Ott 13 2009

La guerra di Crimea

Category: Italia storia e dintornigiorgio @ 09:03

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RISORGIMENTO.   L’ALTRA VERITA’

Cavour si inventò di partecipare al conflitto che, opponendo Russia e Turchia, si stava scatenando per il controllo della Crimea, una penisola di qualche decina di chilometri quadrati che la maggior parte degli occidentali  faceva fatica a collocare geograficamente e che, del resto, non conosceva. Peraltro – anche ai giorni nostri – dove si trova  esattamente  Herat o Falluja?

Quel contenzioso era uno dei tanti che si dipanavano nell’Ottocento e che poi, in un modo o nell’altro, trovava una soluzione se non proprio accettabile,  sufficiente almeno per smetterla di tirarsi schioppettate e tirare avanti pacificamente per qualche tempo.

Quella volta diventò una “guerra mondiale”   che mise a soqquadro le diplomazie e i Governi di un intero continente.

SCONTRO DECISO DALLLA MINORANZA

Gli storici hanno a lungo  riflettuto sulla questione  per concludere  che non  sono affatto  evidenti le cause  di un   allargamento  così  generalizzato del conflitto.

Perché  una bega di piccole dimensioni coinvolse Francia e Inghilterra?  E che senso aveva massacrare, migliaia di soldati,  portati  in una plaga desolata che non interessava nessuno? L’episodio più famoso di quel conflitto fu la carica della cavalleria britannica contro le postazioni dell’artiglieria russa di Balaclava: un assalto eroico per la poesia che scrisse Tennyson e per il film che venne girato  dagli americani.  Dal punto di vista della strategia militare,  quell’ azione  era quanto di più sconclusionato si potesse immaginare.  E, infatti, venne originata da un malinteso attribuito al colonnello Raglan che, come ufficiale,  valeva poco e – non a caso – lasciò traccia soltanto nella storia della moda maschile per via dei soprabiti che si faceva tagliare su misura.

I mazziniani  protestarono, facendo notare che sia lo zar che il sultano  erano monarchi assolutisti e contro le nazionalità

Il Piemonte?  Entrò in guerra  perché  lo decise una minuscola minoranza della piccola intellighentia che governava Torino.   Difficile per i politici di allora sostenere che si trattava di offrire un contributo per la giusta  causa.  La  Russia e la Turchia che si  affrontavano l’una contro l’altra,  agli occhi  dei patrioti di casa nostra  rappresentavano  dei  regimi  ugualmente assolutisti e oppressori delle  nazionalità.  In un primo momento, sembrava che  l’Austria dovesse  schierarsi a fianco della Russia e questo consentiva di individuare nell’amico del nemico il vero obiettivo da combattere.  I democratici mazziniani protestavano comunque perché  ricordavano che molti di  loro – a cominciare da Santorre di Santarosa, esule dopo i moti carbonari esplosi a Torino nel 1821 – erano morti in guerra proprio contro i turchi, combattendo a favore dell’indipendenza della Grecia. Scegliere di allearsi con i massacratori dei loro compagni sembrava un atto irriguardoso. La situazione si complicò ancor di più quando l’Austria  si risolse di non scendere in campo con la Russia e dichiarò di far parte del blocco – diciamo così –  “occidentale”,  creando ai pochi piemontesi che volevano andare in guerra un nuovo e imprevisto problema.  Si stava con la Turchia e con l’Austria: perché mai?

QUINDlCIMILA BERSAGLIERI

Mandarono 15mila bersaglieri al comando del generale Alfonso La Marmora e quasi duemila non tornarono più a casa. Fatte le debite proporzioni, sarebbe come se adesso al fronte in qualche parte del mondo poco conosciuto, venissero inviati 300mila uomini e che di loro, 40mila non facessero più ritorno.

La guerra in Crimea fu insensata e bizzarra.  Quando gli inglesi sbarcarono sulla punta della penisola, sotto Sebastopoli erano attesi da una quantità di commercianti che avevano costruito delle baracche da destinare a negozi.  Si poteva trovare di tutto: tabacco  stoffa alimentari, sapone.  Anche cani, gatti e ratti morti per terra.  Le donne turche giravano velate e questo incuriosiva i soldati.  I  cambiavalute erano in grado di trattare qualunque tipo di moneta.  Per sei scellini  era assicurata una sbornia di birra.  La sifilide costava meno: con uno scellino, offerto a una prostituta di laggiù, arrivava di  sicuro.

Quando cominciò la campagna, in quella plaga del Medio Oriente, sembrava una scampagnata ma, presto, si trasformò in una tragedia di sofferenze.  La flotta alleata bombardò Kamchaka ma il risultato fu così scarso che l’ammiraglio si suicidò per la vergogna.  A Inkerman morirono 12mila russi e 4mila fra francesi e inglesi.  L’inverno, poi, fu spietato perché il vento distrusse 26 navi e seminò malattie fra la truppa che si trovò decimata dalle infezioni.   I soldati non erano equipaggiati convenientemente e,  con abiti troppo leggeri, dovettero affrontare temperature rigidissime.

Napoleone III mandò ai suoi uomini 4mila corazze di metallo che dovettero essere nascoste agli inglesi per evitare di essere presi in giro per quella trovata rococò.  I russi, fra loro,  parlavano sei lingue e difficilmente si capivano. Tentarono di accecare i nemici con un incendio e si trovarono accecati perché il vento aveva cambiato direzione, soffiando loro contro.

Lord Raglan affidò la responsabilità delle ricognizioni sul terreno a un generale miope perché, altrimenti, non avrebbe saputo come utilizzarlo. Il generale Mensikov si trovò sulla traiettoria di una palla di cannone  che lo lasciò in vita ma gli portò via gli attributi,  castrandolo.  Un uragano spazzò via tutto e fece così freddo che gli uomini, riparati da  semplici tende, senza pastrani invernali e con protezioni approssimative, perdevano le dita delle mani e dei piedi che si congelavano. Morivano di cancrena, implorando di essere ammazzati dai commilitoni per non patire più

TERRIBILI  EPIDEMIE

Il tifo ammazzò una quantità di francesi con percentuali del 250 per cento più alte della media. Il colera invece massacrò i bersaglieri di La Marmora.  Non ci furono battaglie e lo spazio per la gloria fu davvero scarso.  Alla fine Sebastopoli capitolò e Parigi  per discutere le questioni rimaste aperte e decidere come risolverle, invitò i vincitori offrendo un tavolo per le trattative.

Per la verità, sarebbe meglio parlare di  “tavoli”, al plurale,  che si apparecchiavano di giorno e rimanevano imbanditi tutta la notte. «Noi – confessò il generale Damremont – cerchiamo di trattare bene i nostri ospiti ma ciò che mi sorprende è la loro resistenza alle battaglie con le forchette e le bottiglie».  Anche il Piemonte aveva conquistato la sua seggiola e sembrò una trovata geniale.  I libri di scuola la raccontano così:  «Che Cavour ebbe l’opportunità di porre il problema dell’Italia sotto il giogo dello stranièro austriaco».  Il sacrificio di mezzo esercito, 1.500 famiglie di vedove e di orfani per un discorso!

Oggi sarebbe – meno male  –   impraticabile, ma com’era possibile allora?   E com’è possibile  che con tanta superficialità si faccia passare per azione eroica una speculazione politica di infimo conio?  Perché, altrimenti,  giudicare diversamente Mussolini che, con le stesse motivazioni  di Cavour,  scelse di mandare a morire «qualche migliaio di uomini per potersi sedere da vincitore al tavolo della pace»?

LE MISSIONI INTERNAZIONALI

Il  Piemonte stava diventando Italia che, da allora, non perse occasione per impicciarsi dei fatti degli altri, sempre improvvisando, all’ultimo minuto, senza adeguata preparazione, dando l’impressione che lo scopo ultimo non fosse fare, ma apparire.

Nel 1982, i bersaglieri partiti in nave per raggiungere il Libano e integrare una forza multinazionale di pace, restarono bloccati in mezzo al mare perché i motori dell’ammiraglia “Grado” fecero i capricci e non ne vollero sapere di continuare a girare.  Contro l’Iraq, nel corso della prima “Guerra del Golfo” (quella per la liberazione del Kuwait) schierammo i nostri “Tornado” ma solo un equipaggio riuscì a fare rifornimento in volo e raggiungere la zona delle operazioni militari. Sfortunatamente, quell’unico nostro aereo fu abbattuto dalle contraeree nemiche segnalando, nelle statistiche, il 100 per cento di insuccesso che rappresenta, un record difficilmente raggiungibile. Qualcuno si ricorderà il filmato registrato del “nostro”  Cocciolone che, davanti alla telecamera, dichiarava che « i suoi leader» l’avevano mandato all’assalto.

Intervenimmo anche, in Albania, nel 1997, e la “Vittorio Veneto”si incagliò nella rada di Valona. Un monumento alto come un palazzo, appena – appena inclinato verso sinistra, immobile, nella sabbia che l’aveva intrappolata e che le impediva di muoversi sia per andare avanti sia per rinculare indietro.

E quando l’Occidente decise che si doveva fermare Milosevic, bombardando Belgrado – fra chi sosteneva la necessità  di partecipare di corsa e chi avrebbe preferito evitare di immischiarsi – fummo presenti ma senza dirlo troppo forte, annunciando (e mentendo) che avevamo compiti di ricognizione ma che si poteva sparare se attaccati.  Quando? E da chi?

Fu una partecipazione alla guerra  decisa quando alla  Presidenza del Consiglio sedeva Massimo D’Alema che non disponeva, autonomamente, della maggioranza in Parlamento ma a che ottenne l’okay con i voti dell’opposizione.  Decisione tribolata. Il giorno dell’inizio dell’attacco – 25 marzo 1999 –  il leader dei Comunisti Unitari, Armando Cossutta, dichiarò che i ministri del suo partito (Katia Belillo e Oliviero Diliberto) sarebbero usciti dal Governo per protesta. Nel frattempo il sottosegretario alla presidenza, Marco Minniti, precisò che gli aerei stavano «semplicemente volando» sulle operazioni di guerra.  E il ministro della difesa, Carlo Scognamiglio, affermò che non era escluso l’utilizzo degli F-16 tricolori nel conflitto.

Cossutta, parte fondamentale della coalizione di Governo che decise la guerra, andò in missione a Belgrado per mettere le mani avanti e sostenere che, lui, non era d’accordo.  I suoi uomini, nell’esecutivo, vestirono i pani dei ministri di lotta e di governo: marciarono per la pace fra Perugia e Assisi, ma rimasero nella compagine di maggioranza, promettendo e minacciando sfracelli da rimandare sempre all’opportunità più propizia.  Tanto che il capogruppo del Ccd, Marco Follini, commentò che quelle dichiarazioni dovevano essere intese come il “penultimatum”.   Per la cronaca: adesso Follini non è più  nel Ccd e nemmeno nella coalizione dove c’era il Ccd.  Follini ha lasciato i vecchi amici scegliendo 1’Ulivo di Prodi mentre il Ccd si è collocato al centro dello schieramento politico – ne di qua e un po’ di là –  con l’ambizione che questa sua “terza forza” si trasformi nella prima.

I GUADAGNI DELLA MALAVITA

A conflitto ultimato, la missione “arcobaleno” che doveva portare aiuto alle vittime della guerra si risolse in un assalto di ladri – documentato dalle telecamere del  Gabibbo – che rubarono quello che riuscirono a trovare e devastarono tutto il resto.  I container con pasta, carne congelata, scatole di cibo, depredati dai briganti albanesi, finirono sui banco chi del mercato nero per  far guadagnare la gente  di malaffare.  Gli abiti, la stoffa, i vestiti e i  “generi di conforto”  assicurarono  ai capi banda il ricambio della biancheria  e qualche “ taglio”  raffinato per giacche da indossare nei giorni di festa.  La Procura della Repubblica apri un’inchiesta per tentare di capire come fosse possibile tanta disorganizzazione ma, non riuscendo a venirne a capo, dovette archiviare la pratica.

Infine la “seconda guerra del Golfo” contro  Saddam Hussein alla quale l’Italia partecipò alla chiusura del conflitto nel contingente di pace.  Le strade si popolarono di decine di migliaia di bandiere arcobaleno che vennero lasciate sventolare sui balconi delle case, appese alle finestre, in mostra negli uffici, esposte nei negozi.  A quella moltitudine davvero imponente, sembrava che entrare in Iraq fosse aberrante.  Sostenevano che operazione veniva presentata come se si trattasse di un’iniziative di pace quando, in realtà, si trattava di un’invasione di stampo coloniale.  Chissà, fra quella gente, quanti insegnanti di storia, in quelli stessi  giorni, descrivevano ai loro allievi la genialità di Cavour che, accettando di mandare soldati in Crimea, aveva potuto conseguire un risultato politico a 18 carati.

Il Piemonte era diventato Italia.

(8 – Continua)

Fonte: srs di Lorenzo Del Bocca; da La Padania di martedì  06 ottobre  2009,  pag. 10 – 11.

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