Mar 31 2009

Identificata la piu’ antica arte d’Egitto: ha 15.000 anni

Category: Bibbia ed Egittogiorgio @ 05:24

Incisioni e disegni rupestri recentemente riscoperti nel sud dell’Egitto sono del tutto simili per età e stile alle pitture dell’Età della Pietra di Lascaux, Francia, e  Altamira, Spagna, hanno dichiarato gli archeologi.

 

“Non è un’esagerazione parlare di Lascaux sul Nilo, ha dichiarato il capo della spedizione Dirk Huyge, curatore della Collezione Egiziana al Museo Reale d’Arte e Storia di Bruxelles, Belgio.

La forma d’arte è diversa da qualsiasi altro esemplare mai scoperto in Egitto. Le incisioni – stimate risalire a 15,000 anni or sono – sono state cesellate sui fianchi calcarei delle colline presso il villaggio di Qurta, circa 640 km a sud del Cairo.

Delle più di 160 figure scoperte fino ad ora, la maggior parte ritrae tori selvatici. La più grande misura circa due metri di ampiezza. Le scoperte del team saranno pubblicate sul numero di settembre della rivista inglese Antiquity.

Si tratta della “seconda scoperta” dell’arte di Qurta. Alcune delle incisioni erano state trovate nel 1962 da un gruppo di ricercatori dell’Università di Toronto, Canada. Il capo della spedizione, Philip Smith, aveva allora ipotizzato – in un articolo del 1964 della rivista Archaeology – che le figure risalissero al Paleolitico (da 2.5 milioni a 10,000 anni or sono). Gli esperti del Paleolitico, risposero allora che si trattava di pura follia – perché “l’Europa era la culla dell’arte”.

Le scoperte di Huyge dello scorso marzo attestano invece che Smith aveva ragione.

Le incisioni saranno esaminate alla ricerca di licheni e materiale organico chiamato “strato di vernice” che possano essere datati al carbonio, o sottoposti ad un altro processo conosciuto come datazione delle serie dell’uranio. Essendo le rocce costituite di materiale inorganico, non possono essere datate direttamente usando questi metodi.

Nel contempo, la scoperta ha sollevato una grande questione: come possano i popoli dell’Europa occidentale e del sud dell’Egitto avere prodotto forme d’arte così simili, e quasi contemporaneamente?

Benché le cave di Lascaux siano meglio conosciute per le immagini pittoriche di tori e mucche, la gran parte della produzione rupestre è comunque costituita da incisioni sulla pietra. E le incisioni di Lascaux sono virtualmente identiche a quelle di Qurta, ha sottolineato Hyuge.

“Non sto dicendo che l’arte delle grotte di Lascaux sia opera di egiziani, o che gli europei arrivarono in Egitto” ha dichiarato. “Ma l’arte è tanto simile da riflettere una mentalità simile, o un simile stadio di sviluppo” ha aggiunto.

Ora gli archeologi sono a caccia di nuovi reperti – potenzialmente più antichi.

“L’arte rupestre deve essere parte di un’evoluzione” ha dichiarato Huyge. “Vi deve essere arte più antica in Egitto… dobbiamo solo riuscire a trovarla. Credo che siti a cielo aperto come questo si trovino in tutto il Nord Africa”

 

Fonte: la porta del tempio /http://news.nationalgeographic.com/news/2007/07/070711-egypt-artwork.html;


Mar 30 2009

Dino Coltro: il lupo non c’entra nel nome di San Giovanni Lupatoto;
e’ colpa dell’Adige.

Category: Verona storia e dintornigiorgio @ 07:27

Dino Coltro ricostruisce l’origine del nome

Lo studioso Dino Coltro in un libro rivoluziona le certezze sull’origine del nome del paese. Il toponimo deriverebbe da «corso d’acqua impetuoso» in ricordo dell’antico sfondamento degli argini del fiume

Il lupo all’ingresso del paese:

Lupatoto non deriva da lupo ma dallo sfondamento dell’Adige in pianura. Paquara non è sinonimo di acque da attraversare ma di terreno coltivabile.  Sorio non trae le sue origini da San Giorgio ma da «solium», ossia punto rialzato.

Rivoluziona le certezze riportate ai Lupatotini dai loro vecchi e imparate sui banchi di scuola, il nuovo libro di Dino Coltro dal titolo «Lupus in aqua», che verrà presentato martedì 31 marzo alle 20.30 con l’organizzazione della Pro loco nella sala convegni della Pia Opera Ciccarelli in via Carlo Alberto.

I contenuti dell’ultima opera dello studioso e storico della civiltà contadina sono anticipati dall’autore stesso.

«Il libro si divide in due parti», spiega Coltro. «La prima è un’ode poetica nella quale descrivo come gli abitanti di San Giovanni Lupatoto partendo delle montagne si siano fermati qui vedendo la Paquara inondata che ricordava tanto i loro luoghi di partenza. Nel componimento poetico cerco anche di spiegare le diverse trasformazioni subite dalla terra per effetto degli elementi atmosferici ma anche delle forze della natura».

Coltro introduce qui la sua teoria sull’etimologia di Lupatoto. «Ho preso in esame i vari documenti emersi nel giro degli ultimi decenni e quelli elaborati precedentemente», riferisce lo storico. «L’Adige, secondo le mie ricostruzioni, ha formato una bolla all’altezza della chiusa di Ceraino e poi ha sfondato questo argine invadendo la pianura e poi la bassa. E’ quello il lupus, la lova, ossia il corso d’acqua impetuoso, riportata in tanti documenti che ha dato il nome al paese e sulla cui origine tanti si sono sbizzarriti».

Lo scrittore pone quindi l’accento su San Giovanni. Secondo Coltro nessuno ha interpretato nel modo giusto il nome di San Giovanni Vecchio che viene attribuito nei documenti alla prima chiesa edificata in zona.

«Nella tradizione popolare è San Giovanni Battista, ovvero quello che viene chiamato “il vecchio” mentre in effetti si tratta di San Giovanni Evangelista, detto il giovane. Questa vecchia chiesa era un sacello rurale, situato in un luogo lontano dei centri, affidato a un custode, che però segnava il percorso della transumanza», ricostruisce Coltro. «In questo modo il San Giovanni della frantumazione degli argini diventa San Giovanni Lupatoto».

Coltro ricorda di non aver voluto co-firmare la «Storia di San Giovanni Lupatoto» scritta da Giuseppe Lavorenti proprio perché troppo dipendente, a suo dire, dalla monografia del paese scritta da Angelo Merzari.  A parere di Coltro la località Paquara, deve si tenne nel 1233 la famosa pace tra le signorie medievali, non deriva da «luogo presso il guado» ma significa terreno coltivabile.  «Quareta e quara sono termini dialettali che tuttora sussistono per identificare zone coltivabili» dice Coltro.

Sorio, il più vecchio insediamento del paese, secondo Coltro, non è una contrazione di San Giorgio (antica abbazia cittadina proprietaria del fondo agricolo) ma di «solium», una parola latina che identifica un punto in alto sul terreno. «Sorio era una contrada più alta dell’attuale corte, identificabile forse con la vecchia chiesetta della località», afferma lo scrittore.

«Ho ricollegato, studiando i vecchi documenti, i diversi luoghi e nomi partendo delle etimologie», conclude Coltro. «E’ una rielaborazione storica che parte dai nomi storici e arriva agli attuali toponimi».

Fonte: srs di Renzo Gastaldo da L’arena di Verona del Domenica 29 Marzo 2009, PROVINCIA,  pagina 26


Mar 29 2009

I Registri dei Cavalieri del Santo Sepolcro conservati nell’Archivio Storico della Custodia di Terra Santa: SBF – Nuova pubblicazione

Category: Chiesa Cattolica,Libri e fontigiorgio @ 06:57

SBF Editiones

 

Registrum Equitum SSmi Sepulchri D.N.J.C. (1561-1848). Manoscritti dell’Archivio Storico della Custodia di Terra Santa a Gerusalemme, editi a cura di Michele Piccirillo (Studium Biblicum Franciscanum – Collectio Maior 46), Edizioni Custodia di Terra Santa, Jerusalem – Milano 2006.

 

Un’opera che risulterà una sorpresa per molti ricordando i rapporti secolari che legano l’istituzione dei Cavalieri del Santo Sepolcro con i Francescani di Terra Santa custodi del Santuario di Gerusalemme dal lontano 1333 grazie alla trattativa diplomatica condotta a buon fine con il Sultano d’Egitto al-Nasir Muhammad da Roberto d’Angiò e Sancha di Maiorca reali di Napoli. I registri non si spingono così lontano e iniziano solo con il 1561. Il motivo è detto a pagina a pagina 3 del primo registro che rimanda alla storia sempre tribolata di questa terra. Nel 1633 padre Paolo da Lodi Custode di Terra Santa diede l’ordine di ricopiare i nomi dei Cavalieri nel nuovo Registro. Il copista tiene a ricordare che, purtroppo, il registro nel quale erano annotati i nomi dei Cavalieri creati da padre Bonifacio da Ragusa con tutti i registri precedenti furono bruciati dai Turchi durante la guerra di Cipro. Altri nomi andarono persi perché non trascritti, sempre a causa delle perquisizioni dei Turchi, viene aggiunto a pagina 15. Mancanze che non intaccano la sostanza storica dei documenti pubblicati nell’opera grazie al patrocinio del Cardinale Carlo Furno Gran Maestro dei Cavalieri.

 

I due Registri pubblicati conservati nell’Archivio Storico della Custodia di Terra Santa a Gerusalemme (Registrum A – Registrum B) iniziano con l’anno 1561 e terminano nel 1848. La motivazione è stata scritta in italiano sulla copertina del Registrum B: “I nostri Padri non crearono più i Cavalieri perché venne il Patriarca e annesse a sè questa facoltà nel 1848”.

Il 1561 è l’anno nel quale Papa Pio IV emanò la bolla con la quale confermava tutte le facoltà e i privilegi del Padre Custode di Terra Santa (1 Agosto, 1561), come avevano fatto prima di lui Papa Leone X il 4 Maggio 1515, e Papa Clemente VII nel 1525. Tra i privilegi risulta l’investitura dei Cavalieri del Santo Sepolcro. Da pochi anni i Frati abitavano nel Convento di San Salvatore, ex convento georgiano della Colonna, dopo essere stati cacciati nel 1551 dal Convento del Sion dove avevano abitato dal 1333. Nel 1847 Papa Pio IX aveva emanato la bolla Nulla Celebrior con la quale ripristinava a Gerusalemme il Patriarcato Latino dando al Patriarca la facoltà di investire i Cavalieri. Era Custode di Terra Santa padre Bernardino Trionfetti che il 16 Maggio 1848 creò Cavaliere il Patriarca Giuseppe Valerga. L’investitura fu registrata nel Registrum B che termina con tale data.

 

Di fatto, l’investitura dei Cavalieri sulla Tomba di Cristo da parte del Padre Custode di Terra Santa è attestata dal 1496 al tempo del Padre Bartolomeo di Piacenza primo Magnus Ordinis S. Sepulchri Magister.  Precedentemente, abbiamo le testimonianze dei pellegrini che descrivono l’investitura a Gerusalemme sempre nella Basilica del Santo Sepolcro.

Il primo ricordo dell’Ordine della Cavalleria del Santo Sepolcro si legge nella relazione di viaggio del Cavaliere Guglielmo di Boldensel del 1336: “Dopo la Messa, io feci cavalieri due gentiluomini sul Sepolcro cingendo loro la spada e osservando le altre formalità che sono d’uso per ricevere l’Ordine della Cavalleria”. Nel 1340 un documento del priorato spagnolo del Santo Sepolcro di Calatayud è firmato da Guglielmo cavaliere dell’Ordine del Santo Sepolcro. La Cronaca Anonima di Valenciennes (XIV-XV secolo) riporta che Guglielmo di Solre fu creato cavaliere nel Santo Sepolcro da Guglielmo II conte di Olanda e di Hainaut che egli aveva accompagnato a Gerusalemme nel 1343. Valdemar IV Atterdag re di Danimarca nel 1340, venne a Gerusalemme dove volle essere fatto cavaliere del Santo Sepolcro.

La relazione del martirio dei Santi Nicola Tavelich, Stefano da Cuneo, Pietro di Narbona e Deodato Aribert di Rodez, avvenuto a Gerusalemme l’11 novembre 1391, scritta lo stesso giorno da fra Gerardo Chauvet guardiano del convento francescano del Monte Sion, fu sottoscritta tra gli altri da Giovanni Barrile di Napoli, “fatto allora cavaliere del Santo Sepolcro con i suoi servitori”che si trovava a Gerusalemme.

 

Nel 1420 nella Cronaca de Leyde viene descritta l’investitura di Compar De Caumont avvenuta l’anno prima da parte del sacerdote celebrante alla presenza dei Francescani che avevano preso dimora fissa all’interno del complesso del Santo Sepolcro nel 1348 al tempo del Sultano al-Mudhaffar. Nel testo si spiegano anche gli obblighi che si richiedevano all’aspirante Cavaliere. Del 1465 è l’attestato che Padre francesco da Piacenza, vicario del Guardiano del Monte Sion, consegnò a Giorgio Emerich di Görlitz venuto a Gerusalemme in espiazione di un atto di violenza, creato cavaliere sulla tomba di Cristo, dopo aver ricevuto il perdono delle sue azioni.

Un importante ruolo nelle investiture della seconda metà del XV secolo ebbe fra Giovanni di Prussia ricordato da fra Felix Fabri domenicano nella sua visita del 1480 e del 1483: “Hic habet auctoritatem domini Papae et domini Imperatoris, et favores principibus Christianitatis, creandi et percutienti milites peregrinos ad sanctum domini Sepulchrum venientes”. Di fra Giovanni, fra Fabri dà una convinta testimonianza nella sua opera: “Ingressi sunt etiam nobiscum Fratres Montis Syon, inter quos nobiscum intravit spectabilis vir, dictus Johannes de Prussia, Procurator Fratrum Montys Syon, saecularis quidem status, sed regularis habitu et vita. Utitur enim proprio arbitrio habitu tertii ordinis S. Francisci, cui tamen regulae voto se non adstrinxit. Hic vir est genere nobilis, de prosapia comitus, Teutonicus de Prussia, procerae statura, longam barbam, veneranda canitie decorus; maturus valde est vir ille, et multarum experientiarum, moribus compositus, conscentiosus et timens Deum. Has laudes non ex auditu, sed ex certa scientia huic probo viro do”. Probabilmente fra Giovanni è ricordato impropriamente con il titolo di Guardiano nell’itinerario di Martin Ketzel (1476): “Il duca Albert de Saxe creò 72 cavalieri del S. Sepolcro e il Guardiano ne creò altri 31”.

 

Nel 1480, anno del primo pellegrinaggio di fra Felix Fabri, Fra Giovanni viene chiamato ‘legato imperiale’ da Santo Brasca: “In dicto Sancto Sepulchro forno facti Cavalieri aurati sette pellegrini da uno legato imperiale, con grandissima solennità, devozione et riverentia”.

Lo stesso pellegrino ricorda che il Padre Guardiano del Monte Sion, al tempo padre Giovanni de Thomacellis rilasciò la patente scritta in latino nella quale si attestava che il neo Cavaliere “Super Sanctissimum Domini Sepulchrum fuit cingulo militari insignitus atque solemniter decoratus”. Nel 1483 Bernardo di Breydenbach Canonico di Mainz ricorda come dopo aver trascorso la notte nel Santo Sepolcro, all’alba del 16 luglio, “diversi dei nostri pellegrini nobili presero l’ordine della cavalleria osservando le cerimonie e i riti stabiliti, in modo secreto perché gli infedeli non li permettono. Acquistarono così la dignità cavalleresca. Terminate queste cerimonie, i Frati Minori celebrano la Messa nel Sepolcro del Signore”.

Un’altra interessante testimonianza è del sacerdote Pietro da Casola che nel 1494 aiutò a riempire i formulari dei Cavalieri investiti durante il suo pellegrinaggio: “Siccome mancava un segretario, io scrissi diverse lettere che certificavano che erano stati creati cavalieri al Santo Sepolcro, conforme al modello che mi diede il Guardiano (dei Frati Minori)e io sigillai le lettere”.

Dalle ricerche condotte da J.-P. De Gennes, (Les Chevaliers du Saint Sépulchre de Jérusalem, Vol. I, Ed. Herault, 1995, p. 175 ss.) risulta che tra il 1348 e 1496 (data del riconoscimento ecclesiastico alla pratica attestata in precedenza) furono creati 653 Cavalieri (20 per il XIV secolo e 633 per il XV secolo).

 

Il testo in latino del rito dell’investitura da parte del Padre Custode di Terra Santa ci è stato conservato da Padre Tommaso Obicini da Novara nella Forma Instituendi, seu ordinandi Milites, ripubblicata integralmente con la traduzione italiana a fronte ad inizio del volume. Foto del testo e trascrizione a fronte che è stato seguito anche per la pubblicazione dei registri dando così modo al lettore di controllare di persona il documento. Un indice onomastico curato dallo studioso Giuseppe Ligato faciliterà la consultazione. Tra i nomi, con i Custodi e i frati benemeriti di Terra Santa come padre Bonifacio da Ragusa, padre Francesco Quaresmi, padre Faustino da Tuscolano, padre Mariano da Maleo, fra Elzeario Horn, padre Andrea da Montoro, il lettore troverà i pellegrini scrittori Kotovicius, Aquilanus da Rocchetta, Chateaubriand, lo storico delle Crociate Michaud, il professore Nepomuceno Sepp, il principe Massimiliano di Baviera e tanti altri membri delle famiglie reali d’Europa.

L’idea di pubblicare i due Registri, accettata e caldeggiata dal Padre Giovanni Battistelli Custode di Terra Santa e dal Gr.Uff.Gen.Avv. Gian Roberto Costa, Luogotenente per l’Italia Settentrionale dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme, è stata realizzata grazie all’assenso dato all’iniziativa culturale dal Padre Pier Battista Pizzaballa, attuale Custode di Terra Santa, da S.E.Cav.di Gr.Cr.Dott.Ing. Pier Luigi Parola Governatore Generale e dal Gr.Uff.Gen.Avv.Silverio Vecchio Luogotenente per l’Italia Settentrionale dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme che hanno generosamente contribuito alle spese per la coedizione di questo importante documento.

La pubblicazione vuole essere un passo importante per uno studio ancora in corso di approfondimento su una nobile istituzione benefica che ha le sue origini nell’amore comune al Santo Sepolcro e alle Comunità Cristiane della Terra Santa che lega i Frati Minori ai Cavalieri del Santo Sepolcro ai quali questo lavoro è dedicato.

 

Fonte: srs di Michele Piccirillo, SBF Gerusalemme


Mar 28 2009

La decadenza dell’Italia

Category: Gli ultimi,Società e politicagiorgio @ 06:44

 

La decadenza dell’Italia, fa il suo corso come le tarme in un armadio dismesso.


Il “gigante” Italia, poi, aveva i piedi d’argilla.


Molti lo sapevano, pochi lo dicevano, nessuno voleva guardare in faccia la realtà.


Alla decadenza dell’Italia  non c’è rimedio.

Chi la vive non farà altro che prospettare soluzioni che la aggravano, poichè lui stesso ne è parte.


Egli non puo’ e non vuole uccidere chi lo ha generato.


Così non si farà altro che perseverare, attendendo l’oblio nel quale tutto s’adagerà sommessamente.


Senza fare neppure tanto rumore.

 

PS:

Prima regola della decadenza: mai tentare di reagire alla decadenza.

Subiamola in silenzio per favore.


Grazie

 

Fonte: NR. da int.


Mar 27 2009

Un sigillo della regina Gezabele

Category: Bibbia ed Egittogiorgio @ 08:53

Il dottor Marjo Korpel, dell’universit‡ di Utrecht, in un suo studio sostiene che un sigillo scoperto nel 1964 e datato al nono secolo a.C., apparteneva alla regina Gezabele ricordata nell’Antico Testamento.

Fu l’archeologo Nahman Avigad a scoprire il sigillo sul quale si leggeva il nome yzbl scritto in lettere dell’alfabeto ebraico antico. In un primo momento si pensò proprio alla moglie fenicia del re Acab ma, dal momento che il nome era scritto in maniera errata (le consonati non corrispondevano a quelle del nome biblico ndr.), l’attribuzione fu sospesa.

Korpel, dopo un’attenta indagine condotta sui simboli che appaiono sul sigillo, lo ha riattribuito alla legittima proprietaria, Gezabele.

Il sigillo, oltre a segni di chiaro riferimento femminile, porta simboli che designano l’appartenenza a una donna di rango regale. Inoltre ha delle dimensioni maggiori rispetto a quelle di un sigillo appartenente a persone comuni.

Per quanto riguarda il nome Korpel dimostra che nel bordo superiore del sigillo dovevano esserci altre due lettere ora spezzate. Una volta integrate, il nome Gezabele apparre corretto.

Il sigillo si trova presso l’Israel Museum di Gerusalemme e fa parte della collezione dell’Israel Antiquities Authority.

Fonte: SBF Taccuino/ AlphaGalileo/ Press Release – Università di Utrecht (23 October 2007)


Mar 26 2009

Discorso di Critognato

Category: Autonomie Indipendenze,Cultura e dintornigiorgio @ 08:16

Giulio Cesare: Discorso di Critognato –

l discorso di Critognato durante l’assedio di Alesia è l’unico riportato in forma diretta nel De bello Gallico: davvero una singolare eccezione da parte di Cesare nei confronti dello spregiudicato capo arverno, che alla fine del suo discorso giungerà a proporre il cannibalismo come estremo mezzo di resistenza.

(77)     At ii qui Alesiae obsidebantur praeterita die qua  auxilia suorum exspectaverant, consumpto omni frumento, inscii quid in Haeduis gereretur, concilio coacto  de exitu suarum fortunarum consultabant ac variis dictis  sententiis quarum pars deditionem, pars dum vires suppeterent eruptionem censebat, non praetereunda videtur oratio Critognati propter eius singularem ac nefariam  crudelitatem. Hic summo in Arvernis ortus loco et magnae  habitus auctoritatis ‘nihil’ inquit ‘de eorum sententia  dicturus sum, qui turpissimam servitutem deditionis nomine appellant, neque hos habendos civium loco neque  ad concilium adhibendos censeo. Cum his mihi res sit, qui  eruptionem probant. Quorum in consilio omnium vestrum  consensu pristinae residere virtutis memoria videtur,  animi est ista mollitia, non virtus, paulisper inopiam ferre  non posse. Qui se ultro morti offerant facilius reperiuntur  quam qui dolorem patienter ferant. Atque ego hanc sententiam probarem – tantum apud me dignitas potest -,  si nullam praeterquam vitae nostrae iacturam fieri viderem; sed in consilio capiendo omnem Galliam respiciamus,  quam ad nostrum auxilium concitavimus: quid hominum  milibus LXXX uno loco interfectis propinquis consanguineisque nostris animi fore existimatis, si paene in ipsis cadaveribus proelio decertare cogentur? nolite hos vestro  auxilio exspoliare qui vestrae salutis causa suum periculum neglexerunt, nec stultitia ac temeritate vestra aut  animi imbecillitate omnem Galliam prosternere et perpetuae servituti addicere. An quod ad diem non venerunt,  de eorum fide constantiaque dubitatis? quid ergo? Romanos in illis ulterioribus munitionibus animine causa cotidie exerceri putatis? si illorum nuntiis confirmari non  potestis omni aditu praesaepto, his utimini testibus adpropinquare eorum adventum, cuius rei timore exterriti  diem noctemque in opere versantur. Quid ergo mei consilii est? facere quod nostri maiores nequaquam pari bello Cimbrorum Teutonumque fecerunt: qui in oppida compulsi ac simili inopia subacti eorum corporibus, qui aetate  ad bellum inutiles videbantur, vitam toleraverunt neque  se hostibus tradiderunt. Cuius rei si exemplum non haberemus, tamen libertatis causa institui et posteris prodi  pulcherrimum iudicarem. Nam quid illi simile bello fuit?  depopulata Gallia Cimbri magnaque inlata calamitate  finibus quidem nostris aliquando excesserunt atque alias  terras petierunt; iura, leges, agros, libertatem nobis reliquerunt. Romani vero quid petunt aliud aut quid volunt  nisi invidia adducti quos fama nobiles potentesque bello  cognoverunt, horum in agris civitatibusque considere  atque his aeternam iniungere servitutem? neque enim  umquam alia condicione bella gesserunt. Quodsi ea quae in longinquis nationibus geruntur ignoratis, respicite finitimam Galliam, quae in provinciam redacta, iure et legibus commutatis, securibus subiecta perpetua premitur  servitute.’

(78)     Sententiis dictis constituunt ut ii, qui valetudine  aut aetate inutiles sint bello, oppido excedant atque omnia prius experiantur quam ad Critognati sententiam descendant; illo tamen potius utendum consilio, si res  cogat atque auxilia morentur quam aut deditionis aut  pacis subeundam condicionem. Mandubii qui eos oppido  receperant, cum liberis atque uxoribus exire coguntur. Hi cum ad munitiones Romanorum accessissent, flentes  omnibus precibus orabant ut se in servitutem receptos  cibo iuvarent. At Caesar dispositis in vallo custodiis recipi  prohibebat.

(77) Ora quelli che erano assediati dentro Alesia, passato il giorno nel quale aspettavano i rinforzi, consumato tutto il frumento, ignari di ciò che accadeva in quel degli Edui, adunarono il consiglio per deliberare sulla situazione. Vari furono i pareri; chi proponeva la resa, chi consigliava, fin che le forze bastavano, una sortita. Ma tra gli altri discorsi, non  mi sembra di dover tacere quello di Critognàto in grazia della sua singolare e spaventosa atrocità. Costui, che era un arverno di grande famiglia e di alto prestigio:

“Nulla dirò” disse “circa la proposta di coloro che dànno il nome di resa alla più turpe schiavitù; non li considero neppure cittadini e non voglio neppure ascoltarne il parere. Io parlo soltanto a coloro che vogliono una sortita, perché nella loro proposta mi sembra, e certo vi consentite voi tutti, che sia ancor vivo il ricordo dell’antico valore. Mollezza d’animo è, non valore, il non saper sopportare un poco di carestia. E’ più facile trovare chi si voti alla morte, che non chi sia pronto a sopportare il dolore. Ed io potrei anche accettare la sortita, tanto è il mio senso dell’onore, se non vedessi in pericolo nient’altro che la nostra vita. Ma prima di deliberare, noi dobbiamo volger lo sguardo a tutta la Gallia, che abbiamo sollevato per recarci aiuto. Pensate: che animo sarà quello dei nostri congiunti, dei nostri consanguinei, se, dopo il massacro di ottantamila uomini dentro a questa piazza, essi saranno costretti a combattere, si può dire, sopra i nostri cadaveri? Ah, non vogliate privar del vostro aiuto chi ha obliato il proprio rischio per la vostra salvezza; non vogliate, per la vostra stoltezza, per la vostra temerità, per la vostra debolezza d’animo gettare a terra tutta la Gallia e consegnarla a un eterno servaggio. Perché non son giunti proprio nel giorno fissato, dubitate dunque della loro fede e della loro costanza? E che? Credete forse che i Romani lavorino senza posa, quotidianamente, alle fortificazioni esterne, così, per passatempo? Se non potete averne la sicurezza dai loro messaggi, perché è chiuso ogni passo, vi provi il comportamento dei Romani che il loro arrivo è vicino; dei Romani, che vinti dal terrore di questo arrivo, lavorano febbrilmente e giorno e notte. Qual è dunque il mio parere? Fare quello che i nostri antichi fecero nella guerra, ben meno grave di questa, dei Cimbri e dei Teùtoni. Essi, ricacciati nelle loro fortezze, e torturati da una carestia come questa, si sostentarono con le carni di coloro che l’età rendeva inabili alla guerra, e non si consegnarono ai nemici.  E se già non ne avessimo l’esempio, io proporrei di darlo qui la prima volta per amore della libertà, e di tramandarlo come stupendo ai posteri. Perché, che cos’ebbe quella guerra di comune con questa? I Cimbri, devastata la Gallia e copertala di sciagure, pur una buona volta uscirono dal nostro paese e cercarono altre terre; diritti, leggi, terreni, libertà, tutto essi ci lasciarono. Ma i Romani, gelosi di tutti coloro di cui conoscono la nobile fama e la potenza guerriera, che altro chiedono o vogliono, se non stabilirsi nelle loro campagne e nelle loro città ed infliggere loro un eterno servaggio? Nessuna guerra con altro scopo essi fecero mai. Che se voi ignorate ciò ch’essi fanno in lontani paesi, guardate la Gallia a noi vicina, che, ridotta a provincia, privata dei suoi diritti e delle sue leggi, soggetta alle scuri, si trova oppressa da una servitù senza fine”.

(78) Finita la discussione, fu deciso che coloro che per salute o per età erano inabili alla guerra uscissero dalla fortezza, e che tutto si tentasse prima di giungere fino a seguire la proposta di Critognàto; nondimeno, si sarebbe ricorso anche a questo, se la necessità lo imponesse e tardassero gli aiuti, piuttosto che trattare la resa o la pace. I Mandùbii, che li avevano accolti nella loro città, vengono costretti ad uscire coi figli e le mogli. Giunti alle difese romane, piangendo, con mille preghiere, supplicavano che li prendessero come schiavi, pur d’aver da mangiare. Ma Cesare, posti corpi di guardia sul vallo, vietò di riceverli.

Fonte: De bello Gallico


Mar 25 2009

VERONA – POVEGLIANO: Il pendaglio dei guerrieri svela il mistero dei Celti

Category: Verona archeologia e paleontologiagiorgio @ 18:13

Gli archeologi lavorano su una tomba celtica agli scavi in località Ortaia di Madonna dell’Uva Secca

Gli archeologi hanno finora riportato alla luce 203 sepolcri e centinaia di oggetti dell’antico popolo

Giorgio Bovo. È stato trovato in una tomba e dimostra che all’Uva Secca c’era la capitale veronese della comunità cenomane

Gli scavi archeologici in località Ortaia di Madonna dell’Uva Secca rafforzano la tesi che tra la fine del III e il I sec. a.C. l’area compresa tra Povegliano e Vigasio sia stato il centro dei Cenomani in provincia di Verona. Sono 203 finora le tombe celtiche scavate dai primi anni Novanta, di cui 128 nel 2007 e 2008, e manca l’ultima fase dello scavo, prevista per quest’estate. 

Le tombe sono ad incinerazione e ad inumazione, al centro dello scavo si trovano le più grandi (fino a 3×3 metri), ai lati le più piccole dei bambini. In una delle più grandi è stato fatto un ritrovamento che fa cambiare alcune considerazioni sui Cenomani. «Una delle scoperte più importanti», ha spiegato durante una conferenza tenutasi in villa Balladoro, Daniele Vitali, dell’università di Bologna, direttore dello scavo e uno dei massimi esperti europei dei Celti, «è un pendaglio a tre palle d’argento decorate a sbalzo, con motivi vegetali e teste umane tra una spirale e l’altra. È un motivo molto caratteristico dell’arte e dell’ideologia celtica: i guerrieri amavano conservare in casa dentro cassettine di legno imbalsamate o imbevute di olio le teste mozzate dei nemici per mostrarle agli ospiti con grande orgoglio. Si pensava che questi dischi venissero importati dai Celti di area danubiana. Con questa scoperta possiamo cominciare a dire che questi dischi d’argento sono stati realizzati in ambiente cenomane». 

Alcuni oggetti trovati nelle tombe dagli archeologi

Nelle tombe è stata rinvenuta una gran quantità di oggetti, in una sola ben 98: una bilancia da orafo (oggetto abbastanza raro in un sepolcreto del II-I secolo a.C.), vasi di ceramica, bicchieri, padelle con manico a becco d’anitra, secchi, umboni di scudi in ferro, spade a doppio tagliente con punta affilata, falcetti, spiedi in ferro, anelli, fondi di vaso in bronzo, ossa di femori animali per prosciutti, zampette, costole, ossa di maialini da latte, resti di volatili. In alcune tombe ci sono deposizioni a più strati, destinate a più individui. Sotto un vaso c’è la più lunga iscrizione in lingua celtica finora trovata a nord del Po in area cenomane, con il nome di un personaggio. Nell’area dello scavo sono state rinvenute anche tombe del periodo nel quale una parte della popolazione si era romanizzata e quindi adottava un rito funerario diverso: lucerne in terracotta, incinerazioni con delle offerte in monete romane in bronzo, vasi ossuari. 

Luciano Salzani, direttore alla Soprintendenza dei beni archeologici di Verona, ha ricordato che questo scavo è contiguo a quello iniziato nel 1992 quando fu bonificata un’ampia area sulla quale sarebbe poi sorta la zona industriale. Giulio Squaranti, presidente dell’associazione Balladoro, ha dichiarato l’obiettivo di arrivare ad una pubblicazione scientifica dello scavo e all’allestimento di una grande mostra che potrebbe costituire il nucleo fondamentale del museo archeologico di villa Balladoro.

 

Fonte: srs di Giorgio Bovo da L’arena di Verona di mercoledì 25 marzo 2009,  provincia, pagina 27


Mar 25 2009

WORDORESS: TEMI INFETTI

Category: Informaticagiorgio @ 11:43

Scritto il 18 marzo 2009 

 

Non è una vulnerabilità di WordPress, è la vulnerabilità più importante che c’è nell’informatica, l’Utente.

Nonostante le raccomandare di scaricare i temi solo da WordPress.org o dai siti ufficiali degli autori, alcuni utenti si ostinano a cadere vittima di strani  siti.

Nei temi che scaricate dai siti “free” e spiccioli si trovano funzioni offuscate inserite nel file functions.php, header.php, footer.php  (si possono trovare anche in altri file) che scrivono nel vostro database.

Se cercate un nuovo tema andate sui siti affidabili come ho scritto prima, se invece siete caduti in trappola, cancellate il tema, rirpristinate un backup di prima dell’installazione del tema infetto, oppure esportate tutti i post e i commenti, svuotate il database, reinstallate wordpress e reimportate post e commenti, oppure ripulite il database da dati anomali inseriti dal tema


Mar 24 2009

CASTEGGION (CASTEJON) DI COLOGNOLA AI COLLI, DOVE SI NARRA LA MEMORABILE STORIA DI UNA COLLINA…

CASTEJON di  Cologna ai Colli, dove  si narra la memorabile storia di una collina, …con le strabilianti gesta di sindaci, speculatori, archeologi, contadini etc,  etc,…

Ogni riferimento a persone o cose reali è puramente causale

INSERTO REDAZIONALE NORDEST  N° 4 –  aprile  1985

Scarica el-castejon-de-colognola-ai-colli-inserto

Questa “storia” che andiamo a raccontare farà forse sorridere (lo speriamo) o forse arrabbiare (suvvia!! non è il caso), ma il nostro proposito è soprattutto quello di far riflettere un attimo: in tante città, paesi, contrade, la gente, spesso, si racconta “storie” come questa o simili a questa.

Ringraziamo l’anonimo autore che ha voluto raccontare a fumetti uno di queste “storie”

“Nordest” offre questo inserto ai propri lettori, con simpatia.

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Mar 23 2009

VERONA. IL CASTEGGION O CASTEJON O DI COLOGNOLA AI COLLI: PRIMA E DOPO.

Prima

E dopo  la cura edilizia

Ecco com’ è  la condizione attuale del Castejon di Colognola ai Colli prima e dopo  la “cura” edilizia.

Un vero esempio di misfatto culturale. Il più bell’ abitato di origine protostorica  esistente nel Nord  Italia, praticamente devastato.

Ai naviganti… l’arduo  giudizio.


Mar 22 2009

IL CASTEGGION (CASTEJON) DI COLOGNOLA AI COLLI: L’ALTARE SOTTO L’ASFALTO

Altare a coppelle del  Castejon, disegno

Verona 1973

In archeologia, come « coppelle» o « cuppelle»  (dal latino « piccole  coppe») vengono definite quelle concavità più o meno numerose e di diametro più o meno minuscolo che – per lo più dalla tarda età del Bronzo in poi – l’uomo ebbe a praticare su lastre di basalto, porfido od altre rocce con strumenti di selce o di metallo.

Purtroppo le voci « coppella » o « cuppella » non esistono ne sull’ Enciclopedia Italiana Treccani e nemmeno nei molti manuali di preistoria, protostoria od archeologia oggi in commercio.

UN INTERROGATIVO ARCHEOLOGICO

Eppure, sin dai primordi della paletnologia, la forma e la disposizione di tali rotonde incisioni rupestri destarono l’interesse degli studiosi anche se – a quel che mi risulta – nessuno ancora vi si dedicò con uno studio che definisca chiaramente tutti i problemi fatti sorgere da questo non unico interrogativo archeologico.

Va ancora tenuto presente – per quel che riguarda le « coppelle » su pietre basaltiche – che il basalto, come roccia formatasi in seguito al raffreddamento ed alla solidificazione di magma fuso (i basalti veneti hanno un’età che va dal Cretacico superiore al Miocene inferiore),  presenta spesso una struttura porosa con bolle formate da scorie vulcaniche. Tale roccia, se spaccata, può dunque presentare talvolta « coppelle » naturali anche se grezze ed irregolari, ma chiaramente differenziabili dalle « coppelle » formate dall’ uomo su di un « liscione » levigato da agenti naturali o artificiali.

L’autore che maggiormente si è diffuso, ai primi del nostro secolo, sul problema delle « coppelle » è stato certamente Emilio Carthailhac  (1) il quale ci assicura che « les pierres à ecuelles » vennero segnalate per la prima volta nella Svizzera, nella seconda metà dello scorso secolo. Seguì la constatazione che analoghe pietre a coppelle esistevano nella Scozia, in Inghilterra, in Irlanda,  Scandinavia, Marocco, Francia, Germania, Portogallo  (2).

MITI E RELIGIONI SOLARI

Che tali manifestazioni “d’art mobilier”, come dicono i francesi, fossero un tempo legate al culto delle pietre e del Sole, sembra oggi scontato.  Infatti, per il primitivo, la pietra non fu mai qualcosa di morto poiché la durezza, la pesantezza, la compattezza della pietra rappresentavano per lui cariche di forza misteriosa e divina.  Anche il capo degli apostoli, Pietro, non ebbe infatti da Gesù il soprannome di Cefa  (greco Petros, roccia) e cioè « uomo-pietra »?  E nel Vangelo è scritto che Gesù disse a lui: « Tu sei Pietro, e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa ».

Nella fantasia poi degli uomini soprattutto dell’età del Bronzo, molti altri fenomeni inspiegabili divennero oggetto di potenza magica, come l’acqua che sprizza dalla roccia, come lo strano potere di tal une pietre di trasformarsi, di divenire un’altra cosa, come la roccia che – sotto l’azione del fuoco  si trasforma in metallo completamente diverso dal minerale, bianco come la luna o giallo come il sole.  Da quelle pietre, per l’azione del sole o del fuoco, emanava un caldo flusso di vita, come al piede del primordiale sacrario di Colognola ai Colli, sprizzava, anche nel pieno dell’inverno, l’acqua tiepida di Caldiero.

Una volta che l’uomo constatò tali forze per lui misteriose cercò di indurle in se stesso propiziandosele ed il rito più corrente consiste nell’aspergere di sangue o di olio la pietra sacra come offerte alla « casa del dio »  (Betel).

L’OFFERTA DELL’OLIO

L’ olio, quale sostanza dotata di forza, aveva nel culto la stessa parte del grasso che si usava bruciare come sacrificio alle divinità superiori; l’ungere d’olio l’oggetto di culto oppure offrirgli dell’olio aveva per fine un immagazzinamento di forza e le coppelle trattenevano più a lungo la liquida sostanza sulla pietra consacrata.

E non era l’olio necessario per avere la luce che illumina?  Possedeva  quindi un potere invocatorio, era indispensabile nella lotta contro le tenebre, cioè contro le potenze del male che privavano gli uomini dei benefici e salutari raggi del Sole.

Nella mitologia del popolo greco l’olivo era l’albero sacro a Minerva poiché si credeva che tale divinità l’avesse introdotto nell’Attica facendolo scaturire dalla roccia quando essa, con la sua lancia, colpì il sacro suolo dell’  Ellade.

Così i Semiti ungevano d’olio la pietra sacra (Genesi, XXVIII, 18), così per i Sardi dell’età del Bronzo si celava nella pietra lo spirito fecondatore e « questo era assunto, magicamente, dalle vergini spose, scivolando, nude, sul pilastro unto per l’occasione (pietra di Ortueri detta « Sa Frissa »,  cioè « l’unta »,  che ricorda la «colonna unta» o « toro del cielo» del mito egizio), o sfregandovi il ventre  e  il sesso o semplicemente arrampicandosi: era il sacrificio venereo al genio della pietra, perchè il grembo femminile non negasse la prole, segno di maledizione e di castigo. (3).

MANIFESTAZIONI MAGICHE

Manifestazioni magiche che ricordano quelle descritteci dal Cartailhac  (4) : « Dans le departement de l’Aain, lorsque les jeunes filles e les veuves allaient en pèlegrinage à l’antique chapelle de Saint-Blaise, elles passaient à Thoys et près d’un petit bloc erratique ovale, couvert d’une soixantaine de cupules; là, elles se livraient à certaines pratiques pour obtenir un epoux dans l’annee ».

E lo stesso autore aggiunge che da tutta la penisola indiana, le femmine portano acqua dal Gange fino alle montagne di Penhjab per irrorare le coppelle esistenti in quei templi implorando la divinità che faccia loro la grazia di divenir madri.

Così fra i Semiti occidentali si usava ungere le « massêbôt », le sacre pietre, con sangue e con olio per indurre in esse o nel nume in esse contenuto, una forza voluta. Pertanto in Oriente anche oggi vengono unte le statue divine, come nel culto di Quirino si ungevano le armi, i re ed i profeti, come ancor oggi si ungono con l’ Unto del Signore i sacerdoti, e si dà l’estrema unzione ai cattolici morenti per dare un certo qual vigore all’anima che se ne va. Il sacro « crisma » infatti non è che una miscela d’olio d’oliva e di balsamo che serve anche nella consacrazione delle chiese e degli altari.

Nell’Annuario Scientifico ed Industriale (a. III, 1866, pag. 224) a cura di Giovanni Canestrini è scritto:  « Morlot fece alcune osservazioni sulle pietre a  scodella, di cui si rinvennero degli esemplari in diversi cantoni della Svizzera: esse si trovano fino nel centro delle Alpi e ad una altezza ragguardevole. Gerlach ne trovò una sulla via del Sempione e Morlot ne vide un’altra presso il villaggio d’Ayer. Quest’ultima è molto singolare; essa è coperta di molte cavità artificiali. Gli abitanti la chiamano Pietra del Selvaggio e dicono di vedervi sovente le fate.  Scavando nel suolo intorno alle pietre e scodella si trovano talvolta dei carboni e dei frammenti di vasi antichi. Il masso a scodella osservato da Gerlach trovasi presso il villaggio di Schalberg all’altezza di più che 1500 metri e chiamasi Sasso delle Streghe. Due altre simili pietre furono osservate dal Morlot presso Thonon; la più interessante si fu quella di Peneux formata da un masso erratico portante alla faccia superiore molte cavità artificiali. La gente del paese diceva che il sabato vi si radunavano gli stregoni e che talvolta nelle cavità si trovava dell’olio, allorché farebbe credere vi si facessero ardere degli stoppini e che il masso a scodelle servisse da altare. Altre pietre a scodelle furono osservate dal dotto Clement a Saint-Aubin, cantone di Neuchatel, dove ne vide di quelle a molte cavità comunicanti per solchetti ».

L’OFFERTA DEL SANGUE E DEL VINO

I veneratori di divinità acquatiche fanno scorrere nell’acqua il sangue delle vittime ad esse offerte; quelli che adorano divinità risiedenti nelle pietre sacre facevano e fanno altrettanto lasciando scorrere  del sangue sul sacro altare.  Avevano incavi per tali liquidi le tavole di pietra (hotep) degli Egiziani, trovate in gran numero nelle tombe; coppelle venivano incise sulla pietra presso le tombe degli antichi Sardi. Hanno incavi per i sacri liquidi gli altari rinvenuti negli strati più bassi e perciò più antichi delle città  Cananee, Megiddo e Taanach,  altari consistenti in una semplice roccia, nella quale sono state scavate delle scodelline per le liquide offerte.

Il sangue è per l’uomo l’eminente veicolo della forza vitale, poiché se esce dal suo corpo, l’uomo muore: ecco perchè, nei rapporti tra l’uomo e il dio, si tingevano e si aspergevano anche di sangue gli altari. Il sangue, con il Cristianesimo, venne sostituito, nel sacro rito, con il vino e infatti è l’espansione del Cristianesimo che ha contribuito alla diffusione della vite, essendo il vino, per i cristiani, l’elemento indispensabile per celebrare la messa.  Erano infatti contrari al vino i Buddisti e gli Ebrei, e così i Metodisti e i Mormoni.  Nabucodonosor a Babilonia versava « fiumi» di vino e d’olio sugli altari per onorare gli dei; a Roma, per purificare un campo che si coltivava per la prima volta, si spruzzava la terra di vino. Ancora oggi, nella Valpolicella, i vecchi, prima di bere il primo bicchiere di vino intingono due dita nel bicchiere e le scuotono verso terra affinché alla « madre» siano restituite alcune gocce propiziatorie. Nel Gabon la più alta espressione del sacrificio consiste nel versare sul terreno vino di palma, idromele e birra di banana (5).

GLI ALTARI ALL’APERTO

Scrisse Grillo Korolevskij, alla voce Altare, nell’Enciclopedia Italiana Treccani, che « nelle età più antiche il culto non era reso nei templi, ma all’aperto, così anche gli altari erano costruiti, senza alcuna relazione a un tempio, qua e là, dovunque il divino si credeva presente: sulle alture, in mezzo ai boschi, alla sorgente dei fiumi, ecc., o anche in cavità sotterranee, quando erano destinati al culto di una divinità ctonia o di qualche personaggio defunto ».

Così i Greci e i Romani non avevano altari nei templi ma nei luoghi aperti, e, in origine, non li avevano che di rozze pietre o di zolle.

Taluni reputano che la stessa voce altare sia derivata da alta e ara che appunto significherebbero luogo rialzato, ma altri da altus, participio passato di alere, nutrire, indicando la mensa dedicata a ricevere il cibo offerto al nume, voce questa che ancor più ci avvicinerebbe alla funzione delle nostre coppelle.

Diego Sant’Ambrogio in una nota di commento nell’opera classica di divulgazione del Du Cleuziou (La creazione dell’uomo e i primi tempi dell’umanità) ricorda: « Di queste pietre con scodelle, o pietre cuppelliformi, parlò per primo Desor nel 1879, e ne furono rinvenute anche in Italia, al Piano delle Noci in Val d’Intelvi per cura del cav. Barelli, e presso Rivoli per opera del dotto Piolti.

Nell’una e nell’altra località le cavità scodelliformi si vedono su massi erratici, ma in vicinanza di Sion nel Vallese si scopersero cavità consimili anche sulla roccia in posto. Si consultino per maggiori notizie, la Rivista Archeologica della provincia di Como del settembre 1880 e gli Atti dell’Accademia di Torino, dell’anno 1883, vol. XVI. ».

COPPELLE E ASTRONOMIA

Da parte sua il Cartailhac (6) assicurò che nella Svizzera sin da allora ci si chiese per la prima volta se i gruppi di coppelle non volessero raffigurare qualche costellazione.

Ma anche nell’appendice al citato volume del Du Cleuziou, tra le “Ultime scoperte fatte nell’antropologia preistorica” vi è pure un’interessante lettera del principe russo Paolo Pontiatinn indirizzata a Camillo Flammarion verso la fine del 1884 e da questi pubblicata in Astronomia, rivista mensile di astronomia popolare, 1 febbraio 1885.

La lettera presenta « il facsimile d’un disegno astronomico fatto sopra un lisciato d’ardesia trovato a Bologoe»  e il Flammarion dichiarò che  « era forse un amuleto dei primi pastori », aggiungendo: « La rappresentazione dei sette astri del settentrione non è rara fra gli antichi. Visitando le solitudini di Bretagna nei dintorni di Guerande e del borgo di Batz, abbiamo osservato sugli scogli un gran numero di disegni fatti col mezzo di fori sulle rocce e fra di essi si riconoscono fra l’altre, la Grande Orsa e Cassiopea ».

E conclude:  «… non si saprebbe ringraziare abbastanza coloro che discoprono simili vestigia delle età scomparse e si danno cura di farle conoscere, affinché, con la pubblicazione, apportino il loro elemento al miglior progresso generale delle conoscenze umane ».

Ma per passare dallo scorso secolo ad oggi – sempre in tema di coppelle e astronomia – ecco quanto ci dicono Carlo Sebesta e Scipio Stenico in un loro ottimo studio (7):  « Per quanto riguarda una eventuale puntualizzazione sui fenomeni celesti si dovrà tener conto della possibilità di una puntualizzazione  celeste, in periodo preistorico, molto più raffinata di quella che non possa eseguire un comune uomo dei nostri giorni e per il quale le situazioni astronomiche non hanno un addentellato ideologico che lo sollecitino.

ASTRONOMIA E PREISTORIA

« Oltre all’avvicendarsi del giorno-notte, oltre alle fasi lunari, si presero certo in considerazione già in tempi molto remoti, i movimenti del cielo stellare e si stabilirono i rapporti sole-luna, sole-stelle raggruppati in costellazioni. L’osservazione celeste è stata evidentemente una delle prime specialità scientifiche con carattere di sacralità ed il lato magico di questa osservazione è confermato dal fatto che l’astronomia diviene precocemente scienza di casta sacerdotale. Certamente non si può generalizzare a tutte le coppellazioni un significato di trasposizione astronomica. Esiste però un gruppo di segnalazioni critiche con dimostrazioni di situazioni solari, solstiziali ed equinoziali molto evidenti; così dicasi per quanto riguarda il campo stellare e zodiacale di cui troviamo relitti di guida a ritroso su sigilli e ornamenti dell’Asia Minore, ancora sigilli e certa decorativa ceramica micenea . . .

« Annotiamo qui per il Trentino, in campo di figurazione stellare, una segnalazione del Calestani (8) su un gruppo di coppelle della Val di Sole in cui si ritenne di ravvisare la Cassiopea (purtroppo il masso è andato distrutto) e, per il confine Trentino – Alto Adige, la segnalazione del prof. Leonardi (9) che ci lasciò una precisa riproduzione figurativa nella quale abbiamo riconosciuto senza equivoco la costellazione dell’Orsa Minore annotata con tale precisione da poter riconoscere nel contesto della costellazione vari gradi di grandezza stellare e da poter presumere di arrivare ad intuire la stagione fissata dall’incisore astronomo. Purtroppo il testo di coppellazione è mutilo; la presenza però a Ovest dell’Orsa Minore di altre coppelle in particolare posizione-rapporto ci  fa sospettare un quadro comprendente anche l’orsa Maggiore. Qui, oltre all’interesse cronologico stagionale ci pare notevole la possibilità di una datazione di epoca di coppellazione che tragga supporto dai reperti archeologici del luogo ».

Per quel che di « astronomico» può riferirsi alla grande « pietra a coppelle» di Colognola ai Colli, lasceremo agli specialisti l’incarico anche perchè – sia la fotografia che il disegno ricavati – non possono avere che un carattere indicativo. A noi comunque rimane sempre il dovere di invitare quanti devono e possono farlo, a rimettere in luce il reperto poiché trattasi di una grande manifestazione d’art mobilier, fino ad oggi unica del suo genere in tutta la Lessinia.

INSEDIAMENTI E COPPELLAZIONI

Ma per riprendere il nostro – chiamiamolo pure così – excursus archeologico, una vera e propria relazione  cronologica tra insediamenti Preistorici e coppellazioni (in rocce o massi sulle sommità di colline in luoghi panoramici, in prati di alta montagna, in castellieri del Trentino) se la proposero – per primi nelle Venezie – il Sebesta e lo Stenico con l’opera citata, ma a conclusioni vere e proprie sembra che anch’essi – per il momento – non siano ancora giunti.

Sappiamo di una serie di coppelle scavate sulla superficie porfirica del Dos Zelòr in Val di Fiemme, scoperta nel 1949 dall’ illustre amico dott. Piero Leonardi il quale scrisse che l’ insediamento, sorse probabilmente alla fine dell’età del Bronzo sulla sommità del dosso, con le caratteristiche di un « castelliere ». Tale insediamento si estese poi, nell’età del Ferro, sui fianchi del colle e sui prati a settentrione, raggiungendo il massimo sviluppo, nei  primi secoli dell’ Impero romano (10).

Della fine dell’età del Bronzo sembrerebbe la coppella di uno dei massi del « Ciaslir » del monte Ozol nella Valle di Non (11) mentre sembrerebbero dell’età del Ferro le coppelle di un masso rinvenuto ai Montesei di Serso presso Pergine in Valsugana durante scavi condotti da Renato Perini, Alberto Broglio ed altri.  Il masso con coppelle era immerso in terriccio con carboni e resti di ceramica tipo Luco  (12).

Del Bronzo-Ferro sembrerebbero pure molte manifestazioni coppelliformi della Valcamonica.

Il Süss  (13) ricorda, a questo proposito, che nei pressi delle Terme di Boario, fissate su una rossa arenaria nota con il nome di « pietra simona », sono state scoperte, nel 1955, molte figurazioni e   su varie rocce è impressionante il numero delle coppelle,  a decine, di tutte le forme e di tutte le dimensioni: la posizione delle rocce e la presenza di tante coppelle ci dice della loro destinazione a luogo sacro, luogo di sacrifici o per lo meno di offerte votive sotto forma di piccole quantità di olio o di frumento o di sangue degli animali immolati in onore delle divinità del posto. Ciò premesso non ci meraviglia trovare sul « Crap di Boario » diverse iscrizioni a caratteri l’retici, almeno una decina, sempre parole o lettere isolate, o parole monche e piuttosto irregolari, come se mani diverse e non sempre abili avessero tracciato le varie scritte. Questa « roccia delle iscrizioni » è situata ad una cinquantina di metri a picco sulla nazionale tra Darfo e Boario.

Anche secondo il Siis, l’accostamento di iscrizioni in caratteri retici alle «coppelle» confermerebbe che i piccoli incavi tondi vanno proprio considerati come recipienti per le offerte alle divinità, comunque anche per la Valcamonicia la relazione cronologica tra insediamenti e coppellazioni non è stata ancora definita.

E così dobbiamo dire delle coppelle di San Vigilio e di altre località della Gardesana montebaldina scoperte dal prof. Mario Pasotti unitamente a infinite altre incisioni rupestri le quali, ormai da anni, attendono di essere valorizzate come meritano ed ulteriormente studiate.

SALVARE IL SALVABILE

Molto ancora dunque si deve ricercare e studiare prima di giungere alla risoluzione del nostro interrogativo fissando in modo particolare l’attenzione sui livelli ligure, celtico, retico, gallo-etrusco e gallo-romano.

Da qui la massima importanza di ricerche approfondite sui tre principali castellieri veronesi sorti a dominio della Via Postumia romana e preromana, situati in San Briccio di Lavagno, Colognola ai Colli,  Monteforte d’Alpone e risalenti tutti quanti meno alla tarda età del Bronzo.

Ma tutto questo se si vorranno salvare da ulteriori gravissime manomissioni poiché i danni peggiori, questi tre complessi archeologici debbono ancora subirli.

A San Briccio di Lavagno, sul colle basaltico che separa la valle di Mezzane, costruendo (1883-84) la fortificazione tutt’ora esistente, assieme ad altri resti archeologici e con scheletri umani  (Notizie degli Scavi – 1884), vennero pure  messi in luce due pezzi di corna di cervo segati e forati alla base con incise iscrizioni venetiche riconosciute da Carlo Cipolla e Stefano de Stefani.  Tali iscrizioni richiamarono alla mente quella incisa su una spada di bronzo rinvenuta nel 1672 a Cà dei Cavri presso Verona.  La spada apparteneva al Museo Moscardo e poi passò al conte Marco Miniscalchi (Segala G. Storia patria).  Sul colle si rinvennero pure vasi a bande orizzontali rosse e nere del terzo periodo e molti altri oggetti atestini.  (F. Zorzi – Preistoria veronese – Insediamenti e stirpi – Verona, 1960).

Ma fin dal 1846 San Briccio aveva già fatto parlare della sua preistoria allorchè venne alla luce « un singolare parallelepipedo di argilla mediocremente fina a spigoli rientranti, ornato in testa di una croce diagonale profondamente incisa, raccolto dall’ingegnere Antonio Mazzotto sulle falde del colle di San Briccio di Lavagno, non meno di tre metri sottoterra, fra grandi pezzi di corna cervine, ed un corno di capriolo» (14).  Il « singolare parallelepipedo » era forse un peso da telaio od una « piramidetta votiva ».

Quali legami possano avere questi rinvenimenti di San Briccio con il non lontano Castejon di Colognola è presto detto ricordando quanto ci (15) raccontò Angelo Tregnaghi del luogo e che nella primavera del 1967 aveva 74 anni.

« Sul Castejon – affermò il Tregnaghi – quando go impiantà le vigne e sarà quaranta ani, go fato un fosso soto el marognon (ad ovest del muro più grosso) verso la Mota (il tumulo (?) a nord del castelliere) e gavemo catà pignate rote e meso saco de corni de cervo con su de le scrite ». Richiesto come si presentassero tali “scrìte” ci spiegò che vi si vedevano incisi dei segni diritti e tra questi di quelli simili alle “K” ». Erano dunque scritte retiche o venetiche?

Nulla di assolutamente improbabile e da qui la necessità di scavi accurati poichè tratterebbesi di ex voto assai caratteristici ed oltremodo tipici delle popolazioni alpine insediatesi anche nella nostra regione prima del dominio romano.

« Tali iscrizioni – come dichiararono il Pellegrini e il Sebesta (16)- forniscono un materiale di estrema utilità per istituire confronti e parallelismi con altre stazioni preromane e soprattutto con Sanzeno in Val di Non e con Magrè presso Schio ».

« . . . Trattandosi con tutta probabilità di ex voto, dovremmo ipotizzare che contengano una formula di ringraziamento. Secondo tale supposizione, oltre ad un eventuale nome di divinità, e forse il nome dell’offerente, i corni potrebbero contenere l’equivalente di formule dedicatorie ben note in iscrizioni latine e presenti anche in una bilingue venetico-latina ».

« . . . Per gli ex voto ottenuti da palchi di cervo, il santuario perginese richiama da vicino la stipe di Magrè Vicentino e altri rinvenimenti occasionali; ad es. il corno iscritto di Tarces in Venosta, quelli di Sanzeno e di Meclo in Val di Non e di San Briccio di Lavagno (Verona) ».

« . . . Un’iscrizione in cui si legge chiaramente “arus’nas” ci offre inoltre notevoli garanzie di sicuri contatti tra il Trentino ed il Veronese, nel quadro delle popolazioni preromane, prevalentemente retiche, etruscoidi, e poi galliche, ma comunque gallo-venete ».

Fondamentali in proposito gli studi di Giulia Fogolari su “Sanzeno nell’ Anaunia, di Giuseppe Pellegrini per Magrè, e di K.M. Mayr su San Briccio di Lavagno.

DALL’ EPOCA ROMANA AL MEDIOEVO

Per quel che riguarda il Castejon durante il periodo romano vero e proprio non va dimenticato che in tutta la zona del comune di Colognola ai Colli si rinvennero monete e ruderi di quel periodo (17),  statuette di bronzo, tombe ed avanzi di acquedotti in piombo e cotto.

È noto agli archeologi ed agli storici (18) che per Colognola ai Colli passava una variante alla  Via Postumia che proseguiva poi per le frazioni Pescaria, Fontana del Castejon e ridiscendeva ad Orgnano, San Vittore e Soave, da cui al Castelliere del Monte Zoppega e continuava quindi verso Montebello ed il territorio vicentino.

Alcuni reperti archeologici parlano chiaramente di un adattamento del Castejon a fortilizio romano e le tradizioni orali accennano ad una “città”  romana sepolta nel Castejon, a segnalazioni con fuochi e fumate tra il Castejon ed i colli di Soave.

Il Castejon ebbe importanza e rimaneggiamenti anche nel Medioevo e infatti, nella Cronica di Verona dello Zagata (pag. 31, Parte Prima) è scritto che nel 1236 « el Castegion da Colognola fò dato al Conte Rizzardo (di Sambonifacio) per Filippo fiolo de Bonaìgo ». Lo Zagàta  precisa altresì in nota: « Cioè un Forte, che serviva come vanguardia al Castello; Ritiene ancora quel Monte sopra del quale era edificato; ed ora (1745) è posseduto dalla Famiglia Felisi ».

Come si combattesse in periodo medioevale attorno ai « castellieri » riadattati viene raccontato dallo storico Sismondo de’ Sismondi  (Vallardi, Milano, 1860) nella sua Storia della Libertà in Italia:  «… Il più delle volte in tutto il corso d’una guerra non si veniva a battaglia campale, e talvolta non si badaluccava nemmeno: in tal caso tutta la guerra consisteva in una o più cavalcate, chè così chiamavansi le scorrerie ne’paesi nemici.  L’esercito nemico innoltravasi con intenzione di bruciare le case, distruggere le messi, di rubare le mandre; tutti gli abitanti fuggivano al suo appressarsi, e riparavano entro le terre murate. Siccome gli aggressori non potevano trattenersi per assediarle, proseguivano il cammino guastando tutto quello in cui s’abbattevano. Intanto il condottiero cui era affidata la difesa del territorio, provvedeva i castelli di truppe, teneva dietro ai nemici, spiava l’opportunità di sorprenderli, s’avventava contro i predatori sbandati, li forzava a non allontanarsi dal campo ed in pochi giorni obbligava quasi sempre l’aggressore a dare addietro ed a uscire dal territorio per mancanza di vittovaglie . . . non potevasi occupare una valle della lunghezza di sei miglia se non dopo aver superato otto o dieci castella con altrettanti assedj . . . Se il nemico non trovava viveri nel paese in cui guerreggiava, non poteva némeno trarne dal proprio, perchè tutto lo spazio che si lasciava addietro, non essendo sottomesso, gli si potevano togliere ad ogni passo i suoi convogli. Noi siamo usi talmente a tener conto della forza terribile e distruttrice del cannone, che non sappiamo concepire come si potesse sfidare il nemico colla sola difesa d’un muro. . . ».

IL CASTELLIERE DELLO ZOPPEGA

Ho precedentemente accennato al castelliere di San Briccio, più diffusamente al Castejon di Colognola ai Colli e non posso esimermi da un cenno sul castelliere del Monte Zoppega che si eleva ad est di Monteforte d’Alpone poichè anche questo complesso archeologico è ormai seriamente minacciato.

Fu nell’estate del 1953 (19) che mi interessai della zona Monteforte-Castelcerino, sempre per incarico del prof. Francesco Zorzi, e infatti a quell’anno risalgono i miei primi rinvenimenti di materiale archeologico sul colle Sant’Antonio, sullo Zoppega e sul castelliere che si eleva presso l’abitato di Castelcerino.

Ma è la scoperta dello Zoppega che diede al Museo di Storia Naturale di Verona una ricca messe di materiale protostorico e preistorico ancora quasi del tutto inedito, materiale che – come quello del Castejon – documenta la presenza dell’ uomo sul posto dal tardo Bronzo all’età del Ferro  (20).

Anche qui mura di massi basaltici, anche qui frammenti di ceramiche che subito attrassero l’attenzione per varietà e molteplicità di forme, di dimensioni, di decorazioni, di impasti, di tipologia. Anche qui frammenti di colatoi, anse a cilindro, decorazioni a rotellina forse del tardo Bronzo; frammenti di vasi decorati a stampiglie con righe e cerchietti forse del primo periodo Atestino (sec. 9° e 8° a.C.); anse cornute, decorazioni a denti di lupo spesso riempiti di materia bianca forse del secondo periodo dell’età del Ferro (sec. 7° e 6° a.C.); frammenti di vasi a zone rosse e nere e giochi di cordoni plastici probabilmente del terzo periodo (sec. 5° e 4° a.C.); anche qui frammenti di scodelle grigie, senza patina, ne colore, ne ornamenti, di aspetto tipicamente gallico e cioè del 40 periodo (sec. 3° e 2° a.C.); anche qui frammenti di pietra ollare che si richiamano palesemente al periodo dell’impero romano.

Anche qui però è imminente il pericolo per il complesso archeologico di primaria importanza, minacciato dal dilagare delle aree fabbricabili, per cui già è stato fatto un invito alle autorità tutorie da parte dell’Archeoclub di Verona per la salvaguardia anche del Castelliere dello Zoppega (21).

VALORIZZARE IL CASTEJON E I « CASTELLIERI DELLA POSTUMIA»

Ma per tornare al nostro Castejon, perchè non adibirlo a grande parco abbinandolo alla valorizzazione del sottostante complesso romano delle Terme di Caldiero (22)?  In luogo adatto e in modo che non ferisca il paesaggio (come progettati « casoni » vorrebbero), si potrebbe costruirvi un museo che raccogliesse il moltissimo materiale archeologico proveniente anche da San Briccio e dallo Zoppega attualmente un po’ dovunque disperso ed avente un carattere strettamente unitario.

Ed ora mi sia permesso concludere con alcuni passi di un preciso intervento di Romolo Staccioli, segretario generale dell’Archeoclub d’Italia su una nuova dimensione dell’impegno scientifico: « I parchi archeologici » (23).

« La salvaguardia dei monumenti e dei complessi monumentali del passato e la tutela dell’ambiente in cui essi si trovano inseriti sono tra le esigenze più sentite dell’archeologia contemporanea; forse, tra le sue stesse ragioni d’essere. Certamente esse costituiscono una nuova « dimensione» dell’archeologia, la dimensione « conservativa », che si è posta accanto a quella « conoscitiva », ovviamente fondamentale e pur sempre primaria, volta al recupero e allo studio delle testimonianze materiali del passato per la ricostruzione storica delle civiltà cui quelle appartengono.

« Ma questa dimensione conservati va dell’odierna archeologia – che si inserisce a pieno diritto in quel « discorso ecologico» che sembra ormai contraddistinguere il nostro tempo – si caratterizza non tanto come una funzione statica di conservazione passiva, nel senso cioè della salvaguardia delle « cose »  dal deperimento, dalla dispersione e dalla distruzione, quanto come una funzione dinamica di difesa attiva, ossia di valorizzazione, nel senso cioè di un inserimento delle « cose» stesse nel complesso dei beni culturali dei quali sia reso godibile, sotto ogni aspetto, il « valore ».  Il che, in altre parole, equivale ad inserire il passato nell’esperienza culturale e nel patrimonio civile della società attuale.

«Questa concezione attiva e dinamica della conservazione dei monumenti del passato significa, per conseguenza, sul piano pratico, che a una fase, pur necessaria, di constatazione, di deplorazione e di denuncia del progressivo depauperamento del patrimonio archeologico, deve subentrare una fase indispensabile di proposizioni e di azioni costruttive che quel patrimonio possano concretamente salvare. Ebbene, proprio nell’ambito di questa seconda fase, e pur nella perdurante situazione di incertezza, o meglio di inerzia legislativa nel campo dei beni culturali, si è andata facendo strada l’idea delle “ riserve archeologiche”. Ossia di complessi territoriali caratterizzati dalla consistente presenza di monumenti antichi, di avanzi archeologici, di campi di scavo, organizzati in modo da garantire la conservazione, lo studio e il godimento di quello che è stato già scoperto e la preservazione, nel suo insieme, del sottosuolo ai fini di una progressiva e sistematica esplorazione scientifica.

«Tali  “ riserve” ,  poi, in analogia con i grandi parchi nazionali di interesse naturalistico, si è preso a denominare “parchi archeologici”.   Con un significato che trascende i limiti dell’archeologia pura e semplice, cioè di un patrimonio archeologico comunque preso a se stante, e che questo patrimonio considera invece come parte integrante di una più vasta realtà “paesistica” stratificatasi fino a noi attraverso i tempi e quindi intesa nel senso più completo di “ paesaggio storico”. Donde la denominazione più significativa di “parchi archeologici-paesistici”.

«Si è giunti perciò a valutare tale realtà come documento storico nel suo insieme, che si vuole salvare come tale, cioè come risultato di una fusione perfetta di archeologia e paesaggio, che è quanto dire dell’opera della natura e dell’uomo, bloccandolo con un ultimo intervento, oculato, meditato e studiato in ogni particolare, non soltanto nel senso della conservazione ma anche in quello della valorizzazione e del pubblico godimento, estetico e culturale. . .»

«Tutto ciò, mentre più incombente si fa la minaccia dell’aggressione indiscriminata da parte di iniziative, pubbliche e private, dell’espansione edilizia e industriale; mentre dall’estero si continua, e non a torto, ad accusare l’Italia di “suicidio culturale” e si arriva a proporre che il patrimonio archeologico italiano in quanto patrimonio appartenente all’intera comunità umana, presente e futura, venga sottratto alla  “sovranità” dell’Italia e posto sotto la tutela delle Nazioni Unite o, comunque, di qualche organismo internazionale».

NOTE

I) Cartailhac E. – La Fmnce prehistorique – Paris, 1903.

2) Non mancano segnalazioni dai Paesi baltici, dall’Asia, dagli Stati Uniti e dall’America meridionale. In Italia, il maggior numero di massi con coppellazioni venne segnalato in Lombardia sin dallo scorso secolo.

3) Lilliu G. – La civiltà dei Sardi – Torino, 1967.

4) Cartailhac E. – op. cit.

5) Walcher – Plantes aromatiques offertes par les Gabonais aux Miìnes – ‘Revue de Bot~nique appliquee et Agricolture tropicale – febbr. 1934.

6) Cartailhac E. – op. cit.

7) Sebesta C. – Stenico S. – Introduzione ad un catasto della coppellazione e segnatura

nel Trentino. – Studi trentini di scienze storiche. Trento, 1967.

8) Calestani V. – Masso preistorico a coppelle rinvenuto in Val di Sole – Studi trentini

di Scienze Storiche – Trento, 1933.

9) Leonardi P. – Vorgeschichtliche Felszeichnungen im Etschtal bei Castelfeder. «Der

Schlern)) – 1954.

l0) Leonardi P. – Risultati delle campagne di scavo in alcune stazioni dell’età del Ferro dell’Alto Adige e del Trentina. – In « Atti del I° Congresso internazionale di preistoria e protostoria mediterranea» – Firenze, 1950.

Di altre coppelle ancora ci parla Piero Leonardi su “Nuovi contributi alla paletnologia delta Val di Fiemme” (Studi Trentini di Scienze Storiche, 1958 n. 1-2): « Un masso porfirico con due coppelle, gentilmente segnalatomi dall’Ing. Innerebner, esiste sul ripiano del  « Corozzo»  sopra Cavalese poco lungi dal Belvedere detto « Pagoda».  Altre coppelle individuai l’anno scorso poco lungi da Cavalese sui porfidi violetti affioranti a Est e Sud-Est della Parrocchia tra la linea ferroviaria e i Masi Lusanna e Ischie.  Particolarmente interessante è una larga lastra di marne werfeniane con coppelle visibile sul fianco destro della Valle di Stava alle falde del M. Cucal, lungo il sentiero che dall’abitato di Stava conduce al Maso Zanon. Su questa lastra si distinguono una trentina di coppelle nove delle quali associate costituiscono un cerchio centrato.  Ricorderò infine una coppella esistente su un affioramento porfirico in un ripiano del fianco sinistro della Valle di fronte a Ziano, lungo una mulattiera che sale al Dos Castelir.  È opportuno rilevare l’interesse che presenta questo ultimo nome, benchè finora non sia riuscito a individuare sul dosso o nelle sue  vicinanze alcun indizio sicuro di insediamenti preistorici.  Va rilevato anche che in vicinanza della coppella surricordata, sullo stesso ripiano (dove fra l’altro un masso porfirico colpisce per la sua conformazione e posizione che ricorda quella di qualche altare preistorico o protostorico)  son ben visibili varie iscrizioni e date incise su superfici porfiriche in epoca assai recente ».

11 ) Perini R. – Ciaslir del Monte Ozol – « Studi Trentini di Scienze Naturali» _ Trento, 1970.

12) Perini R. – Tipologia  dello ceramica Luco (Laughe) ai Montesei di Serso – « Studi Trentini di Scienze Naturali ». – Trento, 1965.  Anche per il Castejòn di Colognola ai Colli le ricche decorazioni di taluni vasi farebbero ulteriormente azzardare l’ipotesi di una funzione anche rituale del « castelliere ».

13) Süs E. – Le incisioni rupestri della Valcamonica – Milano, 1963.

14) Martinati P.P. – Storia della Paleoetnologia veronese – Acc. Agr. Arti e Comm. di Verona – 1876.

15) Furono con chi scrive, dai 5 marzo al 27 giugno 1967, a più riprese, i soci del Centro studi e ricerche di Verona: Giambenito e Liliana Castagna, Renzo Castellani, Renata Cimorelli, Giancarlo Gresola, Giuseppe De Candia, Giorgio, Anna, Massimo e Stefano Fiorentini, Rosanna Franzini, Raffaele Marogna, Paolo Mosconi, Ennio Peretti, Alberto, Olga, Paolo e Maurizio Solinas, Angelo e Rita Tomelleri, Angela Zanon, Daniela e Roberto Zecchini. Allorchè consegnammo il molto materiale ricuperato in superficie al paletnologo Franco Mezzena del Museo di Storia Naturale di Verona, egli ci mostrò gentilmente alcuni frammenti di oggetti in bronzo e in argento di fattura gallo-romana (?), donati da don Domenico Carcereri nel dicembre 1881. Don Carcereri morì il 6 marzo 1930 ed a Colognola a Colli ci dissero che tali oggetti vennero alla luce allorchè si fecero le fondamenta del rustico chiamato appunto Carcereri a sud di quota 172 del Castejon. Con gli oggetti si videro molti cocci, ceneri e frammenti di ossa combuste. Tra le altre tradizioni raccolte dal Tregnaghi quella di un cunicolo che univa la cima del Castejon con il sottostante abitato di Orgnano « dove gh’era le done e que de’l Castejon i ghe andava parchè lì i fasea le orge (sic!) e da queste è vegnù el nome de Orgnàn. . . Sul Castejon gh’è le pigna te coi marenghi de oro, ma quando se le càta, se no se gà la corona de’l rosario in scarsèla, i schèi i se sfànta come la nebia».  Curioso notare come tale leggenda sia simile a quella raccolta sul Doss Trento da Giacomo Roberti nel 1925: « Narrasi che una ragazzina di Piè di Castello, la quale s’era recata sul Doss Trento a pascolare il gregge, sorpresa dalla notte, abbia pernottato sull’altura, all’aperto. Quando la mattina si svegliò, vide presso di sè un mucchio di carboni lucenti; se ne riempi il grembiule e corse a portarli a casa. La madre tutta contenta nascose i carboni dietro al focolare e ordinò alla figlia di risalire l’erta scosesa del colle a raccoglierne degli altri. Ma, per quanto frugasse, ogni indagine rimase infruttuosa. Frattanto la madre, la quale con stupore aveva constatato che i carboni  s’erano mutati in argento, si portò anch’essa sul dosso e colla figlia si diede alla ricerca del tesoro senza però trovarvi più nulla, se non una medaglietta che la figlia aveva perduto. Il tesoro era ormai introvabile perchè l’incanto era rotto. Quando ancora i carboni torneranno a risplendere, essi potranno essere raccolti da chi vi avrà gettato sopra qualche oggetto sacro».

16) Pellegrini G.B. – Sebesta C. – Nuove iscrizionipreromane a Serso (Pèrgine) – Studi Trentini di Scienze Naturali – Trento, 1964.

17) Sartori G. – Colognola ai Colli – Verona, 1959

18) Solinas G. . Storia di Verona – Verona, 1961-64.

19) Dall’Agnola L. – Monteforte d’Alpone – Verona 1959.

20) La cosi detta « età dei castellieri » ebbe appunto a svilupparsi dalla tarda età del Bronzo all’età del Ferro e cioè dalla preistoria alla protostoria. La ceramica, in questo volger di secoli, abbandona le forme arcaiche dell’età del Bronzo terminale per passare a quelle molto varie dell’età del Ferro le quali denotano influssi non indifferenti di altre civiltà come quella di Hallstatt e quella veneta di Este. Ciò vale anche per il complesso archeologico del non lontano Montebello vicentino come dimostrarono il compianto padre Aurelio Menin e il chiarissimo prof. Ferrante Rittatore Vonwiller nella pubblicazione su “La Valle del chiamo” edita dal Collegio Missionario di Chiampo (Vicenza) nell’agosto del 1972 e alle quali conclusioni si è rifatto anche chi scrive.

21) Il monte Zoppega è famoso fin dallo scorso secolo anche perchè vi si rinvennero alcune brecce ossifere non ancora del tutto sfruttate con resti di animali di età Riss-Wurmiana. Ne scrissero lo Scortegagna (1844), il Menegazzi (1847), il Molon (1875) ed Angelo Pasa il quale qui scopri nuove brecce nel 1932. Dello Zoppega sono, tra il resto, i materiali riferentisi al leone delle caverne, all’ippopotamo ed al rinoceronte, abbastanza comuni anche in Italia nel periodo Musteriano.  (A. Pasa – I mammiferi di alcune antiche brecce veronesi. Mem. Museo di St. Nat. di Verona. Vol. 1°, 1947-48).

22) Una decina d’anni fa, sul monte La Rocca di Caldiero, con alcuni soci del C.S.R. di Verona rinvenni cocci ed altro materiale risalenti all’età del ferro ed all’epoca romana, consegnati al Museo di Verona. Il monte La Rocca domina le sottostanti terme che non risalgono dunque al periodo medioevalc come taluno vorrebbe asserire. Bisogna infatti tener presente altresì che non lontano dalle terme si sviluppava la torbiera di Loffia od Offia di Sotto della quale così parlò il Martinati (1874):  « È dessa un bacino di perimetro irregolare, che giace al di là di Caldiero sulla destra della ferrovia nel comune di Colognola, del quale qualche anno fa furono portati al cav. De Stefanì cocci di vasi, schegge di selce, parte di un lisciatoio di arenaria, ed altri segni di una stazione preistorica, ch’egli seguendo il suo costume, regalò al nostro museo. Il prof. Pellegrini che lo visito’ nel marzo 1876 ne riportò un’ accetta di bronzo (paalstab) molto alterata fino alla metà da un singolare processo di ossidazione, ossa e denti di bue, di majale, di cervo e di pecora, pezzi di corna di cervo e di capriolo, pochi cocci, stiappe di grossi pali e cimelii manifestamente romani, ivi pure scavati. Vi tornammo insieme poco dopo, e ci vennero alle mani altri esemplari consimili, ed una perfetta sega di selce grigia che fu poi seguita da altre non meno belle. Notammo la presenza di parecchi pali profondamente piantati, e di travi orizzontali o con forte inclinazione giacenti, e le notizie che ci furono date sul luogo di altri legni eguali trasportati altrove o sepolti ancora nella torba, ci fece argomentare che ivi sorgesse una grande abitazione palustre, e forse un gruppo di più che una».  Così il Martinati nella sua Storia della paleoetnologia Veronese, ma anche chi scrive ebbe a recuperare, da Offia di Sotto, un cranio di Canis familiaris, altre ossa, selci lavorate e cocci che donò al Museo di storia naturale di Verona nel lontano 1933.  Inoltre sull’antichità delle terme in genere può esser utile la lettura dello studio di Luigi Pigorini sull’ ”Uso delle acque salutari nell’età del bronzo” pubblicato dall’Acc. dei Licei (vol. XVII, fasc. 11, 1908) e nel Bollettino di Paletnologia Italiana (XXXIV, pag. 69, 1908).

23) Staccioli R.A. – “I parchi archeologici” – Bollettino dell’Archeoclub d’Italia, nov.- dic. 1972.

Fonte:  srs di Alberto Solinas


Mar 22 2009

CASTEJON DI COLOGNOLA AI COLLI, L’ ALTARE SOTTO LA ROCCIA: INTRODUZIONE

Category: Verona archeologia e paleontologiagiorgio @ 09:39

 

Verona, 7 luglio 1973

Il giorno 3 aprile di quest’ anno, (1973) dovevo comunicare alle superiori autorità tutorie che Castel Sottosengia, il castelliere protostorico meglio conservato di tutta l’Italia, era stato completamente e irrimediabilmente distrutto presso Breonio *) per lasciar posto ad una cava di pietre.

Fortuna volle che Roberto e Daniela Zecchini – pochi giorni prima dello scempio – avessero accuratamente ripreso i resti monumentali sicché il cortometraggio, intitolato poi « C’erano una volta i castellieri… », è oggi un preziosissimo documentario ammonitore per quanti sta a cuore la salvaguardia di quel poco che ormai rimane, anche in provincia di Verona, a testimonianza delle civiltà trascorse.

Il 27 dello stesso mese (aprile) segnalavo all’ Archeoclub di Verona il grave pericolo di distruzione incombente sul Castelliere di Colognola ai Colli e domenica 29 un gruppo di soci, salito al Castejon, poteva constatare che già una muraglia del complesso era stata spianata per lasciar posto ad una larga strada; al centro di questa erano  visibili, in terreno archeologico, le tubazioni per condutture di notevoli capacità.

Al rientro dal sopralluogo mio figlio Alberto comunicava che – tra l’altro – aveva preso le foto di un “ liscione”  basaltico messo in luce dalla ruspa affermando che sulla roccia, deturpata dai cingoli ferrati, erano ancora ben visibili molte  “ coppelle”.  Tornato sul posto per constatare la veridicità delle affermazioni, la roccia basaltica era già scomparsa sotto un alto strato di massicciata.

Nell’attesa dello sviluppo della pellicola, il 2 maggio, comunicai la lottizzazione del Castelliere a Verona e a Padova: la Sovrintendenza incaricò immediatamente la dotto Alessandra Aspes conservatrice per la preistoria al Museo di Verona e l’assistente volontario e ispettore onorario alle antichità  Leone Fasani di compiere alcuni saggi di scavo effettuati dall’ 11 giugno a circa la fine dello stesso mese.

Mentre si attendeva l’esito degli scavi, mio figlio Alberto potè mostrare ai soci dell’ Archeoclub di Verona la diapositiva delle incisioni rupestri. Trattasi palesemente di una grande pietra a “ coppelle “- orientata verso levante – che, se non si provvederà in tempo, finirà sotto l’asfalto. Effettivamente dovrebbe essere proprio questa pietra il punto di partenza per ulteriori scavi e ricerche nell’ ampia zona archeologica che si vuoI destinare alla speculazione edilizia.

Non essendo stato invitato agli avvenuti saggi di scavo ho creduto opportuno presentare questa “memoria” affinché un domani non si possa dire che, chi scrive, dopo tanto affannarsi, ha dimenticato i suoi doveri di cittadino e di modesto dipendente dal Ministero della Pubblica istruzione.

Giovanni Solinas    Verona, 7 luglio 1973

*) Ricordo che al 10 Congresso Internazionale di Preistoria e Protostoria Mediterranea tenutosi nel 1950 il prof. Franco Zorzi concludeva una sua nota preliminare su Castel Sottosengia con le parole: « Con la campagna di scavo che mi propongo di effettuare nel prossimo mese di giugno valendomi anche dei contributi avuti dal C.N. delle Ricerche e dalla Soprintendenza di Padova, intendo portare a buon punto l’esplorazione del Castelliere, acquistare il poco terreno boschivo sul quale sorge, ricostruire completamente, dove è scientificamente possibile, almeno una capanna, recingere infine la zona archeologica ed affidarla ad un custode abitante nei pressi perchè non vada perduto un rarissimo cimelio dell’architettura protostorica in Italia».

Cosa altro aggiungere dopo ventitre anni?

Fonte: da srs di Giovanni Solinas,  da L’altare sotto l’asfalto

 


Mar 22 2009

Il segreto della felicita’

Category: Conoscenza variegiorgio @ 00:30

Scegli due cose che ti piace fare. 

Quella che ti piace meno, falla per lavoro;  l’altra per hobby.

Nessuno potrà darti ordini e non avrai l’assillo di guadagnarci. 

 

Fonte: Sabato


Mar 21 2009

PER QUELLI NATI INTORNO AGLI ANNI ’50

Category: Monade satira e rattatuje,Veja migiorgio @ 00:17

A ben pensarci, è difficile credere che siamo vissuti fino ad oggi!!

Da bambini, andavamo in macchina (quelli che avevano la fortuna di averla) senza cinture di sicurezza e senza air bag.

E viaggiare nel cassone posteriore di una pick-up, in un pomeriggio torrido, era un regalo speciale.

I flaconi dei medicinali non avevano delle chiusure particolari.

Ci dissetavamo con l’acqua dalla canna del giardino, non da una bottiglia. Che orrore!!

Andavamo in bicicletta senza usare un casco.

Passavamo dei pomeriggi a costruirei i nostri “carri giocattolo”.

Ci lanciavamo dalle discese e dimenticavamo di non avere i freni fino a quando non ci sfracellavamo contro un albero o un marciapiede.

E dopo numerosi incidenti, imparavamo a risolvere il problema noi da soli!!!

Uscivamo da casa al mattino e giocavamo tutto il giorno; i nostri genitori non sapevano esattamente dove fossimo, nonostante ciò sapevano che non eravamo in pericolo.

Non esistevano i cellulari. Incredibile!!

Ci procuravamo delle abrasioni, ci rompevamo le ossa o i denti… e non c’erano mai denunce, erano soltanto incidenti: nessuno ne aveva la colpa.

Ti ricordi degli incidenti?

Avevamo delle liti, a volte dei lividi. E anche se ci facevano male e a volte piangevamo, passavano presto; la maggior parte delle volte senza che i nostri genitori lo sapessero mai.

Mangiavamo dei dolci, del pane con moltissimo burro e bevande piene di zucchero, ma nessuno di noi era obeso.

Ci dividevamo una Fanta con altri 4 amici, dalla stessa bottiglia, e nessuno mai morì a causa dei germi.

Non avevamo la Playstation, nè il Nintendo, ne dei videogiochi. Ne la TV via cavo, ne le videocassette, ne il PC, ne internet; avevamo semplicemente degli amici. Uscivamo da casa e li trovavamo.

Andavamo, in bici o a piedi, a casa loro, suonavamo al campanello, entravamo e parlavamo con loro.

Figurati: senza chiedere il permesso! Da soli! Nel mondo freddo e crudele! .

Senza controllo! Come siamo sopravissuti?!

Ci inventavamo dei giochi con dei bastoni e dei sassi. Giocavamo con dei vermi e altri animaletti e, malgrado le avvertenze dei genitori, nessuno tolse un occhio ad un altro con un ramo e i nostri stomaci non si riempirono di vermi.

Alcuni studenti non erano intelligenti come gli altri e dovevano rifare la seconda elementare. Che orrore!!!

Non si cambiavano i voti, per nessun motivo.

I peggiori problemi a scuola erano i ritardi o se qualcuno masticava una cicca in classe.

Le nostre iniziative erano nostre. E le conseguenze, pure.

Nessuno si nascondeva dietro a un altro. L’idea che i nostri genitori ci avrebbero difeso se trasgredivamo ad una legge non ci sfiorava. Loro erano sempre dalla parte della legge.

Se ti comportavi male i tuoi genitori ti mettevano in castigo o te le suonavano di santa ragione e nessuno li metteva in galera per questo.

Sapevamo che quando i genitori dicevano “NO”, significava proprio “NO”.

I giocatoli nuovi li ricevevamo per il compleanno e a Natale, non ogni volta che si andava al supermercato.

I nostri genitori ci facevano dei regali con amore, non per sensi di colpa.

E le nostre vite non sono state rovinate perche non ci diedero tutto ciò che volevamo.

Questa generazione ha prodotto molti inventori, amanti del rischio e ottimi risolutori di problemi.

Negli ultimi cinquant’anni c’è stata un’esplosione di innovazioni e nuove idee.

Avevamo libertà, insuccessi, successi e responsabilità e abbiamo imparato a gestirli.

Tu sei uno di loro. Complimenti!!!


Mar 20 2009

ALCE NERO

Category: Chiesa Cattolicagiorgio @ 22:22

 

Nella primavera del 1931 lo scrittore John G. Neihardt raccolse da Alce Nero un lunghissimo racconto, che trent’anni più tardi, nel 1960, pubblicò con il titolo di Alce Nero parla. Vita di uno stregone dei sioux Oglala. La narrazione di Alce Nero non riguardava solo le sue vicende personali, ma si intrecciava con la storia del suo popolo in guerra con i bianchi e con le sue visioni, che lo accompagnavano fin dall’età di nove anni. Come egli stesso affermava, non è la vicenda di un uomo che merita di essere raccontata, ma “è la storia di tutta la vita che è santa e buona da raccontare, e di noi bipedi che la condividiamo con i quadrupedi e gli alati dell’aria e tutte le cose verdi”.

Il libro divenne un caso editoriale, il caso dello sciamano indiano in lotta contro l’invasore bianco. In realtà Alce Nero non era affatto come era stato presentato. Al contrario, lo sciamano Lakota si era convertito ancor giovane alla fede cristiana e, al momento della lunga intervista di Neihardt, era diventato un catechista, un evangelizzatore a tempo pieno.

Un reale profilo di Alce Nero fu tratteggiato da Michael Steltenkamp (1989), che dimostrò come, al tempo dell’intervista con Neihardt, Alce Nero era da 25 anni un catechista Lakota, e lo sarebbe stato fino alla morte, nel 1950. Steltenkamp sostiene che Neihardt manipolò i testi originali per far passare la sua tesi sugli indiani “ribelli” al dominio dei bianchi.
Neihardt aveva nascosto che nel 1934 Alce Nero aveva sconfessato l’intervista concessa allo scrittore: “Ascoltate, dico parole vere. Un uomo bianco ha scritto un libro e ha raccontato quello che io avevo detto dei vecchi tempi, ma ha tralasciato i tempi nuovi. Perciò parlo nuovamente. Da trent’anni a questa parte sono un uomo diverso da quello che l’uomo bianco ha descritto. Io sono un cristiano. Sono stato battezzato trent’anni fa da un tonaca-nera chiamato Piccolo Padre. Trent’anni fa io ero un indiano tradizionale e avevo qualche conoscenza del Grande Spirito, Wakan Tanka. Ero orgoglioso, forse ero coraggioso, forse ero un buon indiano, ma adesso sono migliore. Anche San Paolo diventò migliore quando si convertì. Adesso so che la preghiera della Chiesa cattolica è migliore della preghiera della Danza degli Spiriti”.

Steltenkamp raccolse anche la testimonianza della figlia di Alce Nero, Lucy Looks Twice, che gli confermò che il padre: non parlava mai delle vecchie usanze. Era convinto che la sua grande visione, la Danza del Sole e tutte le cerimonia indiane, fossero connesse con il cristianesimo. Diceva che i Lakota erano come gli israeliti, come gli ebrei, che aspettavano Cristo.

 

Fonte: Wikipedia


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