santa Susanna.  Il massaro era un certo Giuseppe de Biase, liberale e consigliere comunale di Oria. Senza perder tempo si rifornirono di cibo e foraggio; presero come ostaggio il – de Biase, onde evitare delazioni da parte dei parenti, e ripartirono per raggiungere i vari centri abitati della zona dove contadini festosi li acclamarono quali liberatori. 

I loro spostamenti diventarono rapidissimi onde evitare prima il frontale e poi l’accerchiamento delle truppe piemontesi che con marce forzate, fin dal giorno precedente, cercavano di agganciare la formazione. Intuendo come le volpi il pericolo imminente, i guerriglieri si rifugiarono nel bosco di Avertrana dove uccisero l’ostaggio che aveva tentato di avvertire le truppe sabaude.

 Ormai il sergente Romano era diventato un mito, la sua fama aveva raggiunto ogni angolo della regione tanto che poteva girare sicuro come un trionfatore, ma fu questa sicurezza che poi gli fu fatale. 

Disturbato dall’accresciuto numero di soldati piemontesi nella zona, verso la fine di Novembre decise di rientrare nel bosco Pianella marciando per chilometri attraverso campagne e paesi spavaldamente, in formazione militare, con in testa tanto di bandiera, tamburino e tromba. 

Ovunque lasciava simboli Borbonici, abbatteva linee telegrafiche, bruciava fattorie di liberali, rincorreva e colpiva squadriglie della guardia nazionale, bruciava archivi comunali. 

Il 1 Dicembre presso la fattoria Monaci, poco distante da Alberobello, l’intera armata dei ribelli era intenta a bivaccare tranquilla riposandosi dopo la lunga campagna effettuata nel sud della regione.

Ma il rientro in grande stile, ed il clamore delle gesta avevano fatto spostare in zona anche le truppe piemontesi che da mesi cercavano invano un vero e proprio scontro militare. 

Il sergente Romano non immaginando minimamente cosa si stava preparando di li a poco non si preoccupò di attivare spie e vedette, come era solito fare, consentendo così all’avanguardia della 16″ compagnia del 10″ Reggimento di fanteria di scorgere il campo senza essere avvistata. 

Il capo pattuglia intuendo l’importanza della scoperta, senza esitare avverti il grosso della compagnia. Dopo poco l’intero reparto si scagliò sui guerriglieri sorprendendoli disarmati e nel sonno: fu una carneficina. Il Romano ed i suoi uomini cercarono di abbozzare una resistenza ma essendo la situazione estremamente critica l’unica via d’uscita restava il disimpegno veloce. 

Abbandonarono in fretta la zona perdendo il grosso degli uomini, dei cavalli e degli armamenti. 

Aiutati dalle tenebre e dalla perfetta conoscenza dei luoghi il Romano ed i suoi uomini riuscirono a riparare nel bosco Pianelle dove curarono i feriti, recuperarono gli sbandati e soprattutto si contarono. Erano rimasti in 50. 

Ma il Sergente non si scoraggiò per il duro colpo e subito dopo mandò in giro i suoi uomini a reclutare altre forze ed a metà Dicembre riprese nuovamente le ostilità. Più velocità negli spostamenti e soprattutto più spietatezza negli scontri che dovevano essere esclusivamente agguati. 

Ormai li aveva tutti addosso, veniva braccato senza tregua da migliaia di uomini, tra soldati, guardia nazionale e carabinieri. 

Le campagne di Alberobello, Fasano, Castellana, Putignano, Cisternino e Gioia del Colle, venivano percorse solo di notte o nei temporali, con assalti brevi ma incisivi alle masserie e solo a piccole squadriglie di carabinieri e guardia nazionale, evitando con rapidissime ritirate ed audacissimi aggiramenti le grosse formazioni piemontesi. 

La notte di Natali tutta la compagnia la trascorse presso la masseria Antonio Surico, amico di famiglia del Romano, ma i carabinieri avendo sistemato lungo le vie di accesso alle massarie dei non liberali propri uomini con il compito di segnalare ogni spostamento sospetto, localizzarono i guerriglieri. L’area di azione ormai era stata individuata ed il Romano aveva perso un fattore fondamentale della sua guerra: la segretezza negli spostamenti. 

Il 30 Dicembre, mentre i Borbonici erano intenti a mangiare, gli piombò addosso una squadra di guardia nazionale comandata dal dott. Lino Romeo.  La risposta però fu immediata ed addirittura la situazione si ribaltò a favore dei legittimisti quando improvvisamente arrivò un intero reparto di cavalleggeri di Saluzzo che, richiamato dagli spari, era accorso prontamente. 

Per il Romano e la sua squadra fu nuovamente sconfitta e l’unica via di salvezza fu la fuga precipitosa lasciando sul terreno morti, feriti, armi ed attrezzature. 

Per evitare un facile inseguimento, appena fuori la mischia, la truppa legittimista si divise in più squadriglie con la promessa di riunirsi in tempi migliori.  Quindi il grosso della compagnia mosse alla volta delle alture delle Murge, zona più sicura. Ma il Sergente non si fece attendere molto. 

Il 4 Gennaio lungo la strada che porta al Santuario del Melitto, nei pressi di Cassano, tese un’imboscata alla guardia nazionale di Altamura.  Nello scontro furibondo che ne scaturì i militi fatti letteralmente a pezzi dai partigiani che si abbandonarono a violenze indescrivibili dettate da un odio e da un desiderio di rivalsa profondi ed incolmabili. 

Sapendo di avere addosso tutte le truppe della zona il Sergente, a notte fonda si sposto nel bosco di Vallata presso Gioia del Colle nello stesso posto da dove nel 1861 erano partite le sue prime incursioni. Ma anche questo suo spostamento fu intercettato e nel giro di qualche ora il bosco fu circondato da un intero reparto di cavallegeri di Saluzzo, comandato dal capitanp Bolasco, e da un plotone di guardie nazionali accorse in forze da Gioia del Colle. 

Il Sergente Romano ed i suoi uomini sentendo i nemici addentrarsi nella fitta vegetazione da tutte le direzioni intuirono la grave situazione e aspettarono immobili nei loro nascondigli fino all’ultimo momento. Lo scontro a fuoco fu micidiale e, terminate le scariche di fucileria, seguì un furioso corpo a corpo all’arma bianca.

 Uno alla volta i Borbonici caddero sotto i colpi sferzanti della soverchiante truppa nemica. 

Il Romano circondato dai militi piemontesi si battè con forza sovraumana fino a quando, coperto di sangue e ferito al grido di “Evvivorre!”, cadde gloriosamente. 

Alla sua morte gli uomini smisero di combattere e si lasciarono arrestare. 

Il corpo del partigiano fu miseramente spogliato della divisa borbonica e, issato come una preda ad un palo sopra un carretto, fu portato a Gioia del Colle, in via della Candelora, sotto le finestre della sua abitazione dove rimase esposto per una settimana. 

Nonostante ciò la popolazione ne non volle credere alla morte del proprio eroe e continuò a raccontare le sue gesta, ad aspettare il suo ritorno, a sperare in un futuro di giustizia. 

Ma il Sergente Romano era effettivamente morto e con lui era finita la resistenza armata all’invasore piemontese in terra di Puglia.

 

Fonte: da: “BRIGANTI & PARTIGIANI” – a cura di: Barone, Ciano, Pagano, Romano – Edizione Campania Bella


Feb 18 2009

LA MARINA MERCANTILE NAPOLETANA, LA CAUSA DELL’ UNITA’ D’ITALIA

Category: Italia storia e dintorni,Regno delle Due Siciliegiorgio @ 09:14

La bella “Fregata Partenope” nel porto di Napoli

 

La vera causa dell’unità d’Italia e della   distruzione del Regno delle due Sicilie

Le industrie del Sud richiedevano continuamente materie prime e quindi richiedevano navi che le trasportassero. Essendo l’Italia meridionale attraversata da una dorsale appenninica formata di aspre montagne, e quindi da vie di comunicazione di difficile attraversamento, fu naturale, sin dai tempi dell’Impero Romano, che uomini e merci viaggiassero per mare.

Tutta la costa era punteggiata di centri i cui cantieri navali erano rinomati in tutto il mondo e che davano lavoro a migliaia d’operai occupai lavoravano nelle industrie collegate.

Nel 1818 il Regno delle Due Sicilie disponeva di 2.387 navi, nel 1833 il numero salì a 3.283, di cui ben 262 superiori alle 200 tonnellate e 42 che oltrepassavano le 300 tonnellate.

Nel 1834 i bastimenti arrivarono a 5.493 per salire a 6.803 nel 1838. 

Nel 1852 il numero di navi e bastimenti arrivò a 8.884.

Nel 1860 la flotta mercantile borbonica, seconda d’Europa dopo quella inglese, contava 9.848 bastimenti per 259.910 tonnellate di stazza, dei quali 17 piroscafi a vapore per 3.748 tonnellate, 23 barks per 10.413 tonnellate 380 brigantini per 106.546 tonnellate, 211 brick schooners per 33.067 tonnellate, 6 navi per 2.432 tonnellate e moltissime imbarcazioni da pesca.

I cantieri navali erano sparsi per tutta la costa tirrenica, ionica e adriatica. Praticamente in ogni città costiera vi erano insediamenti accompagnati da scuole di formazione professionale e scuole marittime e nautiche. 

Tutti pensano che Gaeta, allora, fosse solo una roccaforte militare che dava ospitalità a circa 10.000 soldati. In realtà, attorno alla fortezza ruotava un’ agricoltura ricchissima ed avanzata costellata da circa 300 trappeti che davano lavoro a centinaia di persone, come pure vi erano fabbriche di sapone e di reti. 

Gaeta, come altre città del Regno, era ricchissima e la sua flotta mercantile vantava molte società di navigazione con al servizio duemila marinai sempre in viaggio. 

Essa era composta da 100 brigantini e martegane, da 60 a 220 tonnellate di stazza, 60 paranzelle da 30-40 tonnellate e circa 200 barche a vela da 2 a 20 tonnellate di stazza che, ogni giorno, si recavano a Napoli o a Roma attraverso il Tevere, trasportando merci e passeggeri

I cantieri navali di Gaeta, da sempre attivi, costruivano brigantini, galeoni, saette e velieri che venivano anche esportati.

Tutto questo stava togliendo prestigio e competitività alla più imponente forza navale del tempo: la  Marina Reale Inglese. Non solo,le navi napoletane toglievano fette sempre più ampie al mercato della cantieristica inglese, non solo erano ottime,  ma tecnologicamente avanzate e anche più economiche.

Il varo della prima nave a vapore del mediterraneo, l’attuazione di rotte che giungevano in America del Nord, del Sud e nel Pacifico, ponevano le basi per intaccare  i mercati commerciali Imperiali.

Soprattutto, da lì a pochi anni, si sarebbe aperto il canale di Suez, e tal cosa avrebbe rischiato di fare diventare il porto Napoli, non solo uno dei porti cardine dell’Europa, ma innanzitutto la porta dell’Europa verso il cuore dell’impero inglese: LE INDIE

Questo non doveva accadere, non poteva essere tollerato.

Il resto lo conosciamo…

All’indomani dell’invasione piemontese, l’industria e la cantieristica del Regno delle Due Sicilie venne quasi praticamente tutta smontata e smantellata:  si doveva estirpare alla radice quel temibile concorrente economico.

Non solo, lo Stato Sabaudo, con una politica protezionistica a favore del Nord, con anticipi di capitale e generosi sussidi a favore delle compagnie liguri e della nascente industria padana, affossò patriotticamente la rimanente economia meridionale costringendo alla fame intere popolazioni.

Con l’avvento dei Savoia, il Sud importò solo fame e miseria per sconfiggere le quali erano possibili due soluzioni: la rivoluzione o l’emigrazione.

Il popolo tutto, verso la fine del 1860, insorse contro i piemontesi. 

Ma dieci anni di guerra civile, e una politica da terra bruciata da parte dei Savoia, finirono per distruggere l’intero assetto economico del Regno e la nazione precipitò nel baratro.

Dopo la sconfitta i Meridionali furono costretti ad abbandonare in massa la loro terra.

 

Fonte: liberamente tratto da srs di  Antonio Ciano

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Feb 18 2009

Il massacro di Napoli e del Regno delle Due Sicilie, appunti su un genocidio.

Category: Italia storia e dintorni,Regno delle Due Siciliegiorgio @ 00:13

 

 

Nel 1815, quando i Borboni ritornarono a Napoli, la popolazione era di 5.060.000, nel 1836 di 6.081.993; nel 1846 la popolazione arrivò a 8.423.316 e dieci anni dopo a 9.117.050.

Questo vorticoso aumento della popolazione ha nome e cognome: benessere e progresso civile e sociale. Durante 127 anni di governo i Borboni diedero prosperità a tutto il popolo e da 3 milioni di anime, del 1734, si arrivò ai 9 milioni del 1856.

Cos’ era successo? Come fu possibile?

Nel Meridione non si costruivano strade fin dal tempo dei Romani e i vicerè spagnoli impoverirono la popolazione esigendo tasse e balzelli, i baroni inselvatichirono la vita civile, le campagne erano abbandonate, i boschi avevano invaso le terre fertili di buona parte del Regno, i pirati razziavano le coste, il commercio non esisteva quasi più e, non essendoci polizia, nessuno rispettava le leggi e solo gli  innominati di manzoniana memoria erano i veri padroni della società.

I Borboni  riuscirono dove gli altri fallirono, imbrigliarono e resero quasi innocui i baroni, costruirono strade, ricostituirono l’esercito e le amministrazioni locali cui diedero l’antica autonomia, diedero impulso all’industria, all’agricoltura, alla pesca, al turismo.

Da ultimo, tra gli Stati, divenne il primo d’Italia e tra i primi del mondo. Le ferrovie, inventate nel 1820,  fecero la loro prima apparizione a Napoli (1839) con il tratto che congiungeva la capitale a Portici e poi fu concessa al Bayard di continuarla fino a Castellammare. A spese del tesoro nel 1842 cominciò quella per Capua e poi l’altra per Nola, Sarno e Sansevero. Nel 1837 arrivò il gas e nel 1852 il telegrafo elettrico.

Col benessere aumentava la popolazione in tutto il regno e per questa stessa ragione anche le entrate pubbliche che, di fatto, quintuplicarono.

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