Dic 26 2023

SEI DI PESCANTINA SE ….

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Dalle memorie di padre Leone de’ Minori nato a Pescantina prima dell’unità d’Italia:

<<< A proposito poi di una sua permanenza nella città di Bologna, il frate descrive il seguente fatterello: 

” Una volta nel nostro convento di S. Antonio, in via Guido Guinizelli n.3, m’incontrai con l’insigne pittore Giacomo conte Gianni, il quale , come seppe che ero di Pescantina, così scherzando disse, davanti a una corona di frati:

– Oh! il Padre Leone è dunque di Pescantina? Quei de Pescantina, soggiunse, sono tremendi:

Domandano una pipa di tabacco, poi danno un colpo di coltello e mettono le budella nelle mani…. il primo galantuomo di Pescantina ha fatto 25 anni di galera…. e il Padre Leoncino, se non avesse la grazia della vocazione, a quest’ora sarebbe in prigione….-. 

Ma il nobile uomo trovò in me un estremo difensore della sua patria, e gli dimostrai come i Pescantinati non sono un popolo di briganti o di asassini; ma un popolo evoluto, civile e degno dell’altezza dei tempi…. Tutti i presenti risero saporitamente ….. >>>>

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Fonte: Tratto da ” Pescantina tra ‘800 e ‘900 ” scritto da Giannantonio Conati ………


Apr 02 2022

IL FENOMENO DEL BRIGANTAGGIO NELLA LESSINIA DEL PASSATO

Category: Lessinia,Verona storia e dintornigiorgio @ 15:23

 

Con il termine  brigantaggio  si  è soliti definire una forma del banditismo  caratterizzata da azioni violente a scopo di rapina ed estorsione, mentre in altre circostanze esso assume risvolti insurrezionalisti   su fondo   politi sociale.

Sebbene il fenomeno abbia origini remote che si perdono nella notte dei tempi, e nei vari periodi storici e territori diversi, nella storiografia italiana, questo termine si riferisce generalmente alle bande armate che erano presenti nel Mezzogiorno d’Italia tra la fine del XVIII secolo e il primo decennio successivo alla proclamazione del Regno d’Italia.

L’attività del brigantaggio assunse connotati politici e anche religiosi solo all’inizio del XIX° secolo, con le sollevazioni sanfediste antifrancesi. Fu duramente repressa all’epoca del Regno di Napoli e durante l’occupazione napoleonica, borbonica e risorgimentale, allorquando, dopo essersi ulteriormente evoluta, si oppose alle truppe del neonato Stato Italiano.

In questa fase storica, sia all’interno che al di fuori di queste bande e mossi anche da motivazioni di natura sociale e politica, agivano gruppi di braccianti ed ex militari borbonici.

Con il termine brigante si descrive generalmente una persona la cui attività è al di fuori della legge (contra legem). Spesso venivano definiti briganti, in senso dispregiativo, i combattenti ed i rivoltosi in particolari situazioni sociali e politiche. L’origine della parola non è ancora chiara e diverse sono le ipotesi formulate.

Il brigantaggio sin dalla sua genesi aveva – ed ha tuttora – come causa di fondo la miseria. Oltre a mera forma di banditismo (soprattutto nel Medioevo), il fenomeno ha spesso assunto connotati di vera e propria rivolta popolare. In età moderna, furono coinvolti vari strati sociali, con connessioni e complicità tra signori e banditi, investendo indifferentemente zone urbane e rurali. 

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Apr 12 2021

DALLA LESSINIA FINO IN RUSSIA CON NAPOLEONE, COME UN BENEDETTI DIVENNE EL BERESINA.

Nella foto Giuseppe Benedetti, detto «Caporale» con le figlie Linda e Marietta 

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Francesco Benedetti, nato a Ceredo nel 1795, desideroso di vita avventurosa, ma anche per garantirsi, in quel periodo di ristrettezze, almeno due pasti al giorno, si unì nel 1812 alle truppe napoleoniche che dal Veneto marciavano verso la Russia.

Ben presto si trovò, nel novembre dello stesso anno, a combattere la battaglia della Beresina, che fu battaglia combattuta presso il fiume Beresina, affluente di destra del Dnepr, tra la Grande Armata di Napoleone e l’esercito dell’impero russo tra il 26 e il 29 novembre 1812, durante la campagna di Russia. Lo scontro ebbe un esito discusso: anche se le forze francesi riuscirono a forzare la linea russa, evitando così di finire intrappolate fra le tre armate che convergevano su di loro, la battaglia costò loro moltissime perdite, ed in ogni caso la ritirata dalla Russia non fu arrestata.

Infatti la battaglia della Beresina è contemplata dagli storici come uno dei peggiori disastri militari della storia contemporanea, benché dall’esito parzialmente favorevole. Essa infatti è stata eretta a simbolo della disfatta della campagna di Russia intrapresa dall’Impero francese nell’estate del 1812.

Per molti soldati il fiume Beresina diventa la tomba. Francesco, allora diciassettenne, si salva per miracolo fingendosi morto nel ventre di un mulo squarciato.

Ritornato, dopo diverse peripezie nelle sua Ceredo, anche se non sollecitato, continua a raccontar della sua avventura-disavventura, mettendo nel suo dire così spesso il fiume Beresina, tanto che finisce per diventare egli stesso «el Beresina», in seguito storpiato in Bresina, e Bresini.

A raccogliere i racconti del «Beresina» da tramandare oralmente ai posteri ci ha pensato il nipote Giuseppe Benedetti, nato nel 1854, detto «Il Caporale».

Nel tempo «Bresini» saranno chiamati, ancora oggi, i Benedetti suoi discendenti, originari da un unico ceppo, cognome presente sul territorio fin dalla metà del 1500.

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Fonte: da facebook,  Magica Lessinia

Link: https://www.facebook.com/Battocchio.Giorgio/posts/4517391971624085?notif_id=1618144641544409&notif_t=feedback_reaction_generic&ref=notif


Ago 16 2020

LA DISTRUZIONE DEI PONTI DI VERONA

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La storia la scrivono i bugiardi vincitori

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Questa asserzione è il pilastro su cui poggia la storiografia mondiale. Qualunque testo soggiace a questo comandamento. Qualunque storico che scrive, elabora  il proprio pensiero, seleziona fatti ed  eventi, arrivando a mentire anche a se stesso, pur di rispecchiare ed esaltare la propria personalità, carattere e dottrine.

A parte l’offesa contro la verità, questo modo di agire è anche una mancanza di rispetto perpetuo nei confronti dei lettori. Devo dire che purtroppo molti lettori  non cercano la verità, ma solo quello che  è conforme  al proprio “pensiero”,  pertanto a loro basta quel genere di storici.

Un bellissimo ed eclatante esempio di come si “scrive la  storia” lo abbiamo nella nostra bellissima Verona.

Nella seconda guerra mondiale, i ponti di Verona furono fatti saltare, con mine, la sera del 25 aprile 1945.

Moltissimi veronesi quella sera non videro cosa stava succedendo, erano per paura  chiusi in casa, ma i fragori e i tremori delle esplosioni li  sentirono, eccome li sentirono, e  a chilometri di distanza.

Beh! Cosa c’è d’eclatante in questa vicenda? 

La cosa clamorosa e che per decenni la storiografia ufficiale, riportò in tutte le pubblicazioni, che la distruzione  dei ponti avvenne la sera del 24 aprile 1945 e, solo dopo quasi 40 anni, qualche autore iniziò a riportare la data esatta della distruzione. 

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Apr 10 2020

VERONA. LE GALLERIE SOTTO LE TORRICELLE … LE MINIERE DI “TERRA GIALLA”

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Le miniere di “Terra gialla” delle Torricelle sono state tra le più importanti d’Europa. Sono cavità naturali riescavate in epoca romana per l’estrazione di ocre gialle e rosse, utilizzate come terre coloranti. 

La rete di condotti si sviluppa su circa 2 kmq ed è estesa per oltre 20 km con gallerie lunghe centinaia di metri e larghe appena 50cm, comunicanti con l’esterno attraverso una serie di pozzi artificiali profondi 5-30 metri. Il pozzo artificiale più profondo (-72 m) è all’interno dei terreni del “Santuario Nostra Signora di Lourdes”. 

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Mar 31 2020

QUANDO GLI ALBANESI SALVARONO VERONA DALL’INCENDIO

Category: Verona storia e arte,Verona storia e dintornigiorgio @ 00:08

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Nell’anno della terribile peste di Verona (1630) un gravissimo incendio scoppiato presso il Monte di Pietà rischiò di aggravare la situazione. Il 3 luglio bruciarono mobili e suppellettili per un valore di 189.800 ducati.


Tutti pensarono ad un’aggressione delle truppe tedesche. Ad impedire che l’incendio, dalla sede del Monte di Pietà, si propagasse alle case vicine intervenne una compagnia di albanesi.

Erano i cosiddetti Stradioti, unità militari di cavalleria della Repubblica di Venezia il cui nome deriva dal greco ‘stratiotis’, “soldato, guerriero”. Erano chiamati anche “cappelletti” a causa dei piccoli cappelli rossi che indossavano (identici a quello raffigurato nel cortile della Casa di Giulietta: Cappelletti, Dal Cappello, Capuleti).


A Verona, che era una delle maggiori aree di acquartieramento permanente in Terraferma, i mercenari trovavano alloggio all’interno dell’area fortificata, affittando case. 

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Nov 06 2019

“BISOGNEREBBE CREARE UN ITINERARIO NAPOLEONICO”. LA RISPOSTA DEI VENETI ALL’ARTICOLO APPARSO SU L’ARENA DEL 27 OTTOBRE 2019, PAGINA 41, A FIRMA DI CAMILLA MADINELLI

Cinquecento  paesani armati di tutte le età si radunano nella chiesa parrocchiale di Caprino Veronese, per salutare spose e figlioli e ricevervi la benedizione dall’Arciprete, Conte Giuseppe Giuliari, dopo aver cantato le litanie della Santa Vergine al suo altare. A mezzanotte, i valligiani intraprendono la marcia su Verona, alla vigilia dell’insurrezione delle Pasque Veronesi. “Appariva sul volto di tutti il desiderio di morir per la Patria e di esporsi a qual si fosse stato cimento”. 16 aprile 1797, Domenica di Pasqua. Tavola di Andrea Gatti. Proprietà del Comitato per la celebrazione delle Pasque Veronesi.

 

LETTERA DI RISPOSTA INVIATA A L’ARENA

(che non ha pubblicato)

 

Su L’Arena del 27 ottobre 2019  alcuni nostalgici bonapartisti, in nome delle ideologie ormai ammalorate del 1789, propongono un percorso napoleonico, fra Arcole e Rivoli, ricevendo man forte da alcuni amministratori locali o aspiranti tali, che si candideranno alle prossime elezioni in primavera e di cui sarà bene ricordarsi, onde NON votarli.

 

A costoro vorremmo ricordare che Bonaparte fu, sic et simpliciter, l’assassino della Patria Veneta e che, dunque, apparirebbe bizzarra, oltre che inconcepibile, l’impresa di far digerire alle popolazioni, vessate a tutt’oggi dalle predazioni della mala unità e che rimpiangono giustamente le glorie della più longeva Repubblica della storia come dell’Impero asburgico, la ricostruzione a Rivoli di un monumento al tiranno còrso. Cosa che ben poco avrebbe a che fare col turismo e con la conoscenza della storia; molto, invece, col servaggio ideologico agl’invasori liberal-massoni transalpini del 1796-7 e ai loro attuali eredi.

 

Agli amministratori presenti e futuri di Rivoli, che si accodano corrivamente al “liberatore” Bonaparte, andrebbero ricordate le efferatezze, i saccheggi e i delitti di cui si rese responsabile l’esercito rivoluzionario francese nei loro luoghi, tanto che, al tempo della battaglia di Rivoli (14-15 gennaio 1797) i montanari della Val d’Adige facevano rotolare massi dalle montagne sui transalpini, onde schiacciarli e favorire l’armata austriaca, i cui piani erano stati carpiti prima dalle spie di Napoleone, cosa che ne spiega anche i facili successi.

 

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Ago 22 2019

8 SETTEMBRE 1943. FUGA DALLE CASERMETTE (CASERMA DUCA) DI MONTORIO VERONESE

Casermette di Montorio

 

 

Carissimi,
come saprete da molti anni mi occupo della ricerca dei parenti di caduti in guerra, deceduti in prigionia e sepolti nei Cimiteri Militari Italiani d’Onore in Germania, Austria e Polonia.
Dalla pubblicazione del mio blog (
Dimenticati di Stato) ricevo decine di richieste di ricerca, che cerco sempre di esaudire nel minor tempo possibile.


Qualche giorno fa’ mi e’ arrivata una mail un po’ particolare.

Mi scrive da Codogno (Lodi), il figlio di un ottantaseienne chiedendomi di aiutarlo in una ricerca per conto del padre.
Il Signor Monai Faustino, classe 1924, si trovava alle Casermette di Montorio (ora Caserma Duca) l’8 settembre 1943, giorno in cui fu annunciato l’armistizio e migliaia di militari italiani finirono in ostaggio dei tedeschi. La caserma fu completamente circondata dai soldati della Wermacht e gli occupanti fatti prigionieri per essere deportati in Germania.
Per sua fortuna il signor Monai, e alcuni altri con lui, riuscì a fuggire passando dalle fognature, che, secondo il suo racconto, sbucavano nei pressi di una corte in aperta campagna. Fu accolto, rifocillato e gli vennero dati degli abiti civili, così poté raggiungere la ferrovia, prendere un treno e tornare a casa, evitando la deportazione in Germania.
Ora, dopo 67 anni dagli eventi, questo signore vorrebbe venire a Montorio per rivedere quella cascina e magari le persone che contribuirono a evitargli 20 mesi di internamento, salvandogli probabilmente la vita.
Per questo mi rivolgo a voi, auspicando che possiate pubblicare queste righe e la lettera inviatami dal signor Monai, nella speranza che qualcuno si ricordi di quei ragazzi, permettendo magari di poterli far incontrare.
Sono in contatto con il figlio del signor Monai, che intende venire a Montorio nel mese di aprile o maggio.
Vi terrò informati.
Il Monai parla di un tombino all’interno del cortile delle Casermette che fungeva da fognatura e che scaricava in aperta campagna. Quale poteva essere la corte dove si recarono i tre militari in fuga?

 

Spero di riuscire a trovare delle risposte da poter girare al signor Faustino.

Di seguito la lettera del signor Monai.

Roberto Zamboni

 

Breve storia della fuga dalle Casermette di Montorio Veronese, l’indomani dell’8 settembre 1943

 

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Mag 02 2019

“EL PIGNATON COI SCHEI DE ORO” (IL PENTOLONE CON LE MONETE D’ORO)

Monete d’oro

 

 

I RACCONTI DEI FILO’ NELLA LESSINIA DEL PASSATO 

 

Nel mondo contadino montanaro del passato la vita era estremamente dura e difficile e anche i nostri montanari lessinici dovevano “tribolare” non poco per riuscire a mantenere le proprie famiglie. La situazione economica della maggior parte dei contadini lessinici del passato era infatti spesso piuttosto misera e le loro attività lavorative, spesso poco remunerate, occupavano gran parte della giornata. Tuttavia quando non devono lavorare all’esterno, quando il tempo non lo consentiva o si era in piena stagione invernale ed il mondo circostante era avvolto da una spessa coltre di neve gli abitanti delle nostre contrade a sera più in stalla che in casa, perché la prima non doveva essere riscaldata col fuoco, si radunavano nelle stalle riscaldate dal calore animale. Nella stalla dunque si svolgeva non solo l’attività lavorativa di accudire il bestiame, ma si praticavano anche varie attività artigianali e domestiche ma si svolgeva soprattutto un evento sociale che veniva denominato “il filò”. 

 

Il filò, il cui termine sarebbe fatto derivare dall’attività della filatura della lana che le donne erano solite praticare nel corso di tali occasioni di raduno, costituiva un momento socialmente coinvolgente e culturalmente stimolante; vi confluiscono tutti gli abitanti di una contrada e di quelle vicine. Iniziava solitamente verso le 20 con la recita del Rosario, ma nei giorni lavorativi non si rimaneva inoperosi. Le donne filano la lana, cucivano e rammendavano gli indumenti domestici, sferruzzano; gli uomini invece realizzavano ceste o gerle in paglia o vimini, impagliano le sedie, “scartossano la polenta” (levavano il cartoccio alle pannocchie del mais), costruivano o riparavano attrezzi, ecc. Non si rimaneva mai con le mani in mano e completamente inoperosi, poiché in un mondo dove il mantenimento dipendeva esclusivamente dal proprio lavoro l’inoperosità significava non produrre e quindi non mangiare.

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Mag 01 2019

25 APRILE 1945: SCOPPIO DEL FORTE DI CORRUBBIO

 

Sulla destra si vede l’entrata di Villa De Stefani, in fondo al centro la chiesa di San Martino scoperchiata e sulla sinistra i resti di Villa Banda: sopravvive solo la torre colombara circolare e ruderi del muro di cinta.

 

A Corrubbio di Negarine, sotto la collina di Sausto, fin dai tempi antichi furono scavate diverse cave in galleria per estrarre roccia calcarea a nummoliti, la cosiddetta “pietra gallina”, di color giallastro, molto utilizzata ai tempi come materiale da costruzione. Una di queste, abbandonata dal primo dopoguerra, venne utilizzata dall’Esercito Italiano, a partire dal 1938, per lo stoccaggio di armi chimiche e come deposito di carburante. Venne chiamata “Forte Cedrare”, dall’omonima villa ubicata poco più a sud, così chiamata per la presenza di tre grandi cedraie settecentesche, oggi non più visibili.

 
Dopo l’8 settembre 1943 la polveriera venne occupata dai tedeschi, che in quei giorni si stanziarono in maniera massiccia in tutta la zona, utilizzando strutture come Villa Amistà, Villa Giona e Villa Betteloni come sede di comandi. Durante la loro presenza, i tedeschi riempirono il “Forte” con munizioni e materiale bellico di ogni tipo.

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Apr 27 2019

«IO, DISARMATO E NASCOSTO MENTRE SALTAVANO I PONTI DI VERONA»

I resti del  Ponte di Castelvecchio, 1945

 

 

«Il 25 aprile fu una delle giornate più tragiche e più felici della mia vita»: inizia così il racconto di Gianfranco De Bosio, regista e sceneggiatore veronese, classe 1924, che in quella primavera del 1945 era a Verona quale membro del terzo Comitato di liberazione nazionale (il primo si era sciolto dopo le prime retate dei nazifascisti, tutti i componenti del secondo erano poi finiti nei lager nazisti). Nel CLN veronese De Bosio era quale rappresentante della Democrazia Cristiana, «anche se non ne facevo parte, ma la regola voleva che ogni partito antifascista clandestino fosse rappresentato, così per la DC fui designato io». Ci volevano almeno tre partiti per formare un CLN riconosciuto, e tre furono in quello veronese, perché i socialisti non designarono mai il loro rappresentante. Così, oltre De Bosio, c’erano Vittorio Zorzi per il Partito d’Azione (dopo la guerra braccio destro di Adriano Olivetti, scoprirà Primo Levi scrittore) e Idelmo Mercandino per i comunisti (subentrato a Pietro Melloni, arrestato)

 

«Dalle sette di sera del 25 aprile i nazisti in ritirata fecero saltare i ponti», continua De Bosio. «Fu la peggior sconfitta della Resistenza veronese: non riuscimmo a impedirlo. I gruppi cittadini erano disarmati e dal Baldo non scese nessuno. Ricordo la polvere che pioveva dal cielo sul centro. Quel pomeriggio ero nascosto in un appartamento vicino agli Scalzi, reduce da tredici mesi di vita clandestina. Sentite le esplosioni uscii subito in strada, rimasi atterrito: fu un gesto inutile, di rappresaglia». Il commento di De Bosio risente ancora delle polemiche scoppiate nel primo dopoguerra, quando furono incolpati i partigiani per il mancato intervento, piuttosto che i nazifascisti per la devastazione (cariche esplosive enormemente più potenti del necessario, per far danno alla città, come fu) e per l’inganno (al vescovo Cardinale, che si era prestato come mediatore, fu assicurato che i ponti non sarebbero saltati, se i partigiani si fossero astenuti da attacchi. Invece*…). 

 

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Gen 05 2019

LESSINIA. QUANDO LE NEVICATE ERANO UN AFFARE SERIO PER I NOSTRI MONTARI DEL PASSATO

Category: Lessinia,Veneto e dintorni,Verona storia e dintornigiorgio @ 08:07

Velo Veronese – Eccezionale nevicata del febbraio 2014 – Fotografia fornita dalla sig.ra Dal Castello Nicoletta

 

 

” CUAN LE FIOCADE I’ERA N’AFAR SERIO PAR I NOSTRI MONTANARI DE N’OLTA”

 

Tanti anni fa la neve, anche sui nostri monti Lessini, era un “affare” serio e poteva durare per mesi e mesi, isolando i paesi e soprattutto le contrade (specialmente le più sperdute) dal resto del mondo. Non era affatto insolito che i nostri montanari di un tempo andassero la sera a letto con il cielo stellato, per poi svegliarsi al mattino sotto una spessa coltre di manto bianco.

 

Si capiva subito che c’era la neve dal silenzio ovattato e innaturale che avvolgeva l’ambiente circostante, poi arrivava il rumore delle “sbaìle” (badilate) che aprivano le vie per poter uscire.

 

In ogni casa, dietro la porta, che rigorosamente doveva aprirsi all’interno per evitare di rimanere intrappolati nell’abitazione, insieme alla “spassaora” (scopa) c’era sempre almeno una “baìla” (pala) in legno e quando la nevicata era stata veramente abbondante si era costretti ad uscire dalle finestre dei piani superiori perché la neve aveva coperto anche la porta d’entrata. Gli spazzaneve meccanici non esistevano di certo e quindi per aprire le vie di comunicazione con i paesi vicini e le contrade vi provvedevano gli uomini del paese che utilizzando il cosiddetto “ojo de gombio” (la fatica corporale), badilata dopo badilata, si facevano strada tra la spessa coltre bianca.

 

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Ott 22 2018

LO SQUADRISMO FASCISTA A VELO DURANTE IL VENTENNIO – L’EPISODIO DELLA LOCANDA BALLARINI –

 

Come si può notare in questa cartolina del 1940 dietro il monumento è visibile la locanda Ballarini, oggi trasformata in abitazione privata.

 

 

Lo squadrismo fu un fenomeno politico-sociale che coinvolse l’Italia a partire dal 1919 e che si manifestò nell’uso di “squadre d’azione”, di carattere paramilitare armate, che avevano lo scopo di intimidire e reprimere gli avversari politici, specialmente quelli appartenenti al movimento operaio. Lo squadrismo, in breve tempo, venne assorbito dal regime fascismo che lo impiego come un autoritario strumento della propria affermazione e per piegare le volontà degli avversari.

 

Le azioni squadriste – di norma caratterizzate da violenze contro persone e cose (e talvolta anche da caratteri di mera goliardia) – avevano lo scopo, secondo ciò che affermavano gli squadristi, di impedire l’attività reazionaria in Italia di una rivoluzione di ispirazione bolscevica e di rispondere alle crescenti rivendicazioni sociali degli operai e dei braccianti: gli squadristi cercarono di giustificare ideologicamente la loro attività presentandola come una risposta alle violente azioni e al clima di agitazione politica socialista e anarchica, che culminò con il biennio rosso (1919-1920), nonché come un’affermazione di quei valori nazionalisti che (secondo gli squadristi) erano stati vilipesi dal socialismo; tale giustificazione ideologica valse a nascondere, soprattutto agli occhi degli attivisti più giovani, il reale carattere di classe delle azioni squadriste, ammantandole di illusorie motivazioni morali. Lo squadrismo fascista fu protagonista di numerosi episodi di violenza in tutta Italia e spesso anche di brutali omicidi che, ben poco avevano di politico.

 

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Nov 22 2017

LUIGI BERTAGNA: L’ULTIMO «RAGAZZO DELLA FOLGORE» RACCONTA LE BATTAGLIE DI EL ALAMEIN

Foto d’epoca del caporale Maggiore dei paracadutisti Luigi Bertagna

Il tesserino militare di Luigi Bertagna all’età di vent’anni

 

 

STORIA. Il reduce veronese d’Africa era del famoso 5° Battaglione; oltre a lui un altro sopravvissuto risiede in Friuli. Luigi Bertagna, 88 anni: «Si combatteva anche contro mosche, pidocchi e dissenteria»

 

È un ragazzo di 88 anni: ragazzo, perché Luigi Bertagna – classe 1922 – conserva lo spirito del «folgorino» che combatté eroicamente a El Alamein, tra il luglio e il novembre del 1942.

Dal 1986 – dopo esser stato direttore del parco-giardino Sigurtà, a Valeggio – vive a Verona, ed è uno dei due «leoni della Folgore» (ma preferisce «ragazzi», come li chiamavano pure i tedeschi e gli inglesi) reduci ancora viventi del 5° Battaglione, 15ma Compagnia di quella divisione che – come ricordò Paolo Caccia Dominioni – fu all’epicentro del grande ciclone bellico, e il cui sacrificio è stato alto.

L’altro reduce vivente del 5° Battaglione è Pino di Giusto (vive a Pordenone, e il Comune gli ha conferito recentemente la cittadinanza onoraria); del 9° Battaglione, invece, è vivente soltanto il generale Marcello Berloffa.

 

Luigi Bertagna – una memoria eccezionale – ricorda commosso quegli anni, mostrandoci nel contempo una straordinaria documentazione che testimonia la vita di un ragazzo senza dubbio avventurosa. Soprattutto dal 1942 al 1945, fra prima linea prigionia e fughe dai campi concentramento.

 

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Mag 11 2017

CARLO CIPOLLA E LA TEORIA DELL’ORIGINE DEI “CIMBRI” VERONESEI

Carlo Cipolla

 

 

Alfred Sternberg

 

Carlo Cipolla è lo storico dei cimbri per antonomasia, soprattutto quelli veronesi. Lo troviamo citato da quasi tutti gli autori successivi. Il suo primo volume al riguardo “Le popolazioni dei 13 comuni veronesi” cambierà radicalmente tutte le teorie circa l’origine dei cimbri. Sarà il Cipolla infatti, a dichiarare che l’origine delle isole linguistiche di ceppo germanico presenti nel veneto, derivano dall’insediamento di coloni tedeschi avvenuto tra il X e il XII secolo debellando qualsiasi altra ipotesi.
Per questo motivo possiamo considerare il 1882, anno di stampa del primo volume, storiograficamente come l’anno zero per i cimbri, prima di questa data sarà “a.c.” poi “d.c.” intendendo c. come Cipolla naturalmente. Questo proprio perché pochissimi autori proveranno, successivamente, a contestare la sua tesi. Eppure, a ben vedere, non possiamo considerare così scontato quanto asserito dal Cipolla, proviamo ad approfondire insieme.
Carlo Cipolla nacque il 26 sett. 1854 a Verona da una famiglia nobile, frequentò l’università di Padova , nel 1881 pubblicò la sua opera più importante “Storia delle Signorie italiane dal 1313 al 1530″ grazie al quale vinse l’anno successivo, la cattedra universitaria di Storia Moderna, aveva 28 anni.
Pubblicò un numero incredibile di scritti, se guardiamo l’elenco O.P.A.C. ne troviamo 370 circa, 427 secondo Giuseppe Biadego, e a questi si devono aggiungere oltre 150 recensioni, uno al mese, nei suoi 40 anni di vita attiva, per avere un’idea più concisa. Ricevette due critiche da Benedetto Croce, un eccessivo moralismo cattolico e, ciò a cui intendiamo porre maggior attenzione, l’assenza di un “vivo e intimo interesse“. Se osserviamo bene infatti, quasi tutte le sue opere si presentarono sostanzialmente come un’esposizione di documenti storici intervallate da più o meno concise dissertazioni dell’autore.

 

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