Le fruttivendole di Piazza Erbe…in alto la siora Concettina detta Tina
A Verona, all’uscita della breve via che unisce Piazza dei Signori con Piazza delle Erbe, proprio di fronte all’arco della Costa, si trovavano, fino a pochi anni fa, due banchi di frutta e verdura. Uno gestito dalla vecchia Concettina che, dopo aver venduto per anni selvaggina e uccellini, preparava e vendeva ultimamente fondi di carciofi, l’altro dalla nostra Giovanna.
Piccola di statura, bionda, muso da volpona, fianchi grandi, con il modo di fare della popolana, ma con il cuore sensibile e generoso della signora, era la regina incontrastata della piazza.
Possedeva ironia e umorismo così pungenti da lasciarci di stucco. Le sue battute, tra le più folgoranti che abbia sentito, pur viaggiando sempre sulla stessa linea risultavano davvero tremende. Ancora adesso, anche se son passati più d’una decina d’anni da quando ha venduto il banco ed è andata in pensione, se chiedete informazioni nei bar che s’affacciano sulla piazza, oltre a magnificarla, vi diranno che le sue espressioni, spiritose e coloratissime, rispettavano l’aria popolare della piazza.
Comincerò con l’incontro di cui sono stato testimone.
Negli anni Novanta, mi trovavo al banco del Caffè Dante in Piazza dei Signori con lei, Toni, i coniugi Cavalca che gustavamo prima delle tredici il nostro bianchetto, quando dall’ingresso di Via delle Fogge entrò Alberto Sordi. Vista l’allegra compagnia si fermò a salutarci.
– El me scusa, salo, ma fasso l’ortolana e gho le mani sporche(1), – e si pulì le mani nel grembiule, prima di stringergliele.
Al nostro Albertone non parve vero. Oltre a rallegrarsi di questo incontro, confessò che la propria madre era anch’ella un’ortolana, e si mise a raccontare, da comico consumato, alcuni episodi divertenti. Ahi, ahi! povera memoria. Mi dispiace non saperne citarne almeno uno. Ricordo solo che per ben venti minuti rimase con noi, e che per ben due volte vennero i camerieri a richiamarlo perché atteso nella sala principale del ristorante. Il bello fu che le sue attenzioni furono solo per Giovanna.
Per assistere al passaggio della Regina Madre d’Inghilterra, con Luciano Pelizzari fui ospite d’una amica di questo pittore sulla più bella terrazza di Casa Mazzanti, quella che s’affaccia su Piazza delle Erbe, posta proprio sopra al Volto Barbaro. Oltre a goderci lo splendido panorama della piazza, ci gustammo la passeggiata di questa quasi centenaria regina che, vestita con un soprabito rosa e con un cappellino con i fiori, avrebbe richiamato la stessa curiosità, senza bisogno d’essere protetta da transenne e da guardie del corpo. La regina, che probabilmente non aveva mai fatto in vita sua la spesa, curiosò al banco della Giovanna, e l’ortolana su un fazzoletto di carta le offrì un persego(2). Arrivarono le guardie della vigilanza e la regina si ritirò, di sicuro con l’acquolina in bocca.
Ben diverso fu un altro incontro. Per il tempo e per il cassetto era stata una gran brutta giornata di fine ottobre, quando verso sera giunse una modesta signora sulla sessantina davanti al banco che ammirava la sua frutta. Dietro di lei due uomini in abito scuro che s’erano fermati nello steso istante a curiosare, e a cui lei non diede bada.
A quella povera diavola le offrì un racimolo.
– Lo prenda! l’ho appena lavata. Sentirà com’è dolce.
La mattina del giorno dopo, si trovava al bar Filippini che si gustava la brioche con il cappuccino, quando arrivò di corsa una sua vicina di banco:
– Giovanna, ghè to marì al banco chel te vol, e ghè anca du omeni che i te cerca(3).
Dopo aver ingoiato il resto della brioche e inciampato in un paio di sedie ai tavoli del plateatico, come vide i due uomini in abito scuro pensò subito “Oddio! La Finanza.”
Con la tremarella si presentò a quei signori che le consegnarono una busta e, dopo un cenno di saluto, se ne andarono. Riavutasi dalla la sorpresa, ancora tremante aprì la busta: conteneva un elegante biglietto con scritto: “ Susanna Agnelli, commossa, ringrazia”.
E lei pensò: ”Casso, la potea lassarme pagà almen un cafè, ma non per l’ua, ma per el spavent che l’ha m’ha fato ciapar”(4).
Nel mondo però, non tutti la pensano allo stesso modo. Si attirava le antipatie dei “piassaroti”(5)perché in più occasioni alla solita domanda di Giulio Andreotti che, di ritorno dalla Prefettura, si soffermava davanti al suo banco chiedendo:
– Come va?
– Bene! Onorevole, – rispondeva sempre.
– Che casso ghe ne frega a lu, se la va mal o la va ben. – incazzatissimi i suoi colleghi le dicevano: – Te ghè da dirghe che la va mal(6), se no, l’aumenta le tasse.
Con la verdura e la frutta è facile fare delle allusioni e dire spiritosaggini. Con carote, finocchi, cetrioli, e poi ancora: pomi, maroni(7), prugne, banane, senza parlare poi del fico insieme alla sua gentil signora, la fantasia viaggia.
Alla signora che le faceva notare che aveva i cetrioli molli:
– Signora, averghene(8) a casa de quei moli lì.
D’inverno, quando faceva freddo e le foglie delle verze s’increspavano, stropicciandosi le mani:
– Siore, la verza bona ama il giaso come la frittola ama il casso(9).
Ma non solo con frutta e verdura.
Alla zingara che, cedendo a un’insistenza snervante, le aveva dato da leggere la mano, e che le aveva pronosticato che sarebbe arrivata una bella notizia:
– Figurate se incò(10) me ne va una giusta. Varda chi vien(11), – e indicò il marito in arrivo.
Quando era più giovane, un giorno che s’era chinata a sistemare un cesto, le si avvicinò un vecchio che le si appoggiò; voltandosi, lo bruciò con:
– Ma galo el portafoglio pien(12)?
Non sempre le andava tutto liscio. Sul far del mezzogiorno, arrivò una volta una coppia di giapponesi. Alla signora, dagli occhi a mandorla, dal viso di luna piena e dal color di giada, che continuava a palpare le albicocche, si mise le mani sui fianchi e con la faccia inviperita:
– Che la vaca che t’ha cagà, vedemo quando te la finisi de palparle(13).
Alzando poi il braccio destro, con una mano sul fianco e con l’altra indicando il marito ch’era molto più vecchio e secco come un baccalà:
– Varda, a forsa de palparlo, come te l’é ridoto quel povero can lì(14).
La giapponesina alzò lo sguardo dal banco, e senza guardarsi attorno, prese per mano il marito e se ne andò.
Mentre Giovanna tirava un respiro di sollievo, la moglie d’un noto avvocato che aveva assistito a tutta la scena:
– Giovanna, questi giapponesi abitano qui a Verona da vent’ anni, e la signora capisce e parla bene anche il nostro dialetto.
(1) Mi scusi, lo sa, faccio l’ortolana e ho le mani sporche.
(2) Pesca.
(3) C’è al banco tuo marito che ti vuole, e ci sono anche due uomini che ti cercano.
(4) Poteva lasciarmi pagato almeno un caffè, ma non per l’uva, ma per lo spavento che mi ha fatto prendere.
(5) Uomini che lavorano in piazza.
(6) Che cosa gliene importa a lui se va bene o va male. Gli devi dire che va male.
(7) Castagne.
(8) Averne.
(9) La verza buona ama il ghiaccio come .
(10) Oggi.
(11) Guarda chi viene.
(12) Ma ha il portafogli pieno?
(13) Quella vacca che ti ha generato, vediamo quando la finisci di palpare.
(14) Guarda a forza di palparlo, come l’hai ridotto quel povero cane lì.
Fonte: srs di Enzo Monti del 14 novembre 2018
Link: http://enzo-monti.blogspot.it/2013/11/giovanna.html