Pietrangelo Buttafuoco s’è convertito all’islam? Al posto della coppola ha messo il turbante? Pare proprio di sì, pare che adesso si chiami Giafar al Siqilli, Giafar il siciliano.
Dico “pare” perché se qualche giornale dell’area ideal-politica che lo ha in simpatia dà l’evento per certo, leggendo questo Il feroce saracino: la guerra dell’islam. Il califfo alle porte di Roma il racconto della conversione è più sfumato, più ellittico. Buttafuoco scrive di ricerca, anzi di “cerca della direzione” e pare di averla incontrata, osservando la qibla, la direzione della Mecca. Ma manca la parola greca decisiva che spiega nella nostra tradizione religiosa a partire quanto meno da San Paolo il cambiamento interiore: metanoia, in latino conversio.
Buttafuoco in verità evita deliberatamente il termine “conversione”, perché per lui si tratta di un “ritorno”, e usa questo termine riferito a sé (il ritorno all’islam siciliano) oltre che ai propri idoli intellettuali Henry Corbin, René Guénon, Martin Lings, islamisti “tornati” all’Islam. Nel Saracino scrive «Io di mio non ho perso nulla del passato incontrando l’islam perché – per me, ma lo è per tutti in tutto il mondo – è stato un ritorno». Tuttavia desumiamo questa conversione, ormai certa, per fatti concludenti. Apprendiamo che Buttafuoco legge sempre il Corano da cui non si stacca mai. Pare che abbia incontrato la sua Damasco in Sicilia, a Donnalucata, osservando Mohammed il capo dei bagnini: qui ebbe «visione dell’elegante abbandono ad Allah». Afferma inoltre con orgoglio di aver scritto il primo romanzo musulmano in lingua italiana (L’ultima del diavolo). Ma il diavolo si nasconde nel dettaglio. Giafar dice che in paradiso gusterà i tortellini «ripieni di tritato di manzo, non certo di prosciutto», segno che proprio di conversione si tratta. Non c’è “ritorno” qui, ma una metanoia gastronomica vera e propria, non solo l’adesione a un “mito”, ma a un “rito”, a un precetto religioso. Nel suo paradiso non si mangia maiale.