Ott 27 2014

TOMMASO PADOA-SCHIOPPA E “GLI INSEGNAMENTI DELL’AVVENTURA EUROPEA” (1999)

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Tommaso Padoa-Schioppa,

 

Riportiamo integralmente l’articolo a firma di Tommaso Padoa-Schioppa, dal titolo “GLI INSEGNAMENTI DELL’AVVENTURA EUROPEA”, apparso nell’autunno del 1999 sulla rivista francese “Commentaire” (n° 87/1999), ringraziando il socio Rocco Ricciarelli (ARS Umbria) per la traduzione.

 

Si tratta di una testimonianza sconcertante dell’ideologia antidemocratica-elitaria e del fanatismo liberista-antistatalista che costituiscono le fondamenta immodificabili di tutta la costruzione dell’Unione Europea.

 

Un Padoa-Schioppa a ruota libera apriva, inoltre, una finestra inquietante sulle prospettive future del continente, fra l’esigenza di garantire una parvenza di democratizzazione della struttura istituzionale dell’Unione e l’aspirazione al completamento ed alla definitiva cristallizzazione del modello desiderato, caratterizzato da una netta preponderanza dell’economico sul politico.

 

Il tutto condito dalla consueta ed ipocrita retorica pacifista, che lo spingeva ad affannarsi nell’imputare alle pulsioni degli Stati nazionali la responsabilità degli eventi bellici, retorica che le vergognose imprese dell’Unione Nobel per la pace hanno clamorosamente smentito!

Solo per stomaci forti!!!

Buona lettura…

 

GLI INSEGNAMENTI DELL’AVVENTURA EUROPEA

 

Il titolo di queste riflessioni si spiega a partire dall’osservazione seguente. Cinquant’anni non sono pochi nella storia dell’Europa: questo, per fare due esempi, è il tempo che separa l’ancien regime dall’era borghese, o l’Europa mediterranea dall’Europa fiamminga. L’idea di un’Europa unita da forze estranee a quelle del “ferro e del sangue”, secondo la formula di Bismarck, fu suggerita, durante la prima metà del secolo, dalla lezione tragica, ma non senza precedenti, della storia. Nel corso dei cinquant’anni seguenti, l’Europa è passata dalle macerie della guerra alla moneta unica, divenendo una fonte di insegnamenti. Poiché l’avventura europea continui e giunga a maturazione, questi insegnamenti dovrebbero essere formulati e trasmessi alla generazione che voterà e governerà dopo questi cinquant’anni.

 

Il titolo reclama due precisazioni. Per “avventura”, io intendo ciò che suggerisce specificamente il dizionario: un evento sorprendente e coraggioso, che comporta del rischio e della novità, ma che tuttavia avviene. Per “insegnamenti”, io non intendo necessariamente una novità, ma sicuramente una verità che merita di essere protetta e trasmessa. Si può dunque trattare della conferma, attraverso nuove esperienze, di ciò che, almeno ad alcuni, appariva già chiaro.

 

Politica e istituzioni

 

Dopo il maggio 1950, quando comincia l’avventura europea con il progetto di mettere in comune il carbone e l’acciaio, e fino al passaggio all’euro, la costruzione europea si è fissata uno scopo essenzialmente economico. Ma la sua natura, il suo significato e il suo spirito sono sempre stati e rimangono politici, proponendosi di trasformare il potere, la sicurezza e le istituzioni, in una parola lo Stato. Anche per coloro che si espandono nella sfera economica, è dunque necessario domandarsi prima di tutto ciò che l’avventura europea significa sotto la prospettiva politica.

 

Io risponderò questo: il processo di unificazione europea è l’eredità positiva più importante dal punto di vista dell’organizzazione politica. Ciò dimostra che, attraverso mezzi pacifici, la società umana può passare dallo stato di natura allo stato civile nel campo dei rapporti fra Stati sovrani, cosa che non era ancora mai riuscita.

 

Oggi disponiamo di basi solide, costruite affinché la volontà di potenza degli Stati, parimenti a quella degli individui, possa essere sorvegliata e privata della sua capacità di oppressione e distruzione. L’obiettivo kantiano della “pace perpetua” non è certamente stato raggiunto, ma abbiamo imboccato il cammino. Questo è il primo e più importante degli insegnamenti che, sul piano della politica, abbiamo imparato dalla storia europea degli ultimi cinquant’anni.

 

Questo grande traguardo e la maniera stessa del suo raggiungimento, danno un significato poco convenzionale alle nozioni politiche che hanno segnato il vocabolario e le idee di questo secolo: rivoluzione, utopia, internazionalismo, istituzioni, federalismo, azione politica, democrazia. Esaminiamo ora questi termini.

 

Rivoluzione e utopia.

 

Il secolo è stato veramente dominato dal concetto di rivoluzione, con il quale si intende un cambiamento radicale e rapido dei rapporti di potere, condotto da uomini pronti a tutto, capaci di guidare la storia verso le sponde dell’Utopia. Quante persone della mia generazione, come di quelle che l’hanno preceduta e seguita, hanno associato politica e rivoluzione, quanti hanno considerato indegna d’impegno l’azione politica che non fosse rivoluzionaria!

 

L’illusione di una rivoluzione nazionale (fondata sulla nozione di popolo, e anche di razza) si è persa a metà del secolo, quella di una rivoluzione sociale e di classe ha ancora pochi anni soltanto.

 

Oggi possiamo dire che il vero evento rivoluzionario del secolo è stata la creazione di poteri sovranazionali, precisamente in questa parte del mondo dove è nato lo Stato-nazione. Sicuramente si è trattato di una rivoluzione spogliata dei suoi tratti tipici: movimenti di piazza, violenza e intempestività. Al contrario, è stata lenta, cavillosa e procedurale, dispersa nella lingua tecnica dei burocrati. Non di meno ha costituito una rivoluzione autentica, capace di trasformare permanentemente la configurazione del potere e di deviare il corso della storia.

 

Internazionalismo.

 

È un altro termine che ha segnato il pensiero e l’impegno di figure molto diverse del nostro secolo, da Lenin a Wilson, da Hammarskjold a Giovanni XXIII. Almeno tre vie sono state sondate per assicurare la pace, ispirate da altrettante analisi differenti. Si è creduto, nel XIX secolo, che risolvendo la questione nazionale, cioè facendo coincidere lo Stato e la nazione, si sarebbe riusciti ad instaurare la pace e l’ordine internazionale. Si è creduto, nel XX secolo, che risolvendo la questione sociale attraverso l’avvento di una società senza classi, o semplicemente facendo giocare la solidarietà internazionale tra classi oppresse, si sarebbe ottenuta la pace. Si è creduto alle regole: i quattordici punti di Wilson, la Carta delle Nazioni Unite.

 

Le speranze suscitate da questi diversi approcci si sono dissolte una ad una. È progressivamente apparso più chiaro che, all’interno dei paesi, come fra di loro, l’ordine e la pace non possono essere instaurate che da un potere superiore agli stessi paesi, il quale sia in grado di prendere decisioni a maggioranza e di poterle IMPORRE, se necessario, ATTRAVERSO LA FORZA.

 

Istituzioni e Costituzioni.

 

Per instaurare la supremazia del diritto fra gli Stati, conviene dunque creare istituzioni comuni al di sopra di quelli, e di conferire loro certe competenze che nella storia dell’Europa moderna formavano le prerogative degli Stati nazionali: sicurezza interna ed esterna, protezione delle libertà fondamentali, politica estera, moneta. A Jean Monnet piaceva citare una frase di Amiel: “l’esperienza di ogni uomo si riproduce, solo le istituzioni divengono più sagge”.

 

Ora, anche se non è proprio la prima pietra dell’edificio, il trattato siglato a Roma il 25 maggio del 1957, rappresenta la vera fondazione di un potere organico sovranazionale.

 

Retrospettivamente, il trattato non fu (come lo pensavano Jean Monnet stesso e i federalisti) un semplice accordo internazionale per la libertà degli scambi, ma il nucleo della Costituzione dell’Unione Europea. Trattato certo, perché redatto nelle forme classiche di convenzione fra i governi, e sottomesso alla ratifica dei Parlamenti. Ma Costituzione anche, perché trasforma tutto il nostro quadro economico e giuridico, e completa i testi organici degli Stati membri.

 

Federalismo (separazione dei poteri, sussidiarietà).

 

Costruzione europea e federalismo sono praticamente sinonimi per gli italiani, ispirati dalle idee di Einaudi, Spinelli e Albertini. Fuori d’Italia, in Francia e soprattutto in Gran Bretagna, il termine “federalista” designa oggi il partigiano di una estrema centralizzazione sovranazionale del potere. Curiosa inversione di senso, poiché l’idea stessa del federalismo nasce dalla volontà di limitare, e non d’estendere, il potere posto al di sopra degli Stati. Il pensiero federalista che accompagna e stimola tutto lo sviluppo europeo del dopoguerra, è in particolare all’origine di due principi che hanno aperto nuove vie all’evoluzione delle istituzioni nella stessa Italia.

 

Il primo è la necessità di una separazione dei poteri sul piano verticale. Per evitare il dispotismo, l’autorità deve essere divisa in un senso non solo orizzontale (fra poteri legislativo, esecutivo e giudiziario), ma ance verticale (fra livello nazionale, infranazionale e sovranazionale). Solo questa organizzazione permette di oltrepassare la concezione monolitica del potere, nata nei grandi Stati monarchici europei, rafforzata dai Giacobini e dal suffragio universale. Solo il sistema federale fornisce un antidoto pienamente efficace contro l’elemento potenzialmente totalitario del potere.

 

Il secondo principio è la sussidiarietà: ciascun livello di governo deve limitarsi ad assumere le funzioni che non possono essere esercitate adeguatamente ai livelli inferiori. Principio potente, uscito dal pensiero cristiano medievale, recentemente riattualizzato nell’enciclica quadragesimo anno, poi fatto proprio dall’Unione Europea. Solo l’applicazione del principio della sussidiarietà può guidarci razionalmente per scegliere a quale livello porre il potere, evitandone eccessi e carenze.

 

Azione politica.

 

L’avventura europea ha fatto emergere, mostrandone l’efficacia, dei modelli d’azione differenti da quelli che caratterizzano le democrazie contemporanee, fondate sui partiti, le elezioni, procedure e strutture prestabilite, il quadro nazionale e la professionalizzazione della politica.

 

L’avventura europea ci ha ricordato che la politica è vocazione, non solamente professione (la parola Beruf utilizzata da Max Weber, viene da Ruf, chiamata, e Francois Mauriac designava la politica come la forma superiore di carità). A fianco del politico di mestiere, esistono coloro i quali concepiscono la politica come una lotta il cui scopo è quello di creare un potere differente, ben sapendo che, una volta creato, questo potere sarà, quasi a colpo sicuro, preso da altri.

 

Questa maniera di condurre la vita politica instaura tra coloro che l’adottano dei rapporti completamente differenti dalle relazioni stabilite nel quadro tradizionale. Liberata completamente dal contrasto tra le parti, dai gruppi d’interessi, dalla nazionalità, dall’esigenza elettorale, dalla necessità del guadagno, essa conferisce a chi l’adotta una grande libertà d’azione, e da questo fatto, una efficacia decuplicata. Essa crea inoltre una disponibilità particolare per la cooperazione, lo scambio gratuito di idee e di contributi, la generosità reciproca.

 

In realtà, questo modo d’azione politica è quello dei rivoluzionari, e così si riassume: creazione di un nuovo ordine; generosità disinteressata, cospirazione, idealismo; alleanza dell’attività politica e di un altro mestiere. La costruzione europea è una rivoluzione, anche se i suoi rivoluzionari non sono cospiratori pallidi e magri, ma impiegati, funzionari, banchieri e professori.

 

Democrazia (legittimità, leadership).

 

Fra la costruzione dell’Europa unita e la democrazia si è prodotta un’interazione complessa, che oltrepassa la tematica del “deficit democratico” europeo.

 

Il disegno dell’unione politica in Europa è sorto dalla caduta dei regimi totalitari in questa parte del mondo occidentale e si è trovato rinforzato dalla minaccia dei sistemi comunisti. Fondata in un momento in cui solo una modesta porzione del globo era retta da governi liberamente eletti, la Comunità è divenuta una zona democratica in espansione, che si estende nella misura in cui si estende lo spazio della democrazia.

 

L’Europa si è formata in piena legittimità istituzionale. Ma non procede da un movimento democratico, né da una mobilitazione popolare intorno ad un organo costituente; non ci sono state né le Cinque giornate, né parlamenti di Francoforte, né Stati Generali. Essa si è costituita per l’effetto di tre forze: l’azione di governi illuminati (da Adenauer a Kohl, da De Gasperi ad Andreotti, da Schumann a Mitterand); la visione ispirata di uomini politici fuori dal comune, come quelli che ho già citato (specialmente Monnet, Spinelli, Delors); l’adesione profonda del popolo europeo all’obiettivo perseguito, adesione intuitivamente percepita dagli uomini politici.

 

Fra i due poli del consenso popolare e della leadership di qualche governante, l’Europa si è fatta seguendo un metodo che si potrebbe definire col termine dispotismo illuminato, procedura perfettamente legittima, ma ancorata al metodo democratico solo per l’esistenza della democrazia all’interno degli Stati, non da un processo democratico europeo. Si può dunque parlare di democrazia limitata.

 

Un’opera incompiuta

 

Tanto grande quanto sia l’opera compiuta fino ad ora, l’Unione Europea non è completa. Essa non lo è né sul piano delle competenze né sul piano del quadro istituzionale. Non solo si può parlare di incompletezza, ma siamo probabilmente ancora al di qua del punto di non ritorno, cioè del punto a partire dal quale il completamento appaia come seguito naturale, ma né certo né ineluttabile, del corso degli eventi.

 

Opera incompiuta sul piano delle competenze perché manca ancora all’Unione la più fondamentale delle funzioni di governo: garantire la sicurezza interna ed esterna dei cittadini. È sul solco di questa competenza che si sono formati gli Stati ed è per assicurare la supremazia del diritto, l’ordine e la sicurezza che si giustificano il loro controllo della forza e il loro monopolio delle armi. Poiché la forza, al contrario della moneta, appartiene ancora agli Stati, il pericolo di un ritorno al passato non è veramente scongiurato.

 

Opera incompiuta anche sul piano istituzionale, perché l’Unione Europea – le cui le istanze costituiscono un sistema costituzionale dotato di tutti i suoi organi (un esecutivo, un parlamento eletto, una “camera degli Stati” e una Corte di giustizia) – non applica ancora integralmente i principi fondamentali che costituiscono il patrimonio della cultura politica occidentale: prendere decisioni a maggioranza, ancoraggio dell’esecutivo e del legislativo al voto popolare, equilibrio dei poteri. Tutti i cittadini europei considerano inammissibile, che nel proprio paese, si possa – cosa che oggi è ancora possibile nell’Unione europea – legiferare contro la volontà del Parlamento, o che una minoranza, finanche il più piccolo Stato membro, possa impedire, con il suo voto, delle decisioni rispettando tuttavia i suoi diritti fondamentali.

 

Nel corso di numerosi anni, i progressi dell’Europa sono stati favoriti da questo dispotismo illuminato e questa democrazia limitata. Decisioni più coraggiose, più rapide, spesso meno deformate dalle motivazioni ordinarie della politica (il filtro dei partiti, i compromessi) giustificavano forse un’incompiutezza costituzionale; questa era sempre preferibile al ferro e al sangue coi quali Napoleone e Hitler avevano cercato di unire l’Europa, o con cui si sono formati gli stati moderni nei secoli passati. Adesso, questa incompiutezza è divenuta un freno.

 

Si vede apparire un rischio in aumento che gli Stati facciano valere le loro democrazie più complete per rifiutare all’Unione le competenze che le mancano ancora. Senza una legittimazione democratica, l’Unione Europea non potrà più progredire. Non potrà più legiferare senza applicare integralmente il voto maggioritario. Non potrà più abbandonare la regola dell’unanimità senza estendere la “codecisione” del Parlamento eletto a tutta la produzione legislativa. Non potrà più estendere la codecisione senza instaurare una gerarchia fra leggi e testi normativi secondari. Soprattutto, non potrà né acquistare né esercitare poteri chiari in materia di sicurezza interna ed esterna, o di politica estera.

 

Economia e moneta

 

Costruzione e progetto politico, l’Europa è divenuta realtà sul terreno economico. Per prendere la misura di ciò che è stato costruito, se noi utilizziamo i parametri degli economisti e osserviamo l’evoluzione della ricchezza delle nazioni, noi non possiamo che constatare emblematicamente il grande successo del progetto europeo. L’Europa povera e devastata del 1950 ha, in buona parte, colmato il suo ritardo con gli Stati Uniti. Nel 1950 il reddito per abitante in Italia corrispondeva al 38% di quello della Svizzera, il paese europeo più ricco al di fuori della Comunità, nel 1992 si situava al 77%.

 

Il trattato di Roma è alla base di questa riuscita. Chi legge abitualmente questo testo non cessa di scoprire nuove prove della sua intelligenza economica, una visione esaustiva e moderna.

 

Dal punto di vista dell’economia e dell’economia politica, un insegnamento fondamentale è stato così fornito dal trattato, di cui tutti i corsi universitari dovrebbero prevedere la lettura, illustrando la storia della sua messa in opera.

 

Mercato e governo, pubblico e privato, micro e macro economia, sovranità monetaria, banca centrale, moneta e società, altrettanti termini del vocabolario economico, il cui impiego deve essere rivisto alla luce dell’esperienza europea.

 

Governo e mercato.

 

Il sistema di mercato che lascia giocare alla mobilità del profitto individuale il ruolo di motore fondamentale della produzione e del consumo, richiede una solida struttura di leggi e poteri rilevanti, normalmente prerogative degli Stati.

 

L’Unione Europea non ha instaurato tra i paesi membri una semplice area di libero scambio, ancora meno uno spazio senza leggi o senza poteri. Essa, al contrario, da uno stesso processo, ha ottenuto contemporaneamente l’apertura reciproca delle economie partecipanti e istituito in diritto pubblico le leggi e i poteri necessari per il buon funzionamento di questo nuovo mercato che metteva in piedi.

 

È precisamente per creare la libertà economica tra paesi partecipanti che il legislatore di Bruxelles, con una forza e una coerenza che i processi politici interni agli Stati non avrebbero saputo liberare, ha alleggerito e sfrondato la legislazione e le istituzioni economiche degli Stati membri per adattarli al MERCATO e alla CONCORRENZA. A giusto titolo, la costruzione europea ha dunque significato più mercato e più governo.

 

Pubblico e privato.

 

Lungo i decenni, la frontiera tra la proprietà pubblica e privata si è spostata in un senso o in un altro, in quasi tutti i paesi, ma il suo spazio non è mai stato privato di significato. Considerando l’importanza di questa questione, si è sorpresi dall’indifferenza verso il regime della proprietà che sembra manifestare il trattato di Roma. Questo si accontenta in effetti di disporre che le regole della concorrenza si applichino a tutte le imprese pubbliche nella stessa maniera che alle società private. Disposizione di una semplicità limpida e che, dopo che la Commissione la mette in opera con determinazione, ha finito per privare le nazionalizzazioni della loro ragion d’essere.

 

Se le regole del mercato sono veramente indipendenti dal regime della proprietà e se, di più, sono proibiti gli aiuti pubblici che falsino la concorrenza, a che cosa serve la proprietà pubblica? Se, inoltre, le finanze dello Stato dovrebbero essere sanate, è raccomandato, e anche necessario, PRIVATIZZARE. In questa maniera, l’applicazione del trattato di Roma ha svuotato della sua sostanza una delle questioni più brucianti della politica economica della nostra epoca.

 

Macro (e micro) economia.

 

Il secolo mostra una curva che traccia l’aumento, il declino e il consolidamento dei due strumenti fondamentali della politica economica: le finanze pubbliche e la moneta. Giudicata in rapporto a questa curva, la costituzione macroeconomica europea si rivela singolarmente progressista e ispirata. La moneta è regolata a livello europeo, da una banca centrale dotata di tutte le garanzie istituzionali e operative. Il budget degli Stati è assoggettato a dei VINCOLI europei che impediscono la deriva dei deficit e dei debiti pubblici; ma la sua struttura, la sua grandezza, così come la composizione delle ricette e delle spese restano delle facoltà dei paesi membri; queste scelte restano radicate nel terreno politico e sociale nazionale dove è giusto che maturino.

 

Sovranità monetaria.

 

Nella storia delle banche centrali, in quella dei sistemi costituzionali e quella delle relazioni monetarie internazionali, la nascita della banca centrale europea segna una data di importanza eccezionale. Per la prima volta, degli Stati sovrani hanno rinunciato volontariamente alla propria sovranità monetaria e realizzato una piena unione monetaria prima di pervenire ad una piena unione politica. Non c’è un precedente ad un tale sganciamento dalla regolazione monetaria e dal governo dello Stato; l’evento è reso ancora più significativo dal fatto che si produce in un momento in cui, per la prima volta nella storia umana, la moneta non è ancorata né sull’oro né su un altro standard reale. Evento nuovo per gli Stati, che avevano sempre considerato che battere moneta fosse loro prerogativa. Evento nuovo per le banche centrali che, anche se godevano di una larga autonomia, s’inserivano sempre nondimeno in un quadro istituzionale comprendente un’autorità di bilancio, istituzioni parlamentari e un governo che controllava la forza pubblica.

 

Banca centrale.

 

Con la nascita della Banca centrale europea si completa il ciclo storico comprendente la ricerca del sistema di regolazione adatto alla nuova realtà della moneta fiduciaria. I due principi sui quali riposa l’unione monetaria rappresentano il risultato di questa ricerca e non sarebbero mai stati messi in opera fino ad allora in nessun paese tanto pienamente come nel quadro stabilito di Maastricht. Il primo di questi principi è la stabilità dei prezzi presentata come obiettivo prioritario della politica monetaria; il secondo è l’indipendenza totale garantita alla banca centrale. Questi sono due elementi per i quali, da lungo tempo, hanno lottato i teorici, le banche centrali, numerose forze politiche e, occasionalmente, anche l’opinione pubblica. Questa doppia posizione è stata conquistata, essa dovrà essere difesa, ma la vittoria è stata acquisita.

 

Adesso si apre una nuova fase. La banca centrale europea dovrà vincere la sfida di mantenere la stabilità dei prezzi e nello stesso tempo convincere che la sua indipendenza e la sua azione non sono responsabili della disoccupazione in Europa. Il rischio non proverrà più da una indipendenza insufficiente, ma dalla solitudine: l’assenza di altre autorità ben identificate di politica economica, la difficoltà di indirizzarsi ad una opinione pubblica estremamente vasta, plurilingue, molto diversificate nelle loro tradizioni e cultura; soprattutto il deficit di unione politica.

 

Moneta e società.

 

Ma l’importanza della moneta unica trascende la sfera economica e istituzionale. Essa agisce profondamente sui rapporti tra persone, l’identificazione della “società d’appartenenza”, la psicologia individuale e collettiva.

 

Accettare da uno sconosciuto un pezzo di carta privo di valore intrinseco in cambio di beni e servizi che sono i frutti del suo lavoro, è una delle manifestazioni più spettacolari della fiducia delle persone rispetto alla società alla quale appartengono. E nient’altro, forse, esprime con tanta forza il legame personale con lo Stato come questo gesto, compiuto molte volte da ciascuno, ogni giorno. Che il corso della moneta sia oggi divenuto europeo, costituisce, dunque, una mutazione di portata immensa, perché significa che la fiducia è ora fondata sull’Europa. La società d’appartenenza comune a tutti a quelli che utilizzeranno le stesse banconote in euro (non solo all’estero, come si intende dire talvolta, ma anche, e ciò è significativo, per pagare il caffè e il giornale all’angolo della strada) cesserà di essere nazionale e diventerà europea.

 

Gli individui modificheranno poco a poco la percezione della loro identità di cittadini. Le conseguenze di questa mutazione, che gli uomini politici hanno percepito più chiaramente degli economisti e degli intellettuali, si manifesteranno lentamente. Ma, evidentemente, saranno profonde e oltrepasseranno largamente il quadro il quadro di quello che si intende comunemente per sistema monetario ed economico. Non dimentichiamo che moneta diventò competenza dei regni, e non più dell’impero, per più di mille anni, dopo che i re barbari, nel VII secolo, osarono sostituire la loro effige a quella dell’imperatore sulle monete metalliche.

 

Fragilità dell’economia europea

 

Come nel campo politico, la costruzione europea è ugualmente incompiuta sul piano economico. L’Unione Europea è stata concepita dai fondatori come un mezzo verso l’unione politica e la sua incompiutezza significa prima di tutto la non realizzazione di questo obiettivo. Mi atterrò ora al campo economico, per esaminare in cosa i fini propriamente economici enunciati nel trattato – e che caratterizzano tutto il sistema del governo dell’economia: benessere, crescita e stabilità – non sono totalmente realizzati.

 

Se, in riferimento ai tre fini classici della politica economica – efficienza, stabilità ed equità -, noi ci domandiamo ciò che manca perché il sistema giunga a compimento, in altri termini perché siano attribuite al livello federale di governo tutte le funzioni che gli competono (ma solamente quelle, secondo il principio della sussidiarietà), una conclusione si impone: esso manca di importanti competenze principalmente in tema di stabilità ed equità; sul piano dell’efficienza, cioè delle politiche di mercato, manca di armonizzazione fiscale.

 

I progressi della costituzione europea nel campo economico, questi quindici ultimi anni, sono stati visibili soprattutto in due campi – il mercato unico e la moneta unica – che corrispondevano allo spirito dell’epoca. Sotto i governi Regan, Thatcher e Kohl, il rafforzamento dei meccanismi di mercato e la ricerca della stabilità macroeconomica (soprattutto monetaria) sono state piazzate al primo piano delle priorità e sono state praticamente realizzate; questo progresso ne ha trascinato degli altri nel campo istituzionale.

 

Durante lo stesso periodo, tuttavia, un accordo si è rivelato impossibile per un opera comune negli altri settori importanti della politica economica, dove un’azione esclusivamente nazionale è dunque insufficiente: ricerca, creazione di infrastrutture e promozione dello sviluppo.

 

Oggi, nel momento stesso in cui si realizza la moneta unica, certi segni mostrano che gli elettori e le forze politiche scelgono priorità differenti. Questo desiderio di cambiamento condurrà a dei RITORNI INDIETRO (per esempio interruzione del risanamento dei bilanci, interferenze all’indipendenza della politica monetaria) o, al contrario, spingerà a perseguire l’edificazione europea riempiendone le lacune? Ecco la questione che si porrà nei prossimi anni.

 

L’incompletezza della costruzione europea è legata a ciò che abbiamo constatato nel campo politico-istituzionale. Non applicare pienamente i principi fondamentali del costituzionalismo priva l’Unione dell’efficacia e della legittimità che le sono necessarie per realizzare pienamente i compiti che sono già stati fissati e per rivendicare quelli che le mancano. Più precisamente, e a titolo di esempio, i ritardi e la lentezza dei progressi dell’armonizzazione fiscale derivano dalla non adozione, in questo campo, della decisione a maggioranza. La carenza o l’inefficacia delle istanze esecutive, nella difesa del mercato unico, rappresenta un aspetto dello squilibrio dei poteri sussistente tra il Consiglio e la Commissione. L’assenza di meccanismi adeguati per i trasferimenti tra gli Stati deriva da una debolezza della Commissione e dall’opposizione della Germania all’aumento del budget comunitario, al finanziamento del quale essa partecipa in maniera esorbitante, che gli altri paesi non hanno mai avuto la chiaroveggenza di riesaminare.

 

L’incompletezza dell’Europa nel campo economico rivela prima di tutto una precarietà e una fragilità specifiche dell’economia europea, che non possono essere ignorate e che costituiscono un rischio. Anche come sistema di governo economico, l’Europa non può essere considerata come compiuta.

 

Conviene nondimeno notare che l’incompiutezza risulta anche da problemi non risolti, ma non unicamente nel quadro europeo.

 

Il primo di questi problemi concerne il rapporto tra governo dell’economia e governo in senso strettamente politico. Se la vita economica deve essere governata e se, nello stesso tempo, la politica deve essere rispettosa delle leggi economiche, quale quadro istituzionale può soddisfare questa doppia esigenza? A questo interrogativo, questione centrale di tutta la costituzione economica, la costruzione europea ha portato elementi di risposta originali e positivi, ma non ancora una risposta completa.

 

Il secondo problema è quello della frontiera tra l’economico e il non economico. Senza mercato unico, noi non avremmo né Schengen né le premesse di una politica comune dell’immigrazione. E, nonostante l’incompletezza, la costruzione europea ha già oltrepassato i limiti dell’economico per affrontare campi come la politica estera, i diritti della persona e la protezione dell’ambiente.

 

Il governo dell’economia e la frontiera fra l’economico e il non economico sono i problemi del mondo di oggi; non si pongono solamente in termini europei. Io credo che una Europa pienamente costituita come unione politica potrebbe, più che nella sua configurazione attuale, contribuire a trattarli efficacemente.

 

Nazione e cultura

 

Nella foga delle prime battaglie, l’avventura europea significava sorpasso, e anche soppressione, degli Stati nazionali. Questo fu lo spirito che trovai ancora, all’inizio degli anni ’80, nell’amministrazione di Bruxelles, persone che si erano arruolate per costruire una nuova patria dopo aver ripudiato la loro, vinta e disonorata, o per correggere gli errori dei loro padri a Versailles, rinunciando alla vendetta del vincitore.

 

Oggi, noi abbiamo una percezione differente. L’appartenenza a un paese fa parte integrante della concordia discors che fa avanzare l’Europa. E, giustamente, l’esperienza europea ha contribuito a dare a numerosi italiani, dopo la guerra, una visione positiva della loro nazione.

 

È prima di tutto il sistema istituzionale anche della Comunità che assegna una funzione agli Stati. Fra il modello intergovernamentale e il modello sovranazionale, i redattori dei trattati europei, da Parigi (1950) ad Amsterdam (1997), hanno effettuato una scelta ibrida all’apparenza, in realtà originale e aperta sull’avvenire. La via del compromesso lungo la quale l’Europa ha progredito è la linea realizzata dei due modelli.

 

I compromessi sono invenzioni utili quando, incrociando elementi che nessuno aveva reputato possibile combinare, creano una materia nuova che resiste al tempo.

 

Il compromesso europeo è stato reso necessario dal fatto che, senza una forte componente confederale, il campo pro-europa sarebbe stato perdente. Esso si è rivelato praticabile e ha permesso grandi progressi seguendo la linea della cresta, non la linea bassa del fondo valle.

 

Numerose caratteristiche intergovernamentali, nella costruzione europea, hanno un carattere permanente e non transitorio. Il potere comunitario integra, modifica e completa quello degli Stati; non li sopprime.

In questo sistema, notiamo che il ruolo degli Stati non è solamente consentito, ma anzi necessario.

 

L’Unione Europea richiede che ciascun paese partecipi in quanto tale alla politica comune, non solamente attraverso il voto dei suoi elettori. Tratta con gli Stati membri, avendo, ciascuno di loro, obblighi e diritti in qualità di soggetto istituzionale, che si tratti dell’aeroporto di Malpensa o delle quote latte del Credit Lyonnais.

 

Ma i paesi costruiscono l’Europa facendosi concorrenza ugualmente, basti pensare al riconoscimento reciproco delle norme nazionali, invenzione geniale che ha permesso la realizzazione del mercato unico attraverso un meccanismo che non è altro da quello di mercato.

 

E anche quando non è organizzata e nasce dalla volontà di prevalere, l’antica volontà di potenza che per lungo tempo animato gli Stati nazionali e li anima ancora, la concorrenza, purché non violi le regole dei trattati, è lecita e assolutamente utile, nella stessa maniera in cui è utile, in un sistema politico, la lotta tra partiti se essa rispetta le regole della democrazia (come le leggi amministrative e penali). Il protezionismo non è permesso; il patriottismo sì.

 

Dobbiamo allora pensare che la costruzione europea ha lasciato intatto lo Stato nazionale o piuttosto, come pretende Alan Milward, che lo ha salvato?

 

La tesi di Milward non mi pare accettabile in questa forma bruta. Essa ignora il significato rivoluzionario del passaggio della cooperazione dai trattati internazionali, precari e sempre reversibili, alla cooperazione istituzionalizzata in seno a poteri sovranazionali. Essa ignora il fatto che creare l’Europa unita significa liberare lo Stato nazionale dal demonio del totalitarismo, minaccia sempre latente, fintantoché la sovranità è concentrata in una sola istanza.

 

Distruggendo questa concentrazione esclusiva, la costruzione europea ha esaltato il ruolo benefico dello Stato nazionale, che conserva il suo valore positivo di tradizione storica e culturale. Si è prodotto un evento assimilabile alla perdita della Chiesa, del suo potere temporale. Essa, dopo un lungo periodo di afflizione e di recriminazione, ha finalmente riconosciuto, per voce dei suoi ultimi sovrani pontefici, che questa perdita ha costituito un evento provvidenziale che ha purificato la sua missione spirituale.

 

Grazie all’avventura europea, allo spazio sicuro e retto dal diritto che essa ha edificato con impegno, agli adolescenti che viaggiano con l’Iter Rail e ai giovani che si incontrano nel quadro dei programmi Erasmus, alle migliaia di funzionari pubblici che, ogni anno, imparano a parlarsi a Bruxelles, grazie a tutto questo noi ci rappresentiamo meglio la grande funzione storica svolta, in Europa, dalla formazione parallela delle nazioni e degli Stati.

 

Gli Stati nazione hanno potuto procurare poco a poco agli uomini e alle donne, all’interno del loro spazio, gli stessi beni che l’Unione europea cerca attualmente di apportare loro all’interno del suo spazio: pace, sicurezza, supremazia del diritto, sentimento di appartenenza ad una comunità. Per questo, poiché aveva tanto apportato all’inizio, lo Stato ha potuto domandare tanto ai suoi cittadini in nome della Patria: non solamente consentire sacrifici, ma anche, soprattutto durante questo secolo, partecipare all’orrore e all’infamia.

 

L’avventura europea, benché ancora giovane, aiuta così ciascuno a comprendere ugualmente il lato oscuro della storia della propria nazione. Ci permette di guardare in faccia (non dico giustificare né assolvere) tutta la dolorosa genesi degli Stati nazionali: il massacro degli Albigesi, la conquista della Scozia, la guerra dei contadini nella Germania di Lutero.

 

Questo non è tutto. Progredendo sulla via di una unione sempre più stretta, secondo i termini del trattato, le nazioni dell’Europa hanno meglio compreso ciascuna il passato delle altre, anche quando si trattava di un passato di invasioni e occupazioni reciproche. E hanno cominciato una riconciliazione. Senza l’Europa, Willy Brandt non si sarebbe inginocchiato a Varsavia; Khol e Mitterand non si sarebbero tenuti la mano a Verdun.

 

E più ancora. Unendosi, le nazioni europee sono esortate a esplorare la loro propria memoria, per leggerci le pagine crudeli in cui la convenzione nazionalista usa attribuire la responsabilità esclusiva alla tribù nemica, soprattutto se essa è stata vinta: la collaborazione attiva di Papon con l’occupante tedesco; i massacri perpetrati dagli italiani in Libia e in Croazia.

 

La frontiera fra il bene e il male cessa di coincidere ipocritamente con le frontiere degli Stati per attraversare le nazioni e la coscienza individuale di ognuno. Tale è il senso più profondo della redenzione e della verità che la costruzione pacifica di una Europa unita offre alle nazioni europee.

 

Osservazioni sull’Italia

 

In Europa e all’Europa, le sei nazioni fondatrici, nello stesso modo di quelle che si sono unite successivamente, hanno dato il meglio di loro stesse. Questa analisi potrebbe appoggiarsi su una analisi paese per paese, ma mi limiterò a qualche osservazione sull’Italia.

 

Il contributo apportato dall’Italia nell’integrazione all’Europa non è evidente a tutti. Nella combinazione dei due modelli, intergovernamentale e sovranazionale, il ruolo della componente sovranazionale, delle due la più autenticamente innovatrice e sempre più minacciata, è soprattutto dovuta all’Italia.

 

Da numerosi punti di vista, l’Italia è il paese federatore dell’Europa. Non solamente in ragione dell’impegno e dell’abilità di quelle e quelli che hanno operato in questo senso, uomini di governo e di partito, generazioni diverse, ma anche perché l’Italia apporta all’Europa due elementi che fanno difetto ad altre nazioni: la sua profonda tradizione universalista e la sua essenza storica ancora in divenire.

 

La vocazione europea dell’Italia è assolutamente inseparabile dalla sua identità culturale: dall’universalismo classico romano, dall’universalismo religioso cattolico, dal fatto che la letteratura della lingua italiana è nata numerosi secoli prima dell’unificazione dello Stato, dalle aperture europee che segnano successivamente tutta la nostra storia, fino al Rinascimento. Per un Italiano, pensare europeo significa piazzarsi nella linea della migliore tradizione nazionale.

 

Inoltre, l’identità italiana è storicamente in divenire. Un Italiano di cultura sa a che punto i suoi concittadini fossero differenti gli uni dagli altri all’epoca dell’unificazione e ancora nell’immediato dopo-guerra, e a quale punto le differenze si siano mantenute, senza che l’unità del paese ne fosse seriamente minacciata. Gli Stati sono, l’Europa avviene, ma l’Italia offre all’Europa l’esempio di un popolo la cui identità è ancora in costruzione.

 

Si intende talvolta dire che il consenso in favore dell’Europa dimostra solo che il nostro paese sente difficoltà nell’identificarsi col proprio interesse nazionale. Può essere vero il contrario: l’interesse italiano è profondamente radicato nell’Europa.

 

Una mutazione

 

La nazione pertiene alla sfera della cultura, lo Stato a quella del potere. Rompendo la loro coincidenza esclusiva, la costruzione europea segna dunque una svolta non solo nella storia del potere, ma anche in quella della cultura. Vorrei soffermarmi un momento su due aspetti di questa questione.

 

Il primo riguarda ciò che potremmo chiamare la “molteplicità delle appartenenze” di un individuo.

 

Rompendo il legame esclusivo tra Stato e nazione, la costituzione europea ci ha aiutato a comprendere quanto sono molteplici le società alle quali apparteniamo: città, regione, nazione, Europa, mondo. Ciascuno di questi livelli ha la una propria storia e costituisce una fonte di cultura; noi apparteniamo ad ognuno, ognuno ci nutre e ci impone dei doveri.

 

È precisamente questa molteplicità di appartenenze, culturali quanto civili, che arricchisce la nostra vita e ci rende liberi nello stesso tempo. Una società non può essere aperta nella sfera politica se non lo è nella sfera culturale. Nessuna cultura è degna di questo nome se è chiusa.

 

Il secondo aspetto riguarda le relazioni e differenze tra la sfera politica e quella culturale. Nel corso del nostro secolo più di tutti gli altri, lo Stato, divenuto laico dopo poco, si è dotato di un credo, fondato sulla nozione di nazionalità, razza, classe e ne ha fatto la base di totalitarismi votati all’oppressione interna e all’aggressione esterna.

 

L’unificazione europea è concepita per liberarci di questi totalitarismi. Più nettamente che nel caso degli Stati Uniti, essa nasce sul fondamento di una pluralità di culture, soprattutto di lingue, che costituiscono l’espressione più ricca e più estesa della cultura. Essa costituisce da ciò l’esperienza e la garanzia di una separazione tra politica e cultura che lo Stato non ha saputo realizzare completamente.

 

Quali sono le relazioni presenti e future tra la cultura europea e la formazione di un Europa politica?

 

In gran parte la nostra cultura è nazionale. Senza l’esistenza dei grandi Stati monarchici, Shakespeare, Cervantes, Moliere non sarebbero mai apparsi o avrebbero scritto diversamente; senza l’avvento dell’unità nazionale l’Italia non avrebbe prodotto Verdi e Manzoni e la Germania, né Fichte né Wagner.

 

Ma la vera cultura è sempre universale e le fonti meno esclusivamente nazionali che lo suggeriscono i libri che la mia generazione ha studiato al liceo. Spesso è venuta fuori da microcosmi locali, senza essere passata per il filtro di uno Stato nazionale o di una grande capitale: si pensi solamente a Goethe, Mozart, Tiziano e Vermer in relazione a Weimar, Salisburgo, Venezia e Delft.

 

L’Unione Europea condurrà al riconoscimento di una cultura distintamente europea? Già questa ricerca si abbozza per esempio negli studi storici che esplorano un percorso e radici comuni, in cui i ricercatori s’interessano meno a ciò che è avvenuto all’interno del continente, e soprattutto a quello del continente.

 

La modalità di formazione delle culture nazionali non prefigura tuttavia, secondo me, ciò che seguirà la cultura europea sotto l’impulso dell’Unione.

 

Da un lato, l’Europa si unifica in un momento in cui anche il mondo si unisce. Già nel 1827, Goethe diceva ad Eckermann: “la letteratura non ha più molto significato oggi. Noi vediamo nascere l’epoca della letteratura mondiale”. La delimitazione spaziale che è servita da culla ad una cultura, le fa oggi difetto.

 

Dall’altro lato la cultura nazionale, come lo Stato nazione, è stata fatta per il ferro e il sangue, strumenti che l’avventura europea degli ultimi cinquant’anni ha ripudiato, preferendo la via degli accordi e del diritto.

 

La formazione dell’Europa unita ci aiuterà, dunque, prima a comprendere che il nostro patrimonio culturale è non solo italiano, francese o spagnolo, ma anche europeo. Ci aiuterà in seguito ad arricchire questo patrimonio con mezzi nuovi e pacifici.

 

Conclusione

 

Su molti dei grandi temi che animano la storia politica, economica e culturale del XX secolo, l’avventura europea ha dunque valorizzato per noi certi aspetti che hanno arricchito il nostro pensiero e la nostra storia. Questo insegnamento si produce tanto dai successi che dall’incompletezza dell’opera intrapresa. L’incompletezza rende precario ciò che è già stato costruito. Ma ciò che è già stato costruito costituisce un’opera tanto grande che rischia di far dimenticare ciò che resta da compiere.

 

Nel 1914, il continente europeo aveva conosciuto cento anni di pace interrotta solamente da dei conflitti limitati che non sfociarono in alcuna conflagrazione generale, esso sembrava unito. Si circolava senza passaporto, e il regime del gold standard realizzava di fatto un’unione monetaria.

 

Le persone della mia età pensavano allora che l’era delle guerre fosse finita, come lo pensano oggi numerosi di coloro che hanno circa trent’anni. Chi ha visto, anche nella sua tenera infanzia, le case sventrate dai bombardamenti e i sodati tedeschi o americani nelle strade, sa che niente è mai acquisito.

 

L’unione Europea è un’opera incompiuta. E il più grande rischio che essa corre è quello per cui le nuove generazioni non ne siano coscienti. Conviene, dunque, nel mostrare ai giovani il lungo cammino compiuto in cinquant’anni, sottolineare questo stasto d’incompiutezza e indicare ciò che resta da compiere. Per evitare un nuovo 1914; il risveglio sarebbe amaro.

 

 

TOMMASO PADOA-SCHIOPPA

 

 

Fonte: visto su ARS del 5 ottobre 2014

Link: http://www.riconquistarelasovranita.it/storia/tommaso-padoa-schioppa-e-gli-insegnamenti-dellavventura-europea-1999

 

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