Apr 30 2017

DON DOMENICO MERCANTE, IL PRETE FUCILATO DAI TEDESCHI IL 27 APRILE 1945 –

Don Domenico Mercante 

 

 

IL 27 APRILE 2017, 72° ANNIVERSARIO DALLA MORTE DI DON DOMENICO MERCANTE – GIAZZA (LJETZAN) –

 

 

RICOSTRUZIONE STORICA DEI FATTI

 

Nelle ultime giornate dell’aprile 1945, a Giazza nell’alta Valle d’Illasi, c’era, ad ogni ora, gente sulla piazza che osservava il passaggio di reparti tedeschi in fuga verso i valichi alpini. Con l’appoggio di massicce incursioni aeree che frantumavano sotto una valanga di ferro e di fuoco ogni resistenza le colonne corazzate americane e inglesi, superato il Po, dilagavano ora in Lombardia. È il momento del crollo definitivo del fronte tedesco, e chi può, fugge verso il Nord.
Il 27 aprile, di buon mattino, è in marcia verso Giazza una compagnia germanica di circa cento uomini formata, in prevalenza, di paracadutisti e carristi e da alcuni elementi delle SS. È bene armata e vuole raggiungere Passo Pertica per scendere ad Ala, in Val d’Adige.

 

Una formazione partigiana, nascosta nella zona, intende fermarla alle porte di Giazza e disarmarla. Avvertito che in questo modo un grave pericolo incombe sul paese, il parroco di Giazza, don Domenico Mercante, accompagnato da un brigadiere della milizia forestale, si fa incontro ai due gruppi, per convincere i partigiani a non provocare i tedeschi in ritirata e per invitare i tedeschi a non fare del male alla pacifica popolazione. In testa alla compagnia vi sono due ufficiali che ascoltano i due “parlamentari” senza tuttavia dare alcun peso alle loro spiegazioni. A conoscenza che nella zona operano partigiani, obbligano i due a mettersi in cammino davanti ai soldati per farsi scudo con loro contro un improvviso attacco nemico. In particolare tengono d’occhio don Mercante, ostaggio prezioso che può assicurare loro via libera.

 

All’altezza del cimitero di Giazza un comandante partigiano, Beniamino Nordera, balza sulla strada e ordina agli ufficiali di fermarsi e consegnare le armi, minacciando, in caso contrario, di far intervenire i compagni nascosti nel bosco. Per tutta risposta la raffica di un mitra lo stende a terra. Dalla foresta si risponde con una nutrita sparatoria che non fa vittime ma che allarma ancora di più gli ufficiali. Adesso ritengono che don Mercante sia un capo partigiano o un loro stretto collaboratore e perciò lo trattengono, promettendogli di lasciarlo andare appena saranno al sicuro oltre il Passo Pertica, nella Valle di Ronchi.
Mentre il brigadiere ed altri due ostaggi riescono a svignarsela durante una successiva sparatoria, don Mercante, tenuto continuamente sotto controllo e minacciato, è obbligato ad accompagnare i paracadutisti per ore ed ore giungendo con loro, sfinito, fino ad Ala: sono circa le cinque pomeridiane del 27 aprile 1945. La compagnia si ferma nel rione di San Martino, al bivio di Ceré, dove parte la strada per Pilcante.

 

Il capitano, ottenuta l’autorizzazione dal comando locale delle SS di fare quello che voleva con l’ostaggio, decide di fucilarlo lì, al bivio, sul cratere scavato da una delle tante bombe d’aereo cadute nei frequenti bombardamenti americani che dal novembre ’44 all’aprile del ’45 avevano martellato la stazione ferroviaria e i ponti di Ala.

 

Quando si forma il plotone d’esecuzione, un caporalmaggiore delle S.S. riceve l’ordine di farne parte; ma egli si rifiuta ed ha parole di difesa per il parroco don Mercante. “Qui si fucila un innocente, — afferma — questo è un assassinio!”. Il capitano gli chiede se parla così perché è un cattolico e, ricevuta risposta affermativa, gli ripete seccamente l’ordine. Il caporale rinnova il suo rifiuto. Un testimone presente lo sente dire: “Sì, sono cattolico, ho moglie e quattro figli, ma preferisco morire piuttosto che fucilare un sacerdote”.
Viene punito a norma della legge marziale di guerra che non tollera un atto di disubbidienza al comando di un ufficiale. Assiste alla fucilazione del parroco; poi è la sua volta: degradato, privato dei documenti personali, con le mani appoggiate dietro la nuca, ritto sul cumulo di terra sconvolta dalle bombe, lo si sente ancora ripetere: “ma ho quattro bambini”, quando la raffica del mitra lo abbatte nelle piccola fossa del cratere, accanto al corpo senza vita di don Domenico Mercante. Le due salme vengono abbandonate lì, sommariamente coperte da alcune patate di terra. In seguito, alcuni contadini, informati dell’accaduto, pongono dei sassi a forma di croce su quel tumulo. Il 3 maggio, dopo la partenza delle truppe germaniche da Ala, le due salme vengono esumate dalla pietà locale e trasportate nella cella mortuaria dell’Ospedale Civile.

 

Tomba di Don Domenico Mercante

 

 

Da Giazza arrivano un paio di uomini a prendere la salma del loro parroco e, portando a spalle la bara appesa ad un palo, ripercorrono faticosamente la strada per Val di Ronchi fino a Passo Pertica e poi fino alla chiesa del paese, accolti dai mesti rintocchi a morto delle campane e dalla costernazione e dal pianto di tutta la popolazione.
Il corpo dello sconosciuto soldato viene sepolto dapprima nel cimitero vecchio di Ala e poi nel nuovo, al cippo N. 5, ben distinto dalle tombe di altri otto caduti tedeschi. Il cappellano dell’Ospedale di Ala, fratello Stefano Girardi e il custode del cimitero, Giovanni Mabboni, dichiararono per iscritto di non aver trovato nelle tasche del soldato alcun documento di identità se non un rosario di grani neri, un astuccio di vetro con la fotografia di una donna e, sotto la camicia, una crocetta di legno e metallo bianco con catenina, oggetti che preferirono lasciare addosso al caduto. Fu seppellito con grande partecipazione di popolo e la sua tomba ebbe continuamente fiori da mani sconosciute, fino al 15 settembre 1956, quando i suoi resti, chiusi nel sacco catramato N. 567, furono trasportati da una Commissione germanica al cimitero tedesco di Merano e seppelliti sotto il cippo N. 1018. Tra le ossa c’era ancora un pezzo di duro panno grigio con la sigla metallica ad angolo corrispondente al grado di caporalmaggiore.
Nel 1959, il 16 agosto, a Passo Pertica, il Vescovo di Verona, Monsignor Giuseppe Carraro, benedice un pilastro marmoreo dedicato alla memoria di don Mercante e a quella dell’ignoto soldato germanico. Sono presenti personalità italiane e tedesche. L’avvocato Nerino Benedetti, presidente del Comitato per le Onoranze, tiene il discorso commemorativo che conclude con queste parole: “L’esile figura del sacerdote di Cristo, che per amore portato alle anime a lui affidate ha incontrato la morte, e l’immagine del fiero soldato tedesco, che senza batter ciglio e a testa alta ha affrontato il mitra spianato contro di sé per un supremo dovere di coscienza e di umana fratellanza, sono oggi unite nel nostro ricordo commosso, nella nostra gratitudine, nel nostro impegno solenne di essere meritevoli del loro sacrificio e del loro esempio… Vestivano la diversa divisa di due eserciti tanto fra loro dissimili, ma i loro cuori battevano i palpiti di una medesima fede. A loro sia gloria eterna!”.

 

 
Don Mercante entra così giustamente nella storia dell’umanità come un eroe e un martire. A questo lui non aveva mai pensato.

Era un tipo tranquillo e amabile, di salute gracile, studioso, alieno da ogni ostentazione ma con un concetto altissimo della sua missione. Nella tragica giornata del 27 aprile 1945 non restò timidamente a guardare ma da pastore “buono”, cioè coraggioso, mise allo sbaraglio la vita per la sua gente. Noi che abbiamo letto e riletto e discusso le testimonianze di questa tragica vicenda, non riusciamo a liberarci dal pensiero che l’eroico gesto dello sconosciuto soldato tedesco in difesa di don Mercante non è stato improvviso. Nelle sette lunghe ore di marcia verso Ala il soldato ha potuto osservare con attenzione quel pallido prete, esausto, intimorito e anche maltrattato, che non reagiva con atti di ribellione o di disperazione. Ora che conosciamo il suo nome, ci è lecito pensare che non restò indifferente davanti a lui, nutrì certamente un sentimento di pietà e di ammirazione e, forse, colse lungo il cammino un’occasione per rivolgergli una parola di incoraggiamento.
Ci riempie di commozione il fatto che fu un trentino e un diocesano. Per anni il nuovo parroco di Giazza, don Erminio Furlani, tentò, con paziente ricerca, di scoprire il nome dello sconosciuto soldato.

Alla sua identificazione arrivò mons. Luigi Fraccari di S. Ambrogio di Valpolicella, al quale era stata passata la pratica. Mons. Fraccari, un generoso e coraggioso sacerdote veronese, aveva raggiunto Berlino nel 1944 come cappellano dei lavoratori italiani emigrati in Germania e si era interessato subito alle migliaia di nostri internati per rispondere alle famiglie che si rivolgevano a lui chiedendo notizie dei loro cari. Si era adoperato oltre ogni rischio per venirne a capo; seppe perfino dare un nome alle tombe di 537 soldati italiani rimasti vittime dei lager nazisti.

Pregato d’aiuto dal parroco di Giazza, fece ricerche in primo luogo presso il Ministero della Guerra, presso la Croce Rossa Tedesca e la Lega Popolare per la cura delle tombe dei caduti in guerra. Non approdò a molto, ma per esclusione, restringendo lo spazio della ricerca, sentì di trovarsi sulla pista giusta.

 

Quando rientrò a Verona nel 1979 mise insieme pezzo per pezzo, come in un mosaico, i dati raccolti, ogni richiesta e ogni testimonianza. Entrò in relazione con un giornalista di Norimberga, Theo Reuber Ciani, che sul fatto di Ala aveva scritto tre servizi per la rivista “Gong” e posto ai lettori tedeschi la domanda: “Wer ist der Held von Giazza?” (“Chi era l’eroe di Giazza”) e poi, ancora, con un regista bavarese, Mario Reinhard, che stava girando un film sulla vicenda. Ciò che all’inizio era semplice supposizione, divenne alla fine certezza: lo sconosciuto soldato tedesco non era più tale, aveva finalmente un volto e un nome.

 

 

Leonhard Dallasega 

 

 
Si chiamava Leonhard Dallasega: era nato a Proves, nell’alta Valle di Non, Decanato di Cles, il 15 ottobre 1913, al Maso “Clasett”, in una modesta famiglia contadina, formata dai genitori e da altre due sorelle.

Chiamato a prestare servizio militare nell’esercito italiano nel giugno 1933, fece parte dapprima del VII Reggimento Alpini, poi dell’XI, con il quale si imbarcò a Livorno, il 6 gennaio 1936, alla volta dell’Eritrea per la guerra contro l’Abissinia. Ammalatosi di tifo, rientrò il 17 giugno a Napoli con un trasporto di malati e feriti e passò un periodo di degenza all’Ospedale di Caserta, per raggiungere poi, guarito e congedato, la famiglia di Proves.

Il Dallasega era un giovane per bene, capace, molto affezionato alla famiglia, buon suonatore di chitarra e ben visto in paese. Non aveva frequentato che la IV elementare ma era sveglio e volonteroso. Lavorava di buona lena nell’azienda paterna che offriva lo stretto necessario per campare. Dopo il servizio militare, quando il governo germanico offrì lavoro nei settori dell’industria e dell’agricoltura, Leonhard si unì ai numerosi operai che partirono dall’Alto Adige e dal Trentino; trovò occupazione in Baviera in una fabbrica di tabacchi.
Nel 1939 optò anche lui con i familiari per il Terzo Reich, non sappiamo se convinto assertore dei diritti della minoranza tedesca nel Tirolo del Sud contro l’oppressione fascista, oppure se travolto, come i più, dalla sfrenata e minacciosa propaganda nazista. In quell’epoca accettò volentieri il posto di contabile presso la Cassa Rurale di Proves che gli permetteva di restare a casa con una discreta posizione economica.

 

Leonhard Dallasega con la moglie il giorno del matrimonio

 
Nel 1941 si sposò con Maria Herbst, originaria di Nuova Ponente, ed ebbe la gioia di vedere, nel 1942, la famiglia arricchita dalla nascita di una bambina, Elisabetta (Lisl), e, l’anno dopo, di un maschietto, Ewald. Quando nel gennaio 1945 nascono i due gemelli, Helmuth e Othmar, che moriranno dopo due mesi di broncopolmonite, papà Leonhard è, da due anni, soldato dell’esercito germanico.
Dopo il 13 settembre 1943 l’Italia del Nord restò terra d’occupazione sotto il pesante tallone nazista e il Trentino, con l’Alto Adige e il Bellunese, divenne «Zona di Operazione delle Prealpi» (Alpenvorland), praticamente annessa alla Germania. Al 25 ottobre Leonhard, di lingua materna tedesca, fu richiamato alle armi ed obbligato ad immatricolarsi nelle SS. Dopo tre mesi di addestramento a Münsingen in Germania, la sua compagnia fu inviata in Italia alle dipendenze del Generale Wolff e comandata a Caldiero di Verona. Qui il Dallasega, per la buona conoscenza che aveva della lingua italiana, ottenne l’incarico di portalettere e di capocuoco, mansioni per le quali ebbe a disposizione una bicicletta. Fu presto promosso al grado di “Obergefreiter der Waffen SS” cioè di caporalmaggiore.
Quando il fronte tedesco crollò, la sua compagnia si ritirò parte verso il Lago di Garda e parte verso Vicenza, per non cadere prigioniera delle truppe corazzate americane che stavano per giungere a Verona. Lui scelse la montagna, meno bersagliata dai bombardamenti alleati ed arrivò così sul fare della sera, del 26 aprile 1945, alle porte di Giazza. Pernottò in un casolare: pare intendesse al mattino del 27 barattare la bicicletta con abiti civili, quando fu raggiunto dalla compagnia dei paracadutisti che fecero poi prigioniero don Mercante. Forse si unì a loro visto il pericolo di essere bloccato dai partigiani della montagna o forse, più probabilmente, fu sospettato di diserzione e obbligato a proseguire il cammino con la compagnia.
Intanto a Proves, con la fine della guerra, cominciarono a rientrare alle loro famiglie i reduci dalle più disparate regioni d’Europa. Mancava Leonhard e nessuno sapeva dare spiegazioni. La sposa Maria si interessò subito presso i conoscenti, chiese informazioni presso i compagni del marito a Caldaro, a Bolzano e Merano. Raccolse ogni volta espressioni vaghe, brevi descrizioni dei pericoli incontrati dalle truppe tedesche in fuga, oggetto di feroci mitragliamenti da parte degli aerei alleati e di frequenti imboscate tese dai gruppi partigiani. La donna tornava a casa col cuore rotto, profondamente amareggiata, perché si era convinta che più d’uno sapeva ma non voleva parlare.

Anche l’anziano padre Angelo si mosse alla ricerca del figlio, andò a Caldiero di Verona da dove era partita l’ultima lettera destinata alla famiglia con data 22 aprile 1945; trovò gente che si ricordava benissimo del biondo portalettere tedesco che ogni domenica andava alla Messa in parrocchia e faceva la Comunione. Gli dissero che era molto buono, che dava frequentemente ai ragazzi affamati del paese una fetta di pane spalmata di margarina o di marmellata. Molti lo avevano osservato con un sentimento di rispettosa ammirazione quando, sul tardo della sera, passeggiava con il rosario in mano nell’orto della macelleria requisita. Ma anche lui con tutti gli altri era partito il 26 aprile e il 28 erano arrivati gli Americani. Il vecchio genitore tornò al paese natale convinto che non avrebbe più visto il figlio, anche se nel cuore non sapeva rinunciare alla speranza d’un suo ritorno.
Nel 1946 la sposa Maria, insistendo nelle ricerche, ottenne una lettera da un sottufficiale austriaco di Linz, sul Danubio, che le comunicava brutalmente che suo marito Leonhard era stato fucilato in quel di Trento, perché durante la ritirata aveva abbandonato la sua unità. Fu l’ultima notizia, poi più nulla.
Nel 1952 Maria Dallasega si risposò con Angelo Kerschbamer, un bravo contadino, proprietario di un piccolo maso nella parte sud di Proves ed ebbe da lui quattro figli, tre maschi e una femmina.
In un numero del quotidiano “Dolomiten” del 20 agosto 1959, Maria lesse dell’inaugurazione del monumento a Passo Pertica in onore di don Mercante e dello sconosciuto tedesco. Ebbe immediatamente la sensazione che quel soldato potesse essere il suo defunto primo marito, perché lo riteneva capace di un gesto simile, ma non poté reperire alcuna prova. In seguito, nel 1965, la sua famiglia si trasferì a Sopramonte di Trento, a lavorare a mezzadria in un grosso podere del professor dott. Enrico Nardelli, rinomato chirurgo di Cles. E a Sopramonte verrà molti anni dopo, precisamente il 15 giugno 1985, mons. Luigi Fraccari a comunicare il giorno e l’ora della morte di Leonhard Dallasega.

 

 
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RIFLESSIONI SUL SACRIFICIO DELLA VITA DEL SOLDATO LEONHARD DALLASEGA

 

Leonhard Dallasega con l’uniforme delle SS

 
Riflessioni sul sacrificio della vita del soldato Leonhard Dallasega: perché il caporalmaggiore di Proves sacrificò ciò che un uomo ha di più caro al mondo, la vita e la famiglia? Perché non ubbidì al comando dell’ufficiale come fecero gli altri? Ubbidendo, avrebbe tolto da sé stesso anche il sospetto della diserzione e salvato la vita. Il Dallasega aveva 32 anni, con in groppa mesi e mesi di servizio militare. Era graduato delle S.S., con un titolo che nell’esercito germanico non si assegnava se non ad un soldato abile e capace di responsabilità. I caporalmaggiori e i sergenti erano considerati il nerbo delle compagnie militari, con mansioni importanti e delicate.
Ad Ala questo caporalmaggiore contestò il comando del capitano e non ubbidì, non per un colpo di rabbia o per un’impennata quasi irresponsabile, ma per una decisione lucida nelle sue estreme conseguenze, presa sul momento, ma certamente non improvvisata.

Di sacerdoti il Dallasega ne aveva conosciuti pochissimi, bene uno solo, il buon Parroco di Proves, don Joannes Vigl (1888-1963), presso il quale una zia della sua sposa, Amalia Marzari di Nuova Ponente, era in servizio da diversi anni come governante.

Anche i parroci di Lanza. don Stefano Pegolotti, e di Marcena, don Albino Dalrì, e don Joannes Hillebrand di Lauregno erano conosciuti dalla famiglia Dallasega e onorati di profondo rispetto; ma con don Vigl Leonhard era in frequente e filiale contatto.

Don Vigl era una persona eccezionale, un vero uomo di Dio, molto intelligente e austero, lodato dal Vescovo ausiliare di Trento nella visita pastorale del 1937 “per la preparazione catechistica e in genere per lo zelo”; uomo severo ed esigente con se stesso, aveva un cuore aperto e una mano generosa, era stimato ed amato dalla popolazione di Proves sparsa in venti casolari distanti dalla chiesa anche un’ora di cammino, perché sperimentava la sua carità e la sua saggezza. Parlava con parola convinta e convincente di Dio e dei comandamenti di Dio e sapeva tener viva la coscienza, stimolandola a fare il bene e a combattere il male. In chiesa annunciava con fermezza le verità della fede; fuori, nel contatto con le famiglie, per lui la sua gente era fatta di santi. Questo rispetto ed interesse gli conquistarono il cuore e la gratitudine dei fedeli.
Il caporalmaggiore Dallasega, osservando don Mercante lungo il penoso cammino di oltre venti chilometri dalla montagna ad Ala, pensò certamente al parroco del suo paesello, posto lassù in alto, nella Valle della Pescara, su un pendio di montagna abbastanza simile a quello di Giazza. Fucilare don Mercante sarebbe stato come fucilare il suo parroco. Non poteva fare questo; e lo disse con l’angoscia nel cuore, sapendo quello che gli toccava, pensando alla sposa ed ai bambini. Ebbe il sovrumano coraggio di opporsi al comando del capitano, di rispondere che lui non avrebbe fucilato un prete: “Das ist Mord!” (Questo è un assassinio) disse.
Il capitano reagì freddamente e non ebbe pietà per il caporalmaggiore. Era probabilmente uno di quei fanatici ed esaltati nazisti che vedevano negli Ebrei, nei comunisti e nella Chiesa Cattolica i principali oppositori del nazionalsocialismo e la causa maggiore della sua disfatta.

 

 

Qualche anno dopo, anche in Ala, al bivio di Cere di S. Martino, il 27 aprile 1960, fu inaugurato un capitello con la seguente scritta:

 

“A DON DOMENICO MERCANTE

PARROCO DI GIAZZA

E ALLO SCONOSCIUTO SOLDATO TEDESCO

CHE IL 27 APRILE 1945

QUI TESTIMONIARONO IN COMUNE

OLOCAUSTO

IL TRIONFO DELLE LEGGI DIVINE

SULLE BARBARIE DELLA GUERRA”

 

Il pensiero che la guerra era ormai finita, che di sangue tedesco ne era stato versato fin troppo, a fiumi, per le contrade europee, che ogni soldato superstite desiderava in quelle ore tornare in fretta a casa ed evitare la prigionia, che una fucilazione non aveva alcun senso ed era del tutto inutile, non trovò spazio nel suo animo indurito ed accecato dall’odio e dal risentimento. Il suo ordine, secco e brutale, di eliminare tutti e due, prima il parroco e poi il soldato, senza processo, trovò uomini sorpresi e turbati da quanto stava accadendo ma disposti ad obbedire.
Conosciamo la maledizione della guerra: su ogni fronte, e dall’una e dall’altra parte, porta crudeltà, massacri, manifestazioni violente di odio delirante contro esseri innocenti come sono i bambini e i vecchi. In ogni esercito vi sono dei balordi spregiudicati che, armi alla mano, commettono ogni sorta di iniquità, in preda al sadismo più nero ed al cieco odio. Anche nell’esercito tedesco vi furono non pochi criminali. Il crimine poteva disporre della ferrea disciplina, imposta alla truppa: un assoluto che si identificava con la pronta e totale ubbidienza al comandante. “Befehl Ist Befehl” comando è comando, e non si tolleravano discussioni. Così anche il delitto diventava possibile.

Per l’ordine di un colonnello furono trucidati migliaia di innocenti a Marzabotto, come furono fucilati con giustizia sommaria soldati tedeschi per aver violentato una donna italiana.

Limitandoci ad Ala, teatro del nostro dramma, è noto che il 26 aprile un graduato tedesco uccise due soldati in una stanza dell’Albergo “Alpino” alla Sega, perché tardavano a seguire il reparto in ritirata, e il giorno dopo un ufficiale, mentre pranzava in Casa “de Gresti” freddò con un colpo di pistola un collega di nome Küfel che aveva espresso dubbi sulla vittoria finale, accusandolo di disfattismo: episodi significativi, per spiegare il clima esistente nei reparti militari tra uomini logorati e abbruttiti da cinque anni di guerra.
Il caporalmaggiore Dallasega non si fece illusioni in quel pomeriggio del 27 aprile. Nella sua qualità di interprete e porta ordini aveva incontrato più occasioni per osservare quanto fosse inflessibile ed inesorabile la legge di guerra, e come il semplice sospetto, con l’accusa di alto tradimento diventasse fatale. Ma davanti alla decisione del capitano di uccidere don Mercante, il Dallasega non tacque, si ribellò ben conscio di quanto poteva toccargli. La sua grandezza è qui, in questo intervento coraggioso a difesa di un innocente, per impedire un delitto, anche a costo di sacrificare se stesso.
Con questo racconto e nella breve analisi dei fatti non si vuol affermare che i soldati che hanno ubbidito all’ordine del capitano fucilando parroco e camerata siano stati dei vigliacchi. Chi ha fatto o solo visto e conosciuto la Seconda Guerra Mondiale sa che sul comportamento del soldato tedesco in genere si possono raccontare molte cose contrastanti, ma non si potrà mai affermare che sia stato un vile.

Ma da dove veniva quel loro duro e così spesso brutale comportamento? I reparti tedeschi erano formati per lo più da giovani e da uomini che avevano nell’animo i sentimenti dell’uomo comune, amante della pace, della casa, della famiglia, della sua verde terra natale. Chi avesse dei dubbi al riguardo, legga le ultime lettere dei combattenti nella bolgia di Stalingrado, per scoprire con che sentimenti migliaia di soldati andavano in linea a morire. C’è in esse qualche cosa di sconcertante e paradossale! Come mai uomini che rivelavano sentimenti così profondamente umani e nobili, pur sapendo di essere costretti a morire senza ragione in una guerra folle, subivano fatalmente quel loro tragico destino?
Erano soldati vincolati da una ferrea disciplina e suggestionati da un solenne giuramento alla bandiera, educati ad un esasperato senso del dovere che anteponevano a qualsiasi altra considerazione. E a questi fattori si dovette purtroppo anche il prolungarsi di una guerra persa con un’accanita e disperata resistenza contro le forze di un avversario divenuto enormemente superiore in numero di uomini e mezzi.
Possiamo dunque capire i compagni del caporalmaggiore Dallasega, e quelli che formarono il plotone d’esecuzione e quelli che videro e tacquero anche in seguito. Hanno titolo a grosse attenuanti ed a quella comprensione che si deve a chi, senza desiderarlo, è tenuto ad operare in un diabolico meccanismo che impone di ubbidire fino ai limiti dell’assurdo.

Appunto per questo e a maggior ragione, Leonhard Dallasega, contestando un ordine giudicato ingiusto ed iniquo e pagando con la propria vita, compì un atto di eccezionale coraggio e di non comune grandezza. Perché lo fece? Da dove gli venne tanta audacia? Non c’è che una risposta: dalla sua coscienza di credente, di cristiano, da una fede profondamente radicata che si conservò intatta anche nelle violenze della guerra. Non per nulla teneva in tasca il rosario e conservava sotto la camicia la crocetta ricevuta dal suo parroco nel giorno della Prima Comunione.
A noi pare di poter legittimamente affermare che il gesto eroico finale del Dallasega non fu una improvvisazione, ma scaturì, in quel momento, da un impulso intimo e lucido come risultante di una visione della vita e delle vicende umane che si trova unicamente nella mente e nel cuore del credente. Non ubbidì perché era, anzitutto, un uomo, un giovane cattolico, figlio di una famiglia religiosissima di forte carattere; custodiva uno spazio di libera coscienza e sapeva affermare e testimoniare nella bufera della guerra, quando era travolta ogni barriera morale e umana, il valore e la grandezza del bene contro il male.
Il Dallasega non era nato per fare l’eroe. Non c’era in lui né esaltazione né fanatismo. Era, come i più, un uomo obbligato a portare una divisa militare, che tiene tra i pochi documenti personali la fotografia della sua donna, della madre dei suoi figli, ben protetta in un astuccio di vetro. Il suo pensiero e la sua preoccupazione e il suo amore erano sempre lì, con lei, con i suoi cari.
Nell’ultima breve licenza di un anno prima, a Proves, aveva ripetuto alla sposa di non farsi illusioni sul suo domani, perché, con ogni probabilità, non si sarebbero più riveduti. Aveva la sensazione di una fine apocalittica che giustamente avrebbe travolto l’esercito tedesco.

Vi accenna anche nell’ultima lettera scritta pochi giorni prima della morte. L’aveva datata così: “C.V. 22,4,1945, 11h Vorm.”, indicando con l’esattezza del contabile il luogo, la data e l’ora antimeridiana. La lettera è scritta in un tedesco semplice e corretto, con una grafia obliqua, regolare e chiara. A leggerla non si direbbe che lo scrivente abbia frequentato solo la IV Elementare. Nel saluto “Meine Lieben alle!” (Miei cari tutti) abbraccia ognuno dei suoi cari: la moglie, i due genitori e le sorelle. Parla della difficile situazione in cui si trova, dell’impossibilità di avere in quel periodo anche una breve licenza, accenna ad una eventuale “Dienstreise”, ad un “viaggio di servizio”, come era avvenuto un paio di volte, durante il quale si era preso alcune ore per raggiungere Proves. Afferma di essersi procurato della stoffa per un vestito invernale e di sperare di farla giungere a casa via Merano. Chiude con le parole: “Sarei felice se potessi uscirne ameni vuote ma salvo. C’è spesso qui una situazione paurosa, che ti stronca i nervi. Ora stanno tornando «die Aluminiumsvogel» (gli uccelli d’alluminio, i bombardieri) e devo terminare. Siate tutti singolarmente molto intensamente e sinceramente baciati dal vostro Leonhard. Tanti saluti a Lisi e Ewald. Saluti ai Vicini”.
È l’ultimo scritto e contiene le vere, autentiche ragioni della sua esistenza che venivano ora distrutte da un ordine insensato. A queste pensava il Dallasega quando rinfacciava al carnefice la crudeltà disumana della sua barbara azione che ammazzava ingiustamente un padre e rendeva orfani quattro bambini. Cadde vittima di un sistema violento che fondava il suo potere sul terrore e sul sangue; cadde da eroe e da martire, perché eliminato in odio alla religione cattolica.
Abbia ora quella lode e quella gloria che merita per la straordinaria lezione di fede e di coraggio offerta. Anche nel cuore di noi, sacerdoti trentini, si mantenga vivo a riguardo di questo figlio della nostra terra dall’anima bella e grande, di questo nostro alpino, un sentimento di commossa gratitudine per l’alto concetto che serbava del nostro sacerdozio.
La sua famiglia in particolare ed il suo paese possono essere altamente orgogliosi di lui. E al riguardo ci congratuliamo con il figlio Ewald, che lavora attualmente in Germania, per quanto ha scritto sul suo genitore in un libretto pubblicato con il titolo “Der Held von Giazza”, (L’Eroe di Giazza). Contiene pagine che sorprendono per l’affettuoso e ammirato ricordo che nutre verso il genitore mai visto ma conosciuto attraverso i dolorosi racconti della madre. Ed è giustificato e gratificante l’invito che rivolge al lettore di visitare, almeno una volta in vita, durante un viaggio o una vacanza, un cimitero di guerra, luogo sacro che ti dà un’immensa tristezza ma particolarmente adatto alla riflessione e alla riconciliazione degli animi.
Facciamo nostra la sua preghiera finale “Signore, è stato versato così tanto sangue innocente, perdona a coloro che fecero del male, dona a noi uomini la tua pace!”. Don Joannes Vigl, parroco di Proves dal 1922 al 1958, morì ad Appiano nel 1962 senza conoscere la fine di questo eroico parrocchiano. Certamente ne sarebbe stato commosso ed edificato fino alle lacrime.

 

Tomba di Dallasega Leonhard

 

Fonte: da Facebook,  Magica Lessinia del 27 aprile 2017

Link: https://www.facebook.com/groups/magicalessinia/permalink/1149507391862351/

 

 

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