Feb 28 2013

CARI VENETI, DOMANI È TEMPO DI FESTEGGIARE IL CAPODANNO

capodanoveneto 1 marzo

 

Il primo marzo è sempre stato considerato nella storia della Repubblica Veneta il capodanno veneto;  nei documenti e nei libri di storia si trovano le date relative ai mesi di gennaio e febbraio seguite da “more veneto” per sottolineare questa peculiarità veneta: incominciando l’anno veneto il primo di marzo, gennaio e febbraio erano gli ultimi mesi dell’anno passato (si veda, come esempio, la data del comunicato).

Il capodanno veneto originariamente era stato fissato al 25 marzo, giorno della fondazione di Venezia (421),  per i credenti giorno dell’annunciazione del Signore,  e, secondo una leggenda greca, giorno della creazione del mondo; in un secondo tempo fu anticipato al primo marzo per comodità di calcolo. Emblematico quanto successe il 9 marzo 1510 nel luogo ove adesso sorge il Santuario della Madonna dei Miracoli a Motta di Livenza (Tv), la Madonna apparve a un contadino del posto e gli disse “Bon dì e bon ano!”

Un altro tassello della nostra storia e della nostra identità che è andato perso e del quale dobbiamo riappropriarci, anche per onorare il Serenissimo Bepin Segato che più di ogni altro si era impegnato per riproporre questa festa.

Recentemente  è stato festeggiato in diverse città venete  il capodanno cinese (è l’anno del serpente); l’ 11 febbraio gli amici tibetani hanno festeggiato il loro capodanno (Losar) e per tutti noi è stato un momento per ribadire la nostra solidarietà alla  nazione del Tibet  vergognosamente calpestata dalla Cina;  non parliamo poi delle ricorrenze e delle celebrazioni  di altri popoli, di altre religioni  (si pensi solo al Ramadan).

E allora un bel “Viva San Marco”  per festeggiare l’arrivo del nuovo anno veneto.

 

 

Fonte: srs di di ETTORE BEGGIATO, da L’indipendenza del 28 febbraio 2013

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Feb 25 2013

AUTONOMISTI E INDIPENDENTISTI: SEMBRANO COME I LEMMINGS SUICIDI

 

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Quello che sta succedendo in queste settimane preelettorali al mondo autonomista e indipendentista ricorda molto da vicino le migrazioni e i suicidi di massa dei lemmings.  I commenti che compaiono sul nostro giornale ne sono il drammatico specchio.

Qualsiasi cosa si pensi, si scriva o si tenti viene impallinata da un fuoco concentrico di critiche, insulti e illazioni.  È  raro vedere commenti assennati, pacati e argomentati:  spesso  sono prese di posizione  “a prescindere”,  schieramenti da tifoseria calcistica, stroncature astiose, sfoghi di rancori personali, di disillusioni giustificate che si trasformano in vernice corrosiva. Proposte e controproposte sono rare, tentativi di analisi e progetti di soluzioni rarissimi.

 

Così una intera cultura, una raccolta di pensiero e di speranze, i sogni di cambiamento e di libertà finiscono per frantumarsi in una rissa del tutti contro tutti. Questo vale per chi si inventa sigle e per i partitini che anche esistono, ma la follia  sembra coinvolgere anche chi ha posizioni importanti, responsabilità e funzioni che hanno riflessi sull’opinione pubblica e sulla vita politica.

 

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Feb 24 2013

TRIESTE LIBERA: MINACCE DI ARRESTO A CHI SI DICHIARA CITTADINO DEL TLT (TERRITORIO LIBERO TRIESTE)

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In questi giorni sta circolando una notizia sulle nuove disposizioni che le forze dell’ordine italiane avrebbero ricevuto per “trattare” i cittadini di Trieste che dichiarano la propria cittadinanza esibendo quale documento di riconoscimento la carta di identità del Territorio Libero.

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La carta di identità in questione è rilasciata dal Movimento Trieste Libera, che si batte per il rispetto della legalità e per il riconoscimento dello status giuridico di Trieste quale Zona A del Territorio Libero di Trieste dichiarata dall’articolo 21 comma 2 del Trattato di Pace del 1947 tuttora in vigore. L’Italia ha imposto invece una propria illegittima sovranità di fatto su Trieste dopo essersela annessa nel 1975 a seguito di un accordo (Trattato di Osimo) con l’ex dittatura Jugoslava del maresciallo Tito. Una annessione con la quale  i cittadini di Trieste sono stati brutalmente spogliati dei loro diritti, a  partire da quello fondamentale della loro cittadinanza. Una annessione con la quale l’Italia ha voluto così “regolarizzare” una situazione di effettiva occupazione che durava dal 1954.

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Ott 16 2012

SE L’ITALIA SI REGGE SUL SANGUE VERSATO, LA PADANIA SIA GIOIA DI VIVERE

Category: Autonomie Indipendenze,Padania e dintornigiorgio @ 00:13

La manifestazione indipendentista padana del 15 settembre 1996

Chiunque di noi sia a favore della secessione della Padania o anche solo di un sua parte si è sentito ripetere più e più volte con aria sbigottita ed offesa “ma non sai quante persone sono morte per fare l’Italia?”

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Ott 15 2012

ECCO, REGIONE PER REGIONE, CHI È A FAVORE DELL’INDIPENDENZA

Percentuale di cittadini favorevoli all’indipendenza della propria regione dall’Italia

 

Percentuale di favorevoli all’indipendenza

 

%

 

Valdaosta                   N.D.

 

Veneto                        50%

 

Trentino-SudTirolo   49%

 

Lombardia                 45%

 

Friuli-Trieste              43%

 

Piemonte                    37%

 

Emilia-Romagna        36%

 

Liguria                        34%

 

Marche                       27%

 

Toscana                      25%

 

Sicilia                          25%

 

Sardegna                    25%

 

Umbria                       21%

 

Calabria                      18%

 

Molise                         17%

 

Campania                   17%

 

Lazio                           16%

 

Abruzzo                      16%

 

Basilicata                    15%

 

Puglia                         12

 

 

PADANIA                                                       42,6%

 

ETRURIA (Toscana, Umbria, Marche)       24,%

 

MERIDIONE (Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria)               15,5%

 

ITALIA                       30%

 

 

Fonte: da L’Indipendenza del  5 ottobre 2012

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Nov 27 2009

Io, studente leghista. 
Perché mi vergogno dell’Unità d’Italia

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Caro professor Galli della Loggia, 
sono uno studente universitario di 24 anni con una certa passione per la storia. Sono un leghista, abbastanza convinto. E lo confesso: se faccio un bilancio, certamente sommario, dall’Unità nazionale ad oggi, le cose per cui vergognarmi mi sembrano maggiori rispetto a quelle di cui essere fiero.

Penso al Risorgimento, alla massoneria e al disegno di conquista dei Savoia, rifletto sul fatto che nel Mezzogiorno fu­rono inviate truppe per decenni per seda­re le rivolte e credo che queste cose abbiano più il sapore della conquista che della liberazione. E penso, ancora, al referendum falsato per l’annessione del Veneto e al trasformismo delle elite politiche post-risorgimentali. E poi il fascismo, con la sua artificiosa ricostruzione di una romanità perduta e imposta a un popolo eterogeneo e diviso per 1500 anni che della «romanità classica » conservava ben poco: la costruzione di una «religione politica» forzata al posto di una «religione civile» come invece avvenne in Francia con la Rivoluzione, che fu davvero l’evento fondante di un popolo. In Italia l’unica cosa «fondante» potrebbe essere stata la Resistenza: ma anche lì, a guardare bene, c’era una Linea gotica a dividere chi la guerra civile l’aveva in casa da chi era già in qualche maniera libero.

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Perché mi vergogno dell’Unità d’Italia”


Giu 22 2009

VERONA: ELENCO DEI CADUTI NELLA CITTÀ, PROVINCIA E DIOCESI DI VERONA DURANTE LE PASQUE VERONESI E L’OCCUPAZIONE FRANCESE (29 MAGGIO 1796 – 21 GENNAIO 1798)

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ELENCO DEI CADUTI NELLA CITTÀ, PROVINCIA E DIOCESI DI VERONA DURANTE L’OCCUPAZIONE FRANCESE (29 MAGGIO 1796 – 21 GENNAIO 1798)

MAGGIO 1796

1. CERNINI Pietro di anni 65 il 29 maggio a Incanal. US1, 307, c. 209.

2. FRANCESCHINI Bortolo di a. 40 il 29 luglio a Incanal. US, 307, c. 209.

GIUGNO 1796

1. MANCINI Angelo di a. 67 il 1° giugno a Calmasino. US, 307, c. 91; AP2, “est interfectus a Gallis” [venne ucciso dai francesi].

2. BODIN Francesco di anni 70 il 2 giugno a Valeggio. US, 307, c. 461.

3. AMICABILE Giovanni di anni 32 il 3 giugno a Valeggio. US, 307, c. 461.

4. BASSON Sebastiano di anni 36 il 3 giugno a Valeggio.US, 307, c. 461.

5. BODIN Giacoma di anni 32 il 6 giugno a Valeggio.US, 307, c. 461.

6. TORTELLA Paolo di anni 40 il 6 giugno a Bussolengo. AP. US, 307, c. 78 “per punta”.

7. BENDA Luigi di a. 30 il 7 giugno a Villafranca “morì ferito per una archibuggiata”. US, 307, c. 480.

8. ZAMBONI Giuseppe di anni 35 il 13 giugno a Bussolengo. US, 307, c.78; AP.

1 Legenda: US, ovvero Ufficio Sanità del Comune di Verona, Registro dei morti del Territorio, n. 307, a. 1796; Ufficio Sanità del Comune di Verona, Registro dei morti del Territorio, n. 308, a. 1797; Ufficio Sanità del Comune di Verona, Registro dei morti della Città, n. 87, a. 1796; Ufficio Sanità del Comune di Verona,

Registro dei morti della Città, n. 88, a. 1797, in Archivio di Stato di Verona; SHAT, Service Historique de l’Armée de Terre, Castello di Vincennes, Paris. 2 AP, ovvero Archivio Parrocchiale.

9. PELANDA Giulio di a. 60 ca. il 16 giugno a Brentino “ucciso da schioppo”, US, 307, c. 69; US, 307 sotto località Rivalta: “morì ferito da un soldato austriaco”, c. 379.

10.LORENZI Benvenuta di a. 20 il 20 giugno a Ferrara di Monte Baldo, “precipitata da uno scoglio in occasion d’armata”, US, 307, c. 187.

11.PASETTO Maria di anni 24 il 20 giugno a Roncà. US, 307, c. 386.

12.ZIVELONGHI Antonio di a. 40 il 22 giugno a Breonio. Reg. il 24.6.1796, US, 307, c. 73: “per essere stato ucciso da soldati”. AP, “occisus in agro” [ucciso in un campo].

13.GARAVIN Andrea di anni 57 il 23 giugno a Nogarole Rocca, “in campo occisus”. AP; US, 307: “fu ucciso l’altro giorno in un campo”, c. 305.

14.GREGORI Domenico di anni 26 (giugno?) a Villafontana.

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Giu 21 2009

Verona: per la prima volta, dal 1997, non suffragate le anime dei Martiri delle Pasque Veronesi. Non vi è pietà nemmeno per i morti

Comitato per la celebrazione delle PASQUE VERONESI

(17-25 aprile 1797)

Via L. Montano, 1 – 37131 VERONA

Tel. 329/0274315 – 347/3603084

www.traditio.it – E-mail: pasqueveronesi@libero.it

COMUNICATO STAMPA

Dopo la strumentale incursione a Porta Nuova di un gruppo di amministratori di AN (con giornalisti e fotografi al seguito) per pretendere il tricolore alla Messa per i caduti contro Napoleone

Per la prima volta, il 18 giugno di quest’anno, anniversario delle fucilazioni dei patrioti veronesi caduti contro Napoleone, non è stato possibile celebrare la Santa Messa latina antica per i Martiri delle Pasque Veronesi a Porta Nuova, per la pretesa di un gruppo di amministratori di AN d’issare il tricolore anche durante la funzione religiosa di suffragio.

Le Pasque Veronesi furono l’insurrezione della città di Verona e del contado contro Napoleone e i rivoluzionari francesi (17-25 aprile 1797). I tradizionalisti cattolici sono stati costretti a rinunziare al Sacro Rito per l’imposizione a officiare la Santa Messa, non con le tradizionali bandiere per cui combatterono i patrioti veronesi e per le quali bagnarono quel suolo del loro sangue, bandiere che sono quelle della Serenissima, della città di Verona e del Sacro Romano Impero (i soldati austriaci che militarono assieme agl’insorti contro i francesi), bensì con il vessillo tricoloruto che rappresenta i collaborazionisti di Bonaparte, i giacobini e, poi, il Risorgimento liberal-massonico che perseguitò la Chiesa, dissacrò tradizioni millenarie d’Italia e ridusse le nostre cento capitali a provinciali “schiave” della Roma centralista, burocratica e neogiacobina. Sostituendo l’autentica Patria rappresentata da millenari Stati tradizionali e cattolici con un’altra artificiale, inventata da carbonari, massoni e dai loro eredi modernisti e social-comunisti, cui non riesce tuttora di legittimarsi.

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Mar 26 2009

Discorso di Critognato

Category: Autonomie Indipendenze,Cultura e dintornigiorgio @ 08:16

Giulio Cesare: Discorso di Critognato –

l discorso di Critognato durante l’assedio di Alesia è l’unico riportato in forma diretta nel De bello Gallico: davvero una singolare eccezione da parte di Cesare nei confronti dello spregiudicato capo arverno, che alla fine del suo discorso giungerà a proporre il cannibalismo come estremo mezzo di resistenza.

(77)     At ii qui Alesiae obsidebantur praeterita die qua  auxilia suorum exspectaverant, consumpto omni frumento, inscii quid in Haeduis gereretur, concilio coacto  de exitu suarum fortunarum consultabant ac variis dictis  sententiis quarum pars deditionem, pars dum vires suppeterent eruptionem censebat, non praetereunda videtur oratio Critognati propter eius singularem ac nefariam  crudelitatem. Hic summo in Arvernis ortus loco et magnae  habitus auctoritatis ‘nihil’ inquit ‘de eorum sententia  dicturus sum, qui turpissimam servitutem deditionis nomine appellant, neque hos habendos civium loco neque  ad concilium adhibendos censeo. Cum his mihi res sit, qui  eruptionem probant. Quorum in consilio omnium vestrum  consensu pristinae residere virtutis memoria videtur,  animi est ista mollitia, non virtus, paulisper inopiam ferre  non posse. Qui se ultro morti offerant facilius reperiuntur  quam qui dolorem patienter ferant. Atque ego hanc sententiam probarem – tantum apud me dignitas potest -,  si nullam praeterquam vitae nostrae iacturam fieri viderem; sed in consilio capiendo omnem Galliam respiciamus,  quam ad nostrum auxilium concitavimus: quid hominum  milibus LXXX uno loco interfectis propinquis consanguineisque nostris animi fore existimatis, si paene in ipsis cadaveribus proelio decertare cogentur? nolite hos vestro  auxilio exspoliare qui vestrae salutis causa suum periculum neglexerunt, nec stultitia ac temeritate vestra aut  animi imbecillitate omnem Galliam prosternere et perpetuae servituti addicere. An quod ad diem non venerunt,  de eorum fide constantiaque dubitatis? quid ergo? Romanos in illis ulterioribus munitionibus animine causa cotidie exerceri putatis? si illorum nuntiis confirmari non  potestis omni aditu praesaepto, his utimini testibus adpropinquare eorum adventum, cuius rei timore exterriti  diem noctemque in opere versantur. Quid ergo mei consilii est? facere quod nostri maiores nequaquam pari bello Cimbrorum Teutonumque fecerunt: qui in oppida compulsi ac simili inopia subacti eorum corporibus, qui aetate  ad bellum inutiles videbantur, vitam toleraverunt neque  se hostibus tradiderunt. Cuius rei si exemplum non haberemus, tamen libertatis causa institui et posteris prodi  pulcherrimum iudicarem. Nam quid illi simile bello fuit?  depopulata Gallia Cimbri magnaque inlata calamitate  finibus quidem nostris aliquando excesserunt atque alias  terras petierunt; iura, leges, agros, libertatem nobis reliquerunt. Romani vero quid petunt aliud aut quid volunt  nisi invidia adducti quos fama nobiles potentesque bello  cognoverunt, horum in agris civitatibusque considere  atque his aeternam iniungere servitutem? neque enim  umquam alia condicione bella gesserunt. Quodsi ea quae in longinquis nationibus geruntur ignoratis, respicite finitimam Galliam, quae in provinciam redacta, iure et legibus commutatis, securibus subiecta perpetua premitur  servitute.’

(78)     Sententiis dictis constituunt ut ii, qui valetudine  aut aetate inutiles sint bello, oppido excedant atque omnia prius experiantur quam ad Critognati sententiam descendant; illo tamen potius utendum consilio, si res  cogat atque auxilia morentur quam aut deditionis aut  pacis subeundam condicionem. Mandubii qui eos oppido  receperant, cum liberis atque uxoribus exire coguntur. Hi cum ad munitiones Romanorum accessissent, flentes  omnibus precibus orabant ut se in servitutem receptos  cibo iuvarent. At Caesar dispositis in vallo custodiis recipi  prohibebat.

(77) Ora quelli che erano assediati dentro Alesia, passato il giorno nel quale aspettavano i rinforzi, consumato tutto il frumento, ignari di ciò che accadeva in quel degli Edui, adunarono il consiglio per deliberare sulla situazione. Vari furono i pareri; chi proponeva la resa, chi consigliava, fin che le forze bastavano, una sortita. Ma tra gli altri discorsi, non  mi sembra di dover tacere quello di Critognàto in grazia della sua singolare e spaventosa atrocità. Costui, che era un arverno di grande famiglia e di alto prestigio:

“Nulla dirò” disse “circa la proposta di coloro che dànno il nome di resa alla più turpe schiavitù; non li considero neppure cittadini e non voglio neppure ascoltarne il parere. Io parlo soltanto a coloro che vogliono una sortita, perché nella loro proposta mi sembra, e certo vi consentite voi tutti, che sia ancor vivo il ricordo dell’antico valore. Mollezza d’animo è, non valore, il non saper sopportare un poco di carestia. E’ più facile trovare chi si voti alla morte, che non chi sia pronto a sopportare il dolore. Ed io potrei anche accettare la sortita, tanto è il mio senso dell’onore, se non vedessi in pericolo nient’altro che la nostra vita. Ma prima di deliberare, noi dobbiamo volger lo sguardo a tutta la Gallia, che abbiamo sollevato per recarci aiuto. Pensate: che animo sarà quello dei nostri congiunti, dei nostri consanguinei, se, dopo il massacro di ottantamila uomini dentro a questa piazza, essi saranno costretti a combattere, si può dire, sopra i nostri cadaveri? Ah, non vogliate privar del vostro aiuto chi ha obliato il proprio rischio per la vostra salvezza; non vogliate, per la vostra stoltezza, per la vostra temerità, per la vostra debolezza d’animo gettare a terra tutta la Gallia e consegnarla a un eterno servaggio. Perché non son giunti proprio nel giorno fissato, dubitate dunque della loro fede e della loro costanza? E che? Credete forse che i Romani lavorino senza posa, quotidianamente, alle fortificazioni esterne, così, per passatempo? Se non potete averne la sicurezza dai loro messaggi, perché è chiuso ogni passo, vi provi il comportamento dei Romani che il loro arrivo è vicino; dei Romani, che vinti dal terrore di questo arrivo, lavorano febbrilmente e giorno e notte. Qual è dunque il mio parere? Fare quello che i nostri antichi fecero nella guerra, ben meno grave di questa, dei Cimbri e dei Teùtoni. Essi, ricacciati nelle loro fortezze, e torturati da una carestia come questa, si sostentarono con le carni di coloro che l’età rendeva inabili alla guerra, e non si consegnarono ai nemici.  E se già non ne avessimo l’esempio, io proporrei di darlo qui la prima volta per amore della libertà, e di tramandarlo come stupendo ai posteri. Perché, che cos’ebbe quella guerra di comune con questa? I Cimbri, devastata la Gallia e copertala di sciagure, pur una buona volta uscirono dal nostro paese e cercarono altre terre; diritti, leggi, terreni, libertà, tutto essi ci lasciarono. Ma i Romani, gelosi di tutti coloro di cui conoscono la nobile fama e la potenza guerriera, che altro chiedono o vogliono, se non stabilirsi nelle loro campagne e nelle loro città ed infliggere loro un eterno servaggio? Nessuna guerra con altro scopo essi fecero mai. Che se voi ignorate ciò ch’essi fanno in lontani paesi, guardate la Gallia a noi vicina, che, ridotta a provincia, privata dei suoi diritti e delle sue leggi, soggetta alle scuri, si trova oppressa da una servitù senza fine”.

(78) Finita la discussione, fu deciso che coloro che per salute o per età erano inabili alla guerra uscissero dalla fortezza, e che tutto si tentasse prima di giungere fino a seguire la proposta di Critognàto; nondimeno, si sarebbe ricorso anche a questo, se la necessità lo imponesse e tardassero gli aiuti, piuttosto che trattare la resa o la pace. I Mandùbii, che li avevano accolti nella loro città, vengono costretti ad uscire coi figli e le mogli. Giunti alle difese romane, piangendo, con mille preghiere, supplicavano che li prendessero come schiavi, pur d’aver da mangiare. Ma Cesare, posti corpi di guardia sul vallo, vietò di riceverli.

Fonte: De bello Gallico


Mar 05 2009

Tacito: Discorso di Ponzio

Category: Autonomie Indipendenze,Italia storia e dintornigiorgio @ 21:20

Romani <<crudeli al punto che non si sentono sazi della morte dei colpevoli, della consegna di loro corpi senza vita né di quella che hanno tenuto dietro ai padroni se non offriamo loro il nostro sangue in bevanda, i nostri visceri da dilaniare.>>

Della serie: non è cambiato niente


Feb 23 2009

Quelle lingue in pericolo

L’organo mondiale sbugiarda le norme molto piu’ generiche dello stato italiano

Qui c’è tutto quello che lo Stato italiano nega, smentisce, tiene accuratamente nascosto. E che spesso, in molte prese di posizione pubbliche e sui mezzi di comuni cazione, viene ancora oggi sottovalutato, svilito quando non apertamente irriso. Piemontese, Ligure, Lombardo, Veneto, Emiliano-romagnolo, Gallpitalico siciliano, Napoletano-calabrese, Siciliano sono vere e proprie lingue in pericolo.

A ribadirlo ènienemeno che l’Unesco, nella nuova edizione dell’Atlante on line delle lingue in pericolo, pubblicato venerdì scorso in occasione della Giornata internazionale della lingua madre, celebrata ieri in tutto il.mondo.

Nell’ Atlante  un’opera interattiva e aperta a nuovi contributi, vengono censite – con tanto di classificazione del livello di rischio corso – almeno 2.500 lingue per le quali si avvicina la scomparsa in tutto il Pianeta.

Una vera e coraggiosa denuncia della sofferenza vissuta dalla nostra biodiversità culturale, messa sempre più in pericolo da quella globalizzazione i cui effetti perversi in economia stiamo in questo periodo conoscendo tutti a nostre spese. Collegandosi al sito internet dell’Unesco è così possibile conoscere, Stato per Stato, con tanto di collegamento alla cartina interattiva di Google, la situazione delle lingue a rischio di tutto il mondo.

La “sorpresa”- ma fino ad un certo punto – che riguarda da vicino i popoli che vivono nello Stato italiano è proprio quella dell’enorme disparità tra l’elenco di lingue a rischio riconosciuto dall’Unesco e l’elenco delle lingue riconosciute da Roma, riportate nello specchietto qui sotto.

Una precisazione: in alcuni casi  l’Unesco considera a sé ” diverse varianti di una” stessa lingua considerata invece Unitaria dalla lista della legge italiana.

Per esempio, la Lingua sarda (riconosciuta dallo Stato di fatto come unitaria) viene considerata divisa nelle sue tre componenti tipologiche, oltre naturalmente  all’algherese, comunque tutelato a parte nella 482 come “catalano”.

Le “piccole” minoranze nella legge italiana comunque ci sono, ma è tutto il resto che manca.

L’Italia non tutela il Piemontese, il Veneto, il Lombardo (lo fanno – con diverse profondità di intervento – le rispettive Regioni), e molti altri idiomi locali e regionali che invece, per l’Unesco, sarebbero da salvaguardare

Un brutto colpo per chi, ancora oggi, auspica la cancellazione delle identità linguistiche in base ad una non meglio specificata  ideologia della “cittadinanza_mondiale”, e a questo punto smentita  proprio dalle stesse Nazioni unite.

La lezione che arriva dall’Unesco, e dalla Giornata della Lingua madre appena conclusa è proprio questa: c’è da riflettere e continuare con rinnovato vigore la lotta per il rilancio verso le nuove generazioni di questi veri e propri patrimoni dell’umanità che rischiamo di veder scomparire nel giro di brevissimo tempo. .

UNESCO: LE LINGUE IN PERICOLO DI ESTINZIONE IN ITALIA.

Toitschu, Croato del Molise, Griko del Salento, Griko della Calabria e Gardiol, Occitano, Franco- provenzale, Piemontese, Ligure, Lombardo, Mocheno, Cimbro, Ladino, Sloveno, Friulano, Emiliano-romagnolo, Faetano, Arbereshe, Albanese, Gallo-siciliano, Campidanese, Logudorese, Catalano-algherese, Sassarese e Gallurese, Corso, Walser-Germanico, Veneto, Napoletano-calabrese, Sicilano.

PER LO STATO ITALIANO

legge  482/99 Art. 2

In attuazione dell’articolo 6  della Costituzione e in armonia con i principi generali stabiliti dagli organismi europei e internazionali, la Repubblica tutela la lingua e la cultura. delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e, croate e di quelle parlanti il francese, il francoprovenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo.

Fonta: srs di GIOVANNI POLLI, da la Padania del 22,02,2009


Feb 17 2009

LA CARTA DI CHIVASSO (19-12-1943) – Alle radici della Lega Nord

(Nella eterna speranza che la capiscano anche i giornalisti)

Questo importante documento firmato da autorevoli esponenti della resistenza antifascista piemontese attesta come le idee di identità dei popoli, autonomia e federalismo fossero ben presenti al momento di ricostruire sulle rovine lasciate dal fascismo una società moderna e realmente democratica.

Le notevoli intuizioni storiche in esso contenute ed il bene che ne sarebbe derivato dalla sua applicazione,  sono state invece ignorate sia dal Partito comunista, il cui atteggiamento in materia seguiva la più rigida impostazione accentratrice giacobina e leninista,  sia dalla Democrazia cristiana, fortemente legata agli interessi della burocrazia romana lasciata in eredità dal vecchio regime.

DICHIARAZIONE DEI RAPPRESENTANTI DELLE POPOLAZIONI
ALPINE

Carta redatta a conclusione di un convegno
clandestino tenutosi in  Chivasso il 19-12-1943 e
firmata dai resistenti

Émile Chanoux,   Ernesto Page,
  Gustavo Malan,   Giorgio Peyronel,   M. A. Rollier,
 Osvaldo Coisson,

e nota come:   CARTA DI CHIVASSO.

NOI POPOLAZIONI DELLE VALLI ALPINE

CONSTATANDO che i venti anni di mal governo
livellatore ed accentratore sintetizzati dal motto
brutale e fanfarone di “Roma doma” hanno avuto per le
nostre valli i seguenti dolorosi e significativi
risultati:

a)  OPPRESSIONE POLITICA attraverso l’opera dei suoi
agenti politici ed amministrativi (militi, commissari,
prefetti. federali, insegnanti), piccoli despoti
incuranti ed ignoranti di ogni tradizione locale di
cui furono solerti distruttori;

b)  ROVINA ECONOMICA per la dilapidazione dei loro
patrimoni forestali ed agricoli, per l’interdizione
della emigrazione con la chiusura ermetica delle
frontiere, per l’effettiva mancanza di organizzazione
tecnica e finanziaria dell’agricoltura, mascherata dal
vasto sfoggio di assistenze centrali, per la
incapacità di una moderna organizzazione turistica
rispettosa dei luoghi; condizioni tutte che
determinarono lo spopolamento alpino;

c)  DlSTRUZIONE DELLA CULTURA LOCALE per la
soppressione della lingua fondamentale locale, laddove
esiste, la brutale e goffa trasformazione dei nomi e
delle iscrizioni locali, la chiusura di scuole e di
istituti locali autonomi, patrimonio culturale che è
anche una ricchezza ai fini della emigrazione
temporanea all’estero;

AFFERMANDO

a)  che la libertà di lingua come quella di culto è
condizione essenziale per la salvaguardia della
personalità umana;

b)  che il federalismo è il quadro più adatto a fornire
le garanzie di questo diritto individuale e collettivo
e rappresenta la soluzione del problema delle piccole
nazionalità e la definitiva liquidazione del fenomeno
storico degli irredentismi, garantendo nel futuro
assetto europeo l’avvento di una pace stabile e
duratura;

c) che un regime Federale repubblicano a base
regionale e cantonale è l’unica garanzia contro un
ritorno della dittatura, la quale trovò nello stato
monarchico accentrato italiano lo strumento già pronto
per il proprio predominio sul paese; fedeli allo
spirito migliore del Risorgimento

DICHIARIAMO quanto segue

AUTONOMIE POLITICHE AMMINlSTRATIVE

1)  Nel quadro generale del prossimo stato italiano che
economicamente ed amministrativamente auspichiamo sia
organizzato con criteri federalistici, alle valli
alpine dovrà essere riconosciuto il diritto di
costituirsi in comunità politico-amministrative
autonome sul tipo cantonale;

2)  come tali ad esse dovrà comunque essere assicurato,
quale che sia la loro entità numerica, almeno un posto
nelle assemblee legislative regionali e cantonali;

3)  l’esercizio delle funzioni politiche ed
amministrative locali (compresa quella giudiziaria)
comunali e cantonali, dovrà essere affidato ad
elementi originari del luogo o aventi ivi una
residenza stabile di un determinato numero di anni che
verrà fissato dalle assemblee locali;

AUTONOMIE CULTURALI E SCOLASTICHE

Per la loro posizione geografica di intermediarie tra
diverse culture, per il rispetto delle loro tradizioni
e della loro personalità etnica, e per i vantaggi
derivanti dalla conoscenza di diverse lingue, nelle
valli alpine deve essere pienamente rispettata e
garantita una particolare autonomia culturale
linguistica consistente nel:

1)  diritto di usare la lingua locale, là dove esiste,
accanto a quella italiana, in tutti gli atti pubblici
e nella stampa locale;

2)  diritto all’insegnamento della lingua locale nelle
scuole di ogni ordine e grado con le necessarie
garanzie nei concorsi perché gli insegnanti risultino
idonei a tale insegnamento.

L’insegnamento in genere
sarà sottoposto al controllo o alla direzione di un
consiglio locale;

AUTONOMIE ECONOMICHE

Per facilitare lo sviluppo dell’economia montana e
conseguentemente combattere lo spopolamento delle
vallate alpine, sono necessari:

1)  un comprensivo sistema di tassazione delle
industrie che si trovano nei cantoni alpini
(idroelettriche, minerarie, turistiche, di
trasformazione, ecc.) in modo che una parte dei loro
utili torni alle vallate alpine, e ciò
indipendentemente dal fatto che tali industrie siano o
meno collettivizzate;

2)  un sistema di equa riduzione dei tributi, variabile
da zona a zona, a seconda della ricchezza del terreno
e della prevalenza di agricoltura foreste o
pastorizia;

3)  una razionale e sostanziale riforma agraria
comprendente:

a)  l’unificazione per il buon rendimento dell’azienda,
mediante scambi e compensi di terreni e una
legislazione adeguata della proprietà famigliare
agraria oggi troppo frammentaria;

b)  l’assistenza tecnico-agricola esercitata da
elementi residenti sul luogo ed aventi ad esempio
delle mansioni di insegnamento nelle scuole locali di
cui alcune potranno avere carattere agrario;

c)  il potenziamento da parte delle autorità della vita
economica mediante libere cooperative di produzione e
consumo;

4)  il potenziamento delle industria e
dell’artigianato, affidando all’amministrazione
regionale cantonale, anche in caso di organizzazione
collettivistica, il controllo e l’amministrazione
delle aziende aventi carattere locale;

5)  la dipendenza dall’amministrazione locale delle
opere pubbliche a carattere locale e il controllo di
tutti i servizi e concessioni aventi carattere
pubblico.

Questi principi, noi rappresentanti delle
Valli Alpine vogliamo vedere affermati da parte del
nuovo Stato italiano, così come vogliamo che siano
affermati anche nei confronti di quegli italiani che
sono e potrebbero venire a trovarsi sotto il dominio
politico straniero.

Fonte: Europa al plurale


Feb 17 2009

I popoli sanno sfidare i loro governanti

Category: Autonomie Indipendenze,Società e politicagiorgio @ 08:57

Solo così si puo cambiare davvero il destino di un paese

Un’altra questione deve essere sollevata e discussa: e cioè se il ricorso alla “disobbedienza civile” costituisca una prerogativa da riconoscere a ciascun cittadino, e da esercitare individualmente o in forma collettiva.

Alla prima domanda si deve rispondere affermativamente: ogni persona, in quanto titolare di diritti  naturali indisponibili, è legittimata a partecipare alla “disobbedienza civile”, quando sussistano naturalmente i presupposti più sopra illustrati.

Ma circa l’esercizio di tale prerogativa, sembra evidente che esso debba spettare ad una pluralità consistente di cittadini.

Non credo che per dare vita a una campagna di “disobbedienza civile” sia “necessario creare un movimento o un partito appositi; tuttavia, penso che questo salutare strumento di lotta politica, per essere efficace (al limite: irresistibile) debba radicarsi nelle convinzioni di uno strato abbastanza diffuso della società.

In un determinato momento storico, la ribellione pacifica dei cittadini può cambiare il destino di un Paese soltanto se essa diventa la bandiera di un gruppo che, oltre ad avere dimensioni estese, possegga al suo interno un minimo di organizzazione e quindi esplichi capacità operativa.

Il carattere collettivo di una protesta aggiunge a quest’ultima  un “plusvalore” indispensabile.

E questa considerazione introduce ad un ultimo argomento.

Mi rendo conto che agli occhi delle persone più timorate e amanti dell’ordine (ad ogni costo) la proposta disegnata in queste pagine di una concreta e organica “disobbedienza civile”, possa rappresentare una prospettiva di instabilità e di contestazione delle istituzioni: la premessa ad un “disordine permanente”.

È una impressione profondamente sbagliata.

I popoli liberi e meglio ordinati sono quelli che si permettono ogni tanto di ribellarsi: che non temono di impugnare le decisioni dei loro governanti, ma che tornano poi ogni volta a rifondare, con più solida persuasione, l’ordinamento in cui vivono.

La “disobbedienza civile” è così una sorta di “valvola di scarico”, la quale consente ai cittadini di evitare il pericolo dell’obbedienza per abitudine o pigrizia, e quindi di recuperare una fiducia attiva e convinta nel resto delle istituzioni.

Fonte: srs di Gianfranco Miglio


Feb 17 2009

Il cittadino ha il diritto di ribellarsi

Category: Autonomie Indipendenze,Società e politicagiorgio @ 00:09

Giangranco Miglio spiega i fondamenti teorici dello sciopero fiscale contro i detentori del potere.

La ripulsa degli obblighi fiscali costituisce abitualmente insieme lo scopo e la modalità della “disobbedienza civile”. E non per caso.

L’appartenenza consapevole ad una qualsiasi convivenza civile e politica genera abitual mente l’impegno ad una contribuzione finanziaria (o a prestazioni in natura) finalizzata a remunerare i servizi offerti  dalla convivenza medesi ma ai suoi membri.

A rigore di logica, ogni individuo dovrebbe essere tenuto  a pagare soltanto le prestazioni di cui usufruisce personalmente,  secondo il modello del rapporto, di scambio in trattenuto con tutti gli altri suoi simili e che gli consente di sopravvivere.

Ma già la funzione “pubblica” fondamentale e originaria – che consiste nel garantire il rispetto dei contratti di scambio conclusi (pacta sunt servanda) e la sicurezza dei cittadini e dei loro beni comporta una spesa collettiva per la gestione degli strumenti necessari (magistrati, polizia etc.) coperta con la raccolta di tributi variamente ripartiti e riscossi.

È quasi inutile rammentare che, sulla base di questa primordiale obbligazione – con la crescita della cosiddetta “civiltà materiale”, e quindi con la moltiplicazione dei “bisogni” – si è stratificata una mole imponente di “spese” (e quindi di contribuzioni) la cui dilatazione ha coinciso con il rafforzamento incessante dell’autorità di chi governa: “avere potere” significa, prima di ogni cosa, essere in grado di togliere risorse finanziarie dalle tasche di alcuni cittadini per trasferirle a quelle di altri, o alla disponibilità privata di chi comanda.

E l’investitura politica, con il passare del tempo, è diventata soprattutto, e primariamente, “mandato a tassare”: cioè licenza che i cittadini (inconsapevoli) accordano ai governanti di manipolare i loro redditi, e dunque una ricchezza “privata”, la quale, se accumulata nel rispetto della legge, dovrebbe essere invece intangibile.

È evidente infatti che su quanto una persona guadagna – vivendo in mezzo ai suoi concittadini, scambiando le sue prestazioni con loro e osservando le regole giuridiche del “mercato” – nei concittadini stessi ne i detentori del potere possono vantare alcuna pretesa, fondata sul diritto naturale.

La norma contenuta nell’articolo 53 della Costituzione italiana: “Tutti sono tenuti a concorrere  alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”, non si radica in una regola di diritto (il quale “diritto” è sempre e soltanto una realtà individuale: solo gli individui, infatti, sono soggetti di diritti, e non le collettività)  ma discende da una scelta ideologica assolutamente opinabile).

Secondo ragione quell’articolo dovrebbe recitare:

Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche nella misura in cui  essi fruiscono delle stesse”

Neanche  i principi della “progressività” e della “proporzionalità” dell’imposizione fiscale nascono dalla logica del diritto, ma entrano in Costituzione perchè si fondano su una decisione di maggioranza, e dunque, in sostanza, sulla sopraffazione dei più a danno dei meno; perché nessuno riuscirà mai a dimostrare che ciò che piace a tre persone è “più vero” (o “migliore”) di quanto preferiscono due; e la regola della “maggioranza” riconduce ad una sola presunzione: quella della forza.

Analogo è il caso dei precetti che si vorrebbero derivare da un presunto impegno alla ”’solidarietà”, e cioè a giovare gratuitamente ai propri simili; rispettabile e nobile quanto si vuole, questo non è un dovere fondato sul diritto, ma un obbligo che nasce da una fede religiosa o da un codice etico secolare: valido soltanto per coloro che accettano quella fede o quel codice.

Ciò che manca è un “ponte logico” il quale consenta di passare dal coerente sistema dei diritti individuali ai presunti doveri verso il prossimo.

Non si può infatti pensare di vedere colmato questo vuoto dalla constatazione brutale che, se chi è in grado di guadagnare non rende partecipi della sua fortuna coloro i quali guadagnare non sanno, questi ultimi gli impediranno poi, presto o tardi, di sopravvivere.  Qui stiamo ragionando di diritti, e tutt’al più di diritti violati: non stiamo cercando di legalizzare la violenza.

Certo i detentori del potere, di ogni tempo e di ogni luogo, hanno sempre considerato gli averi dei sudditi (e poi dei cittadini) come pienamente disponibili, collocando i prelievi di ricchezza di gran lunga in prima fila tra gli atti di governo.

La situazione si è recentemente molto aggravata perché la natura, là struttura e la dimensione delle operazioni finanziarie rendono difficilmente percepibili tali “estorsioni”.

È notorio che, per accorgersi di un furto, bisogna avvertire materialmente l’atto dell’asportazione: se di una esportazione i danneggiati non si percepiscono l’effetto entro un certo arco di tempo, è come il se il furto non fosse mai avvenuto.

Esemplare a tale riguardo è l’esperienza che hanno fatto gli italiani .

Le colossali ruberie di denaro pubblico (e in parte più modesta anche privato) ad opera di personaggi e di affaristi politici, costituiscono una gigantesca sottrazione di risorse, perpetrata ai danni dei cittadini di questo paese.

Il fenomeno lo si sospettava (certo non nelle sue reali dimensioni macroscopiche): ma l’opinione pubblica non avvertiva, e non avverte nemmeno ora, l’impoverimento di cui è stata fatta segno.  Di modo che le reazioni sono tutt’al più desolate o ironiche: difficilmente riflettono l’indignazione e l’ira del derubato.

Senza dubbio, quando il prelievo, e soprattutto la sperequazione fiscale (vale a dire la cattiva amministrazione) incidono pesantemente e improvvisamente sul tenore di vita dei cittadini, questi ultimi si ribellano.

Non è un caso se le maggiori rivoluzioni politiche d’Occidente (quella puritana nell’Inghilterra del Seicento, e quella francese del 1789) sono state innescate da  gravi controversie in materia di tassazione.

Del resto tutti sanno che le istituzioni parlamentari – spina dorsale dei moderni regimi politici- sono nate proprio per garantire i cittadini dalla rapacità impositiva dei governanti:  “No taxation without representation!”..

E infatti i primi coaguli di “rappresentanza” si ebbero quando i principi cercarono di sostituire il non eccelso auxilium militare dei non-nobili con una contribuzione finanziaria (per comprarsi più efficienti mercenari).

La legittimazione della classe parlamentare si deformò nel tempo: ma, nella sua accezione originaria, il “mandato di rappresentanza” – che lega i cittadini elettori ai loro “procuratori” (deputati) – fu lo strumento adeguato attraverso il quale i soggetti “tassabili” negoziavano con i detentori del potere la natura e l’estensione delle imposte.  Sulla base dunque di una relazione schiettamente contrattuale.

Soltanto la progressiva trasformazione in senso assolutistico della sovranità (e la crescente arroganza di chi la detiene) hanno condotto a pensare invece l’autorità politica come depositaria della sapienza economica, e arbitra esclusiva della fortuna dei cittadini, ridotti, con le loro risorse e i loro beni, alla totale merce di chi quell’autorità impersona.

Le maggioranze parlamentari di oggi hanno raggiunto, in tema di asservimento fiscale dei cittadini, risultati che i principi assoluti di un tempo non si erano mai sognati.

Chi non appartiene alle, categorie dei privilegiati e dei protetti, è ormai un suddito “taillable et corvéable à merci”.

Il problema, naturalmente, non è di negare a chi comanda il potere di tassare: ma di discutere la struttura e l’incidenza del sistema impositivo e, soprattutto, la legittimità di talune imposte.

Fonte: srs di Rinfranco Miglio /Lo scritto è tratto da Disobbedienza Civile, Oscar Mondadori, 1993


Feb 11 2009

Le fobie – é tutta un’altra storia – di Marco Pirina

Nel 2007 è uscito un libro   “La repubblica mai nata”  che dimostrava   che  nel referendum del 1946 non si fecero votare Istriani, Dalmati e LA MAGGIOR PARTE dei molti aventi diritto delle Venezie, rendendo legalmente nullo il referendum  e illegittima la repubblica italiana stessa , nata dalla negazione del voto di troppi, ben più dello scarto di voti vicenti .

Ma studiando come mai Istriani e Dalmati non furono fatti votare nel 1946 ,  si è  rivisto una storia, e non solo  delle Foibe. ben diversa da quelle ufficiali. Il fatto è che si stanno aprendo gli archivi internazionali finora chiusi, e da loro emerge prepotente una storia ben diversa da quella normalmente raccontata; ma che le Foibe sono state un GENOCIDIO voluto da Italiani e Jugoslavi a danno del popolo veneto, che ancora oggi continua nella forma di oblio culturale e negazione delle libertà politiche che portano alla servitù economica.

Ora anche un altro autore, Marco Pirina, dice sostanzialmente le stesse cose, ma egli ne ha maggiormente  approfonditamente  la questione e pubblicato nel 2008 un libro ricco di documenti che la raccontano.

La storia della Repubblica Italiana ne esce massacrata e infranta.

I  fondatori della Repubblica pagarono Tito per estendere il dominio anche fino al Garda, e pagarono FINO AGLI ANNI ’60  per tenere PRIGIONIERI  I VENETI NEI CAMPI DI CONCENTRAMENTO JUGOSLAVI !!

Colpevoli di questo genocidio furono i maggiori PADRI DELLA “PATRIA” Italiana, da De Gasperi a Togliatti, da Pertini a Rossi  da  Parri a Valiani .

In pochi minuti nella intervista che allego Pirina dice una quantità di cose dense di riferimenti che sono TERRIFICANTI per chi ha studiato la vicenda.

Illudersi di censurare per sempre queste cose come ancora  fa Napolitano è veramente da stupidi.

http://www.youtube.com/watch?v=lpWhDMLDYt8&eurl=http://www.palmerini.net/blog/?p=318

Fonte: liberamente  tratto da  srs di Loris Palmerini


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