Giu 27 2013

I SEGRETI INDICIBILI DELLA GUERRA A BERLUSCONI

cavaliere

 

VEN’ANNI DI TRAME, DAGLI USA A MOSCA QUEI PATTI SEGRETI PER FAR  FUORI IL CAVALIERE (1)

 

L’amicizia con Putin è stata un boomerang per Silvio: Gorbaciov ha tessuto una rete per indebolirlo. Una vasta operazione che non dipende certo dai presunti sexy-gate

 

Non credo ai complotti internazionali, che andavano molto di moda fra noi giornalisti negli anni Sessanta e Settanta (vedevamo «piste» nere, rosse e bianche in ogni pertugio della politica) ma alle influenze internazionali e alle loro conseguenze sì. Molti di noi hanno pensato che il processo per mafia contro Giulio Andreotti e l’operazione Mani Pulite avessero anche a che fare con dei circoli americani dalla memoria lunga che non dimenticavano Sigonella.

 

Non lo sapremo mai. Certo, fa impressione che nessun editore italiano se la sia sentita di pubblicare un libro uscito solo in inglese, The Italian Guillotine (La ghigliottina italiana), firmato da Stanton H. Burnett e Luca Mantovani.  Il libro è del 1998 e nella premessa a pagina 9 vi si legge: «Un gruppo di magistrati altamente politicizzati, in larga maggioranza orientati a sinistra, agendo come pubblici ministeri, hanno usato una legittima inchiesta giudiziaria per perseguire, selettivamente, i loro nemici politici, ignorando o minimizzando misfatti simili dei loro alleati politici. L’investigazione di fondo è stata un’inchiesta su pratiche che erano andate avanti per decenni… I magistrati sono stati abbondantemente appoggiati da un gruppo di quotidiani e settimanali, tutti di proprietà di alcuni pochi grandi industriali che avevano una chiara posta in gioco nel successo del colpo di Stato».

 

Infatti, quello che i magistrati hanno deliberatamente perseguito («the fact is that men plotted and planned», p. 241) viene definito dagli autori un «colpo di Stato», vale a dire il «rovesciamento non democratico del regime che ha governato la quarta potenza industriale dell’Occidente» (p. 1). Ciò che colpisce di più di quel testo, è che non sia mai stato tradotto e pubblicato. Guai a chi avanza simili ipotesi. Allora, credo che chiunque possa convenire purché in buona fede, anche alle anime più belle qualche dubbio dovrebbe venire sul bombardamento giudiziario a tappeto scatenato contro Silvio Berlusconi. Possibile che sia e sia stata tutta farina del sacco di un gruppetto di intrepidi servitori dello Stato nelle vesti di pubblici ministeri? Per troncare sul nascere il finto dibattito, basta il dato di fatto più noto: il famoso avviso di garanzia, che in realtà era un invito a comparire, recapitato per via giornalistica il 22 novembre 1994 a Berlusconi presidente del Consiglio mentre era a Napoli a presiedere una conferenza internazionale sulla criminalità. Quell’articolo del Corriere della Sera presentò per la prima volta al mondo intero Berlusconi come un potenziale criminale mentre guidava una crociata contro la criminalità. Le conseguenze le ricordate: un bagno di merda per tutto il Paese, il ritiro di Bossi dalla maggioranza con conseguente ribaltone e prima cacciata di Berlusconi. Il fatto notevole è che Berlusconi risultò poi totalmente innocente per le ipotesi di reato che avevano stroncato la sua partenza come capo del governo, ma la mazzata mediatica determinò la vittoria di Prodi nel 1996 e cinque anni di traballanti governi di centrosinistra (Prodi, D’Alema, Amato, con Rutelli che si cambiava in panchina). Dunque, basterebbe questo solo fatto per concludere che certamente su Berlusconi si è scaricato un fall out radioattivo di materia giudiziaria che puntava a farlo fuori politicamente.

 

Che poi Berlusconi possa aver commesso gravi imprudenze nella sua condotta privata, dimenticando che nella cultura democratica occidentale la vita privata di un uomo di Stato è un fatto pubblico, è un altro paio di maniche. Ma sta di fatto che oggi lui si trova a fronteggiare una più che probabile condanna non per questioni di imprudenza nello stile di vita a casa sua, ma per reati che suonano gravissimi come la concussione e la prostituzione minorile. Chi mi conosce sa che giudico con molta severità tutte le imprudenze, come minimo, che hanno contribuito a devastare l’immagine di un primo ministro. Trovo prima di tutto imperdonabile aver fornito con generosità armi mediatiche a tutto il fronte politico, giudiziario e mediatico che vuole Berlusconi politicamente morto e con lui politicamente morta una politica liberale non intorpidita dal conformismo imposto a colpi di decreti legge giornalistici. Ma quel che è fatto è fatto e guardiamo all’oggi. E torniamo così alla domanda di partenza: c’è caso che una vasta operazione, che non chiameremo complotto ma proprio operazione, fu avviata e poi mantenuta costantemente attiva per liquidare politicamente Berlusconi?

 

Questa è una domanda che quando la si fa in privato ad amici di sinistra, trova quasi sempre come risposta un’espressione di comprensione, come dire che è ovvio che sia così. Ma se la metti per iscritto e la pubblichi, devi poi aprire l’ombrello sotto le cateratte degli insulti. Macché, grideranno, Berlusconi si trova sotto attacco giudiziario per sue colpe e delitti, in un libero Paese in cui una magistratura notoriamente «terza» e senza preconcetti lo processa senza altri fini che scoprire i reati e castigarli secondo giustizia.

 

È ovvio che, messa così, viene da ridere.

 

Di qui, di nuovo, la domanda: ma può essere che l’eliminazione di Berlusconi faccia parte di una vasta operazione politica internazionale, visto che i confini nazionali sono in genere troppo stretti per faccende di così meravigliosa sintonia? Ieri rileggevo un breve articolo di Alessandro Sallusti pubblicato su Libero nel maggio del 2009, in cui dava una notizia che non mi risulta smentita. La notizia è questa: il 23 marzo di quell’anno, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ricevette in forma più che discreta Michail Gorbaciov, un uomo di cui ho uno sgradevole ricordo: mentre Alexander Litvinenko moriva tra atroci sofferenze in ospedale di Londra, l’ultimo capo dell’Unione Sovietica si faceva fotografare in taxi con una vistosa borsa Vuitton da cui emergeva un giornale aperto sul caso Litvinenko. Secondo Sallusti, che immagino avesse una fonte diplomatica da non citare, sosteneva che il tema dell’incontro alla Casa Bianca fra Obama e Gorbaciov fosse Berlusconi. O meglio: come eliminare dalla scena europea lo scomodissimo presidente del Consiglio italiano. Ci si può chiedere: e perché rivolgersi a Gorbaciov? La ragione c’è: l’ultimo segretario del Partito comunista dell’Unione Sovietica (un uomo che è sempre stato rifiutato dai russi e che non è mai stato eletto in libere elezioni dove prese poco più del 2 per cento) è diventato da quei lontani tempi sovietici un guru, un ambasciatore fra lobby di potere, autore di mille articoli del tutto vacui e inutili, ma influente e disposto a viaggiare. Se l’informazione è esatta, Gorbaciov si sarebbe dato un gran da fare per tessere una rete multinazionale con cui catturare ed eliminare Berlusconi. Se ciò fosse vero, è ovvio che un tale interesse non sarebbe certo dipeso da questioni di stile di vita, cene con belle ragazze ed eventuali comportamenti disdicevoli. No, se la notizia fosse solida, il movente andrebbe cercato altrove. Andrebbe cercato nelle pieghe della politica che conta, quella che sposta ricchezze gigantesche e in particolare le questioni energetiche. Che gli americani siano più che irritati con Berlusconi per la sua strettissima amicizia con Putin è un fatto certo. Ricordo un cordiale colloquio con l’ambasciatore Spogli che mi confermò questo elemento di ostilità. 
Voglio anche ricordare, per lealtà verso chi mi legge, che io stesso non ho alcuna simpatia per Vladimir Putin, la cui idea della democrazia sta agli antipodi di quella di Thomas Jefferson e di Alexis de Tocqueville. Mi indignò l’invasione russa della Georgia e tuttora mi indigna la persecuzione contro le ragazze del gruppo Pussy Riot e molto altro. Ma è certo che l’antipatia degli Stati Uniti per Putin va molto al di là dei comportamenti censurabili, perché si concentra invece sulla questione energetica. 
(1 – continua)

 

Fonte:  srs di Paolo Guzzanti, da  Il Giornale di martedì  4 giugno 2013

Link: http://www.ilgiornale.it/news/interni/923844.html

 

LE TRAME DEI BIG PER FAR FUORI SILVIO.  I LEADER MONDIALI E LE TRAME ANTI CAV:  ECCO LA VERA STORIA (2)

 

Il piano per eliminar il Cav politicamente, messo a punto da Merkel, Sarkozy e Obama dopo numerosi contatti

 

di. Paolo Guzzanti

L’amicizia con Putin e la collaborazione strategica per il gasdotto Eni-Gazprom gli  sono stati fatali. I bìg del mondo non hanno perdonato Silvio Berlusconi e gliel’hanno giurata: contatti tra  Ohama, Merkel e Sarkozy et voilà, il Cavaliere finisce disarcionato dalla magistratura, fatto fuori con il beneplacito – nemmeno tanto dissimulato – dei potenti  stranieri.

 

Non vorrei annoiare i lettori con una lunga storia di gasdotti che trasportano milioni di metri cubi di gas dall’est russo e centroasiatico all’Europa occidentale, basterà ricordare che il 23 giugno del 2007 fu dato l’annuncio dell’accordo fra Italia e Russia per il progetto South Stream.

 

Cioè di un gasdotto lungo 900 chilometri, costruito da Eni e Gazprom, che permetterà alla Russia di rifornire di gas l’Europa senza passare dall’Ucraina, attraversando il Mar Nero a oltre 2000 metri di profondità per raggiungere la costa bulgara. Il memorandum di intesa, che ha «una portata geopolitica senza precedenti» (Corsera) fu firmato a Roma al ministero dello Sviluppo, dai ministri Pier Luigi Bersani (proprio lui) dal ministro russo all’energia Khristenko), dall’ad dell’Eni Scaroni e dal vicepresidente di Gazprom Medvedev (che è soltanto un omonimo l’ex presidente). Quel gasdotto ha di fatto ammazzato il progetto Nabucco per un gasdotto tutto europeo che tenesse la Russia lontana, usando gas dell’Azerbaigian, del Turkmenistan e in prospettiva dell’Iran.

 

Uno dirà, già lo sento: e che cavolo c’entra questa vicenda di gas russi e turkmeni con la requisitoria della Boccassini e l’imminente sentenza di Milano contro Berlusconi accusato di prostituzione minorile e di concussione? Risposta: ecco, vorremmo saperlo anche noi. Proprio io, che sono stato molto severo con Berlusconi per certe sue intemperanze comportamentali, che ho inventato un termine che era già nell’aria – Mignottocrazia che è anche il titolo di un mio libro – proprio io di fronte a quel processo sento, come dire, puzza di bruciato. Voglio dire: possiamo discutere e giudicare politicamente tutti i comportamenti di chi rappresenta lo Stato, fin da quando al mattino si allaccia le scarpe; ma tutt’altra faccenda è tradurre il life style, il modo di comportarsi e di apparire, in reati previste dal codice penale e in processi che emettono sentenze devastanti senza disporre di una sola vera prova: la famosa «pistola fumante» che Bush non trovò per giustificare l’invasione dell’Irak, ma che invece va benissimo, anche se non fuma, per liquidare un uomo politico di prima grandezza per via giudiziaria. Sia ben chiaro subito: non penso affatto che il procuratore Ilda Boccassini sia il braccio armato di un complotto. Penso anzi che l’infaticabile procuratore sia in cuor suo in perfetta buona fede. Ma penso anche, come altri milioni di persone, che la pretesa criminalità di Berlusconi che a casa sua, nella sua sala da ballo fa il galante e il gaudente, basti a giustificare, o anche soltanto a spiegare una campagna, per dirla con Brecht, di mille galeoni e mille cannoni.

 

Questa impressione di una vasta operazione l’abbiamo avuta quando Berlusconi tornò dalla famosa riunione in cui Frau Merkel ridacchiava, Sarkozy faceva marameo, mentre Obama in quel periodo giocava all’uomo invisibile e sembrava una festa un po’ diabolica come quella di Rosemary’s baby di Polanski. Tutti sembravano sapere già tutto, salvo l’interessato, profondamente turbato e incredulo.
 Qualcosa di molto vasto e di molto collettivo – per questo è meglio parlare di una operazione su vasta scala e non di un complotto – era accaduto e andava a compimento dopo un lungo lavoro fatto di incontri, telefonate (centinaia, si presume) e lavoro lobbistico sul tema: far fuori Berlusconi. Il quale, però, è un tipo strano. Cocciuto, riesce quasi sempre a spiazzare e sparigliare, sicché, dopo essersi dimesso dalla politica pronto a costruire ospedali in Africa, vedendo che l’accanimento contro di lui non diminuiva ebbe l’impressione che la grande rete dell’operazione lo volesse proprio morto, politicamente e umanamente annientato. E siccome è, come dicono i romani, un tipo fumantino, organizzò la propria resurrezione, spolverò la sedia di Travaglio, risalì la china e il resto è storia di questi giorni, come è storia di questi giorni l’esito del processo Ruby e degli altri processi.
Ci sono molte storie dentro questa storia. Molti dettagli e risvolti che meritano di essere rivisitati e connessi. Non voglio citare il solito Andreotti dell’a pensar male si fa peccato ma in genere ci si azzecca. Ma certo è che giornalisti e storici, oggi e domani, avranno un gran da fare per tentare di stabilire ciò che realmente accadde, come accadde con quali moventi, chi mosse le pedine, qual era la posta in gioco. Un primo tentativo può essere fatto anche adesso e la verità, questo famoso bene supremo che dovrebbe animare il giornalismo non può che avvantaggiarsene.
(2 – continua)

 

Fonte: srs di Paolo Guzzanti, da  Il Giornale di mercoledì  5 giugno 2013

Link: http://www.ilgiornale.it/news/interni/linchiesta-924165.html

 

LA GUERRA DELLA CASA BIANCA ALL’ASSE TRA IL CAV. E MOSCA (3)

 

Mentre a Bengasi scoppiava la rivolta, Medvedev firmava accordi con l’Eni per i diritti di un pozzo in Libia: uno sgarro per Obama. Quante “coincidenze” contro il Cavagliere

 

Se vivete di pane e complotti, il 15 febbraio 2011 vi sembrerà una congiunzione fatidica e fatale. Se non ci credete, godetevi le bizzarrie del destino e della storia. Quel giorno tra Mosca, Bengasi e Milano si compiono tre avvenimenti chiave, apparentemente slegati tra loro.

 

Nella capitale russa, il consigliere del Cremlino Sergei Prikhodko annuncia l’arrivo a Roma del presidente Dmitry Medvedev per la firma di uno storico contratto con l’Eni, destinato ad aprire le porte della Libia al gigante del petrolio russo Gazprom.

A Milano, nelle stesse ore, il giudice per le indagini preliminari Cristina Di Censo deposita il rinvio a giudizio per gli imputati del processo Ruby.  A Bengasi, invece, scoppiano i disordini che spingeranno la Nato all’intervento militare e all’eliminazione di Gheddafi.

Nessuno quel giorno può intravvedere la minima correlazione fra i tre eventi, destinati a determinare l’emarginazione internazionale dell’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e portarlo alle dimissioni.

Le conseguenze del processo Ruby e della rivolta di Bengasi sono ormai chiare.

Quelle dell’annuncio di Mosca, seppure meno trasparenti, sono fondamentali per comprendere perché i legami intessuti dal governo Berlusconi con Mosca e Tripoli fossero un ostacolo agli interessi di alcuni importanti«alleati»dell’Italia.

L’accordo firmato dal presidente Medvedev, a Roma il 17 febbraio 2011, mentre a Bengasi già infuriano gli scontri, garantisce il passaggio a Gazprom della metà dei diritti di sfruttamento, detenuti per il 33 per cento da Eni, del pozzo libico di El Feel. Quel giacimento non è una risorsa come le altre. Scoperto nel 1997 da un consorzio internazionale partecipato dall’Eni, e battezzato Elefante per le sue dimensioni, il pozzo, situato a 800 chilometri a sud di Tripoli, custodisce circa 700 milioni di barili di greggio. È insomma una delle più importanti riserve della nostra ex colonia. La cessione di un sesto di quel greggio a Gazprom, la compagnia petrolifera considerata il braccio armato di Mosca nella guerra per l’energia tra Russia e Stati Uniti, viene visto come uno sgarro dell’Italia alle politiche energetiche dell’Europa e della Casa Bianca. Uno sgarro frutto degli stretti legami d’amicizia intessuti da Silvio Berlusconi con Vladimir Putin e Muhammar Gheddafi.

Per capire perché l’accordo sul pozzo di El Feef diventa la goccia capace di far traboccare il vaso spingendo i nostri alleati a eliminare Gheddafi e a ridimensionare Berlusconi, bisogna far un salto indietro al 3 novembre 2003.

Quella notte un’operazione organizzata dal Sismi di Niccolò Pollari, d’intesa con Cia e MI6 britannico, porta alla scoperta nelle stive del portacontainer «Bbc China», da poco attraccato nel porto di Taranto, di un importante carico di frequenziometri, pompe, tubi di alluminio e altre parti essenziali per assemblare le centrifughe destinate all’arricchimento dell’uranio. Quel carico destinato a Tripoli diventa la «pistola fumante» sufficiente a provare i tentativi del Colonnello libico di dotarsi di armi nucleari. La «pistola fumante» viene subito usata da Cia e MI6 per mettere Gheddafi con le spalle al muro e convincerlo a rinunciare ai suoi programmi nucleari garantendogli, in cambio, la fine delle sanzioni e la ripresa dei rapporti commerciali con l’Occidente.

La capacità dell’Italia di assicurarsi le più importanti commesse libiche, grazie ai rapporti tra Berlusconi e il Colonnello, finisce con il mettere in crisi il patto siglato tra le banchine di Taranto. I primi a soffrire e a lamentarsi sono gli inglesi. Sir Mark Allen, l’uomo dell’MI6 mandato a fine 2003 a gestire la resa di Gheddafi, si ritrova a dover garantire la liberazione dello stragista di Lockerbie, Abdul Baset Ali al Meghrai, per assicurare alla Bp un contratto da 54 milioni di sterline.

 

Berlusconi nel frattempo inanella accordi assai più fruttuosi, usando esclusivamente il rapporto personale con l’estroso dittatore libico. Il malessere di Londra resta confinato finché la Casa Bianca resta nelle mani di un George W. Bush e di un’amministrazione repubblicana disposti ad accettare le politiche «parallele» dell’alleato italiano in cambio della collaborazione a livello internazionale, dell’impegno in Iraq e Afghanistan e degli stretti rapporti intessuti con Israele.

Lo scenario cambia bruscamente agli inizi del 2009, quando lo Studio Ovale passa nelle mani di Barack Obama e dell’amministrazione democratica. Con il cambio d’inquilino, cambiano anche strategie e obbiettivi. Le costanti frizioni con il premier israeliano Benjamin Netanyahu spingono gli strateghi democratici a definire un’ardita politica di avvicinamento ai Fratelli Musulmani. Dopo averli frettolosamente identificati come la forza emergente pronta ad abbracciare la democrazia e ad accettare, grazie all’aiuto del Qatar, le politiche di Washington, i teorici liberal di Obama scommettono su di loro per sostituire quei dittatori fulcro delle strategie americane in Medio Oriente e Nord Africa. La nuova alleanza, oltre a rendere marginale il ruolo d’Israele, sancisce una svolta nell’ambito dello scontro energetico con la Russia. Il Qatar, nemico dell’Iran sciita e quinto produttore mondiale di gas, diventa – nei piani messi a punto dai think tank democratici – uno dei tanti tasselli destinati impedire a Gazprom e a Mosca di egemonizzare le forniture energetiche all’Europa.

Nell’ambito di questa nuova strategia anche l’Italia di Berlusconi si trasforma in un ostacolo da spianare. E a farlo capire, sollecitando inchieste segrete capaci d’innescare accuse di corruzione e interesse privato ben peggiori di quelle piovute su Berlusconi un anno dopo, ci pensa il segretario di stato democratico Hillary Clinton.  «Preghiamo di fornire qualsiasi informazione sulle relazioni personali tra il primo ministro russo Vladimir Putin e il premier Silvio Berlusconi. Quali investimenti personali, potrebbero aver indirizzato le loro politiche economiche ed estere», scrive un lungo cablogramma segreto, diventato pubblico grazie a Wikileaks , indirizzato a fine di gennaio 2010 dalla segreteria di stato di Washington alle ambasciate di Mosca e Roma. La Clinton chiede insomma a diplomatici e a servizi segreti di fornirgli delle prove da usare contro l’«alleato » Berlusconi e contro il «nemico » Putin. Cosa vuole fare con quelle informazioni il capo della diplomazia americana? Come intende utilizzarle? A chi vuole passarle? Forse non lo sapremo mai. Ma sappiamo che, in quel gennaio 2010, all’assalto giudiziario contro Berlusconi si aggiunge la guerra internazionale.

 (3- continua)

 

Fonte: srs di Gian Micalessin – da Il Giornale di Giovedì  06/giugno/2013

Link: http://www.ilgiornale.it/news/interni/guerra-casa-bianca-all-asse-cav-e-mosca-924300.html

 

QUANDO HILLARY SPIAVA IL CAV PER VINCERE LA GUERRA DEL GAS (4)

 

Intrigo internazionale: svelate le strategie occulte di Berlino, Londra e Washington contro l’asse Roma-Mosca

 

«Quali sono i punti di vista dei funzionari del governo e di quelli dell’Eni sulle relazioni nel settore energia dell’Italia con la Russia e con il progetto South Stream… Vi preghiamo di fornire ogni informazione sui rapporti tra i funzionari dell’Eni, incluso il presidente Scaroni e i componenti del governo, specialmente con il primo ministro Berlusconi e il ministro degli Esteri (all’epoca Franco Frattini, ndr)».

 

La pressante richiesta d’informazioni è contenuta in un cablogramma segreto, datato gennaio 2010, inviato all’ambasciata di Roma dalla segreteria di stato Usa guidata da Hillary Clinton. La richiesta sembra quasi anticipare alcune inchieste giudiziarie destinate a colpire in periodi successivi alcune nostre importanti aziende di stato, impegnate in ambito internazionale. Ovviamente è azzardato pensare che le indagini della nostra magistratura italiana siano state influenzate dalle informazioni raccolte dai servizi segreti o dal personale diplomatico statunitense. Alla base di tutto c’è però il sospetto e l’ostilità per il rapporto personale stretto da Silvio Berlusconi e Vladimir Putin sin dal vertice di Pratica di Mare del lontano 2002. Un rapporto dalle inevitabili ricadute sul fronte della guerra per l’energia e delle condutture strategiche. Un rapporto che gli americani tengono sott’occhio fin dall’aprile 2008, quando un telex inviato dall’ambasciata statunitense a Roma al ministero del Tesoro di Washington consiglia di far pressione su Berlusconi, da poco rieletto, perché metta un freno all’alleanza tra Eni e Gazprom. «Bisognerebbe spingere il nuovo governo Berlusconi ad agire un po’ meno come il cavallo scalpitante degli interessi di Gazprom… l’Eni – scrive il dispaccio confidenziale diventato poi pubblico grazie a Wikileaks – sembra appoggiare i tentativi di Gazprom di dominare le forniture energetiche dell’Europa, andando contro i tentativi americani, appoggiati dall’Unione Europea di diversificare le forniture energetiche». 
Quell’informativa non incrina certo i rapporti tra l’amministrazione Bush e il Cavaliere, chiamato di lì a due anni a un intervento davanti al Congresso americano su richiesta della maggioranza repubblicana. Diventa però un pesante atto d’accusa quando a decidere le nuove strategie è l’amministrazione Obama. All’origine di quell’informativa ci sono gli incontri del 2 aprile 2008 tra il presidente dell’Eni Paolo Scaroni e Vladimir Putin nella dacia di Ogaryovo, in cui viene definito l’intervento di Gazprom in Libia e Algeria con l’aiuto dell’Eni e la partecipazione italiana al progetto South Stream. Quei due protocolli d’intesa diventano nell’era Obama un vero atto d’accusa nei confronti del governo Berlusconi, sospettato di favorire una manovra a tenaglia per imporre all’Europa l’egemonia energetica di Mosca. A far paura è soprattutto il South Stream, il progetto di gasdotto italo-russo-turco destinato a portare il gas del Caspio in Puglia e in Friuli Venezia Giulia, tagliando fuori l’Ucraina e passando per Turchia, Serbia e Slovenia. Un progetto in diretta competizione con il Nabucco, il gasdotto messo in cantiere da Ue e Usa per vendere in Europa il gas dell’Azerbaijan ed evitare così qualsiasi dipendenza dalla Russia.
In questo clima la foto di Putin, Berlusconi e del premier Turco Recep Tayyp Erdogan, che firmano – il 6 agosto 2009 – l’accordo per il passaggio delle tubature sotto il Mar Nero, si trasforma in un’autentica ossessione per l’amministrazione Obama e per i paesi dell’Unione Europea avversari di Mosca. Primi fra tutti la Francia e la Gran Bretagna. Nell’immaginario di quell’ossessione, South Stream rappresenta il piano di Berlusconi e Putin per stringere la Ue in una vera e propria ganascia energetica e ricattarla. Il secondo potente braccio di quella tenaglia immaginaria è rappresentato da «Greenstream» e «Transmed», le due condutture controllate dall’Eni che portano in Europa il gas dalla Libia e dall’Algeria. All’accerchiamento dell’Europa contribuisce su un terzo settore anche il North Stream, il gasdotto destinato a rifornire di gas russo il nord dell’Europa. Ma su quel progetto, appoggiato e voluto dalla Germania, nessuno fiata. South Stream e gli accordi Gazprom-Eni diventano, invece, il bersaglio preferito degli strali europei e americani. Bruxelles dichiara già nel 2008 di voler sorvegliare i crescenti interessi garantiti da Eni a Gazprom nel Nord Africa. E Andris Pielbags, al tempo commissario europeo dell’energia, mette in guardia dalla possibilità che Eni collabori con Gazprom anche in Algeria. Nel luglio 2010 il suo successore Guenther Oettinger, non si fa problemi a dichiarare che il South Stream non rientra negli interessi dell’Europa in quanto concorrente del Nabucco. La prima ad agire direttamente è Angela Merkel, che nel luglio 2010 vola ad Astana per chiedere al presidente Nursultan Nazarbayev di mettere il gas kazako a disposizione del Nabucco. Da quel momento la vera tenaglia diventa quella messa insieme da Washington e Londra da una parte e da Parigi e Berlino dall’altra. Una tenaglia studiata per schiacciare l’asse Roma-Mosca e annullarne gli effetti. 
Il primo a sfruttare il cambio di strategia introdotto dall’amministrazione Obama è il presidente francese Nicolas Sarkozy. Sospettato e accusato di aver beneficiato di 50 milioni di euro, messigli a disposizione dal rais per la sua elezione, Sarkò si ritrova, come gli inglesi, incapace di tessere un rapporto proficuo con Gheddafi. Nonostante il Colonnello abbia piantato la sua tenda nel cuore di Parigi assai prima che a Roma, la Total porta a casa solo 55mila barili di petrolio al giorno contro gli oltre 280mila della nostra Eni. La «tenaglia» Eni-Gazprom rischia di rendere inutili anche gli accordi per la vendita sul mercato europeo del gas stretti da Parigi con l’emirato del Qatar. Un emirato a cui Sarkozy fa di tutto per «regalare» i campionati mondiali di calcio del 2022. 
La deflagrazione delle cosiddette primavere arabe sponsorizzate e appoggiate dal Qatar è un altro atto importante per avvicinare le posizioni dei principali avversari dell’asse Roma-Mosca-Tripoli. Il vero colpo da maestro il Qatar lo realizza in Libia, dove accende la rivolta manovrando gli ex al qaidisti tirati fuori dalle galere di Gheddafi grazie a una mediazione con il figlio Saif. Come è risaputo, la rivolta di Bengasi si realizza solo grazie alla defezione di Adnan al Nwisi, un colonnello dell’esercito libico sul libro paga del Qatar, che consegna a un gruppo jihadista un deposito di armi della città di Derna. I 70 veicoli e i 250 fucili razziati in quell’arsenale consentono qualche giorno dopo di espugnare il quartier generale di Bengasi e accendere la rivolta che porterà alla caduta di Gheddafi. Una caduta che Berlusconi, libero dall’immagine devastante cucitagli addosso dal processo Ruby, avrebbe potuto forse evitare. La fine del Colonnello non porta la democrazia in Libia, ma si rivela perfetta per smantellare gli interessi di Eni e Gazprom, per rendere più debole l’economia dell’Italia e aggravare quella crisi che porterà, alla fine del 2011, alle dimissioni del governo Berlusconi e all’avvento del governo «europeista» e «atlantista» di Mario Monti.

(4 – continua)

 

Fonte: srs di Gian Micalessin – da Il Giornale di  Ven, 07/giugno/2013

Link: http://www.ilgiornale.it/news/interni/quando-hillary-spiava-cav-vincere-guerra-gas-924816.html

 

COSÌ SARKOZY FREGÒ GHEDDAFI  E L’ITALIA  (5)

 

I servizi segreti sono alla caccia di settanta scatoloni pieni di cassette audio e video che contengono le registrazioni degli incontri e delle telefonate fra il defunto colonnello Gheddafi ed i dignitari di mezzo mondo, quando veniva trattato con i guanti bianchi.

 

Il primo a doversi preoccupare degli scottanti contenuti delle registrazioni è l’ex presidente francese Nicolas Sarkozy, come sostiene il quotidiano le Monde che è tornato sul finanziamento libico alla campagna elettorale di Sarkozy nel 2007.
Nel marzo 2011, poche ore prima dei bombardamenti della Nato sulla Libia, Muammar Gheddafi rilasciava a il Giornale l’ultima intervista della sua vita ad una testata italiana. Alla domanda sull’interventismo francese che ha spinto in guerra mezza Europa, compreso il nostro Paese, rispondeva: «Penso che Sarkozy ha un problema di disordine mentale. Ha detto delle cose che possono saltar fuori solo da un pazzo». E per ribadire il concetto si sporgeva verso chi scrive battendosi il dito indice sulla tempia, come si fa per indicare i picchiatelli. Il Colonnello non riusciva a comprendere come l’ex amico francese, che aveva aiutato con un cospicuo finanziamento (forse 50 milioni di euro) per conquistare l’Eliseo fosse così deciso a pugnalarlo alle spalle.
Dell’affaire Sarkozy erano al corrente tre fedelissimi di Gheddafi: il responsabile del suo gabinetto, Bashir Saleh, Abdallah Mansour consigliere del Colonnello e Sabri Shadi, capo dell’aviazione libica. Saleh, il testimone chiave, vive in Sudafrica, ma nel 2011 era apparso in Francia e poi sparito nonostante un mandato cattura dell’Interpol. Il caso era stato gestito da Bernard Squarcini, uomo di Sarkozy, ancora oggi a capo del controspionaggio. E sempre Squarcini è coinvolto nella caccia alle cassette scottanti di Gheddafi, che potrebbero contenere gli incontri con altri leader europei. Silvio Berlusconi non ha mai nascosto l’amicizia con il colonnello, mentre Romano Prodi e Massimo D’Alema, che pure avevano frequentato la tenda di Gheddafi cercano sempre di farlo dimenticare. 
Lo sorso anno un politico francese di sinistra, Michel Scarbonchi, viene avvicinato da Mohammed Albichari, il figlio di un capo dei servizi di Gheddafi morto nel 1997 in uno strano incidente stradale. Albichari sostiene che un gruppo di ribelli di Bengasi ha sequestrato «70 cartoni di cassette» di Gheddafi. Scarbonchi si rivolge al capo del controspionaggio, che incontra il contatto libico. «Avevano recuperato la videoteca di Gheddafi con i suoi incontri e le conversazioni segrete con i leader stranieri» conferma Squarcini a Le Monde. I ribelli vogliono soldi e consegnano come esca una sola cassetta, di poca importanza, che riguarda il presidente della Cosa d’Avorio. Il materiale è nascosto in un luogo segreto. Pochi mesi dopo Albichari sostiene di essere «stato tradito» e muore per una crisi diabetica a soli 37 anni. Non solo: il corpo di Choukri Ghanem, ex ministro del Petrolio libico, custode di ulteriori informazioni sensibili, viene trovato a galleggiare nel Danubio a Vienna.
La caccia alle registrazioni del Colonnello deve essere iniziata nell’ottobre 2011, quando la colonna di Gheddafi è stata individuata e bombardata da due caccia Rafale francesi. Il rais libico era stato preso vivo, ma poi gli hanno sparato il colpo di grazia. «L’impressione è che dopo il primo gruppo di ribelli sia arrivato un secondo, che sapesse esattamente cosa fare e avesse ordini precisi di eliminare i prigionieri» spiega una fonte riservata de il Giornale che era impegnata nel conflitto. L’ombra dei servizi francesi sulla fine di Gheddafi è pesante. Sarkozy non poteva permettersi che il colonnello, magari in un’aula di tribunale, rivelasse i rapporti molto stretti con Parigi. La Francia ci aveva tirato per i capelli nella guerra in Libia stuzzicando Berlusconi sui rapporti con Gheddafi. Peccato che Sarkozy ne avesse di ben più imbarazzanti.
Delle cassette di Gheddafi non si sa più nulla. L’unico che potrebbe far luce sul suo contenuto è Seif al Islam, il figlio del colonnello fatto prigioniero, che i libici vogliono processare e condannare a morte.

 

Fonte: srs di Fausto Biloslavo – da Il Giornale di Venerdì, 07/giugno /2013

Link: http://www.ilgiornale.it/news/interni/cos-sarkozy-freg-gheddafi-e-litalia-924814.html

 

LA GUERRA DEI POTERI FORTI: 20 ANNI DI CORDATE ANTI CAVAGLIERE (6)

 

Dal 1994 l’establishment che faceva capo ad Agnelli prova a fermarlo: il pluralismo finanziario dell’ex premier è visto come un ostacolo.

Agnelli, Abete, Montezemolo e gli altri hanno cercato di creare cordate per limitare lo strapotere del Pompetta, finendo per rafforzarlo – Il ruolo primario di destabilizzazione dell’ammiraglia dell’establishment, il Corriere della Sera…

 

Nella primavera del 1994 dentro il nostro ristretto establishment economico si iniziò a pensare che la corsa politica di Silvio Berlusconi fosse meno bizzarra di quello che s’era previsto. Il «re» Gianni Agnelli se ne uscirà con una delle solite battute brillanti e ciniche: «Se Berlusconi perde, perde solo lui, se vince vinciamo tutti».

 

Solo qualche settimana dopo, però la vittoria apparirà meno di «tutti»: non solo non si eleggerà presidente del Senato il suo candidato, Giovanni Spadolini, ma quando il presidente della Fiat si lamenterà per la disobbedienza di fronte a una platea confindustriale a Verona, verrà fischiato.
Anche da qui un’irritazione verso il governo berlusconiano che fa sì che l’ammiraglia dell’establishment, il Corriere della Sera, svolga ruolo primario di destabilizzazione anticipando, e diffondendo durante un vertice G8 a Napoli, l’avviso di garanzia per una delle prime inchieste antiberlusconiane. Dalla sua, Confindustria di Luigi Abete (dove la mente è il fedelissimo Fiat Carlo Callieri) apparirà più propensa a dialogare con Sergio Cofferati che con un governo impegnato in un’audace riforma delle pensioni.

In questa fase l’asse Fiat-Mediobanca è ancora il fulcro di un establishment legato a un patto con la politica (a lungo con la Dc ma dopo gli anni ’70 insieme consociativamente e conflittualmente anche con il Pci) non privo di virtù (il ruolo di Enrico Cuccia nell’accumulazione capitalistica post ’45 fu insostituibile, Agnelli fu prezioso ambasciatore dell’Italia verso gli Stati Uniti) ma dalla logica particolarmente escludente.

Certo, negli anni ’90 matura la coscienza che la fine della Guerra fredda cambia tutto, si vive Mani pulite con smarrimento (ma poi cavalcandola), si ragiona in modo astratto (con guasti per l’Italia anche grazie a uomini legati all’establishment come Carlo Azeglio Ciampi) di vincoli esterni (europei) per «disciplinare» la società nazionale. L’unica cosa che s’inventa è il riformismo referendario senza nerbo e visione di Mario Segni. Alla fine anche il grande establishment di Gianni&Enrico ha una reazione snobistica verso Silvio, cercando di continuare quel ruolo di regia dietro le quinte che però funzionava solo grazie al partito-Stato Dc che lo consentiva. Comunque in quel dicembre del 1994 grazie a Oscar Luigi Scalfaro si manda a casa il «disubbidiente», lo si sostituisce con l’uomo di mondo Lamberto Dini e per qualche settimana ci si convince che tutto sia risolto.

Come oggi Giorgio Napolitano sarà l’uomo più vecchio (Cuccia) a vedere da più «giovane», comprendendo l’urgenza di innovazioni radicali in politica come in economia, constatando l’affermarsi di una centralità nuova di Romano Prodi con gestione oligarchica delle privatizzazioni tesa a nuovi equilibri chiusi di potere (tendenza ben rappresentata da Giovanni Bazoli) senza neanche la spinta allo sviluppo della Mediobanca d’antan. Verificando la subalternità alla Germania e la poca attenzione alla parte vitale dell’industria. Il più geniale «gnomo» italiano perseguirà invece un reale pluralismo finanziario, lavorerà per legare attraverso le Popolari la media impresa alla finanza strategica, aiuterà Massimo D’Alema quando sembrava voler riformare lo Stato e sosterrà la svolta anti-Fiat di Confindustria con Antonio D’Amato. Tutto ciò s’impatterà con la crisi del gruppo presieduto da Agnelli che vuole preservare le sue influenze politiche ancor prima delle condizioni di rilancio imprenditoriale. Quest’ultima tendenza si collegherà naturalmente all’antiberlusconismo, porterà a un duro (definitivo?) ridimensionamento di Mediobanca, preparerà un «ritorno» torinese in Confindustria con Luca Cordero di Montezemolo, appoggerà il nuovo tentativo di Prodi con tanto di editoriale benedicente di Paolo Mieli sul Corriere della Sera.

Ma Prodi l’unica cosa che saprà fare sarà consolidare l’Intesa di Bazoli smantellando un presidio del vecchio establishment (Marco Tronchetti Provera a Telecom Italia). Da qui nuove delusioni, il lancio via Corriere-Confindustria montezemoliana della lotta anti Casta (altra fonte di disgregazione permanente della società italiana) e la scelta di un altro abatino (Walter Veltroni) come contendente di Berlusconi. Dopo l’ennesima sconfitta quel che resta dell’establishment lavorerà per cercare di disgregare il nuovo governo berlusconiano inventandosi il «liberale» Gianfranco Fini, cercando (con altalenanti successi) di separare Giulio Tremonti da Berlusconi, usando (l’imprinting è bazoliano) Giuseppe Mussari presidente dell’Abi per portare su posizioni antiberlusconiane Emma Marcegaglia, arrivando alla fine (su prioritaria ispirazione di una sempre più sbandata Mediobanca) a inventarsi il governo Monti.
E ora? Mentre la Fiat grazie a Sergio Marchionne si occupa finalmente più di industria che di politica, e così Mario Greco alle Generali, Federico Ghizzoni e Giuseppe Vita a Unicredit, l’unico baluardino del vecchio establishment resta Intesa anche se Enrico Cucchiani ha in mente più di far da banchiere che regista di giochi nazionali, e l’asse Sergio Chiamparino-John Elkann gli fa da sponda, mentre Bazoli, non solo si è visto affondare Mussari ma ha perso con la non elezione di Umberto Ambrosoli in Lombardia l’ultima carta per sparigliare ed è condizionato dai non brillanti risultati (Rcs è solo l’ultimo esempio) che caratterizzano la sua lunga presidenza della banca.

Forse alla fine di questi venti anni si apre la via per un establishment nuovo non più chiuso e irritato dagli outsider: anche se non sarà facile ai «nuovi» esercitare quel ruolo unificante che un establishment anche aperto deve assumersi. Il rischio di defilarsi dalle proprie responsabilità si combina con certa frenetica irrisolutezza che si nota anche in un imprenditore di valore come Giorgio Squinzi.

(5 – continua)

 

Fonte_ srs di Lodovico Festa, da Il Giornale  di   Sabato  08 giugno2013

Link: http://www.ilgiornale.it/news/interni/guerra-dei-poteri-forti-20-anni-cordate-anti-cav-925145.html

 

CHI TOCCA IL GAS RUSSO SI SCOTTA: SILURATO PURE L’EX PREMIER GRECO (7)

 

Le trame contro il conservatore Karamanlis conducono allo stesso snodo di Berlusconi: il patto con Gazprom inviso agli Usa. E Atene indaga su un complotto per ucciderlo

 

Chi tocca la Russia muore (politicamente)? L’interrogativo, non solo per gli amanti di spy stories e complotti internazionali, è maledettamente attuale rispetto a ciò che è accaduto e che potrebbe accadere nella partita del gas che si gioca nel Mediterraneo.

 

Una partita con riverberi internazionali crescenti per via della crisi economica che da un triennio è esplosa in Grecia, per le soluzioni non intraprese, per i «no» che Bruxelles ha pronunciato (ispirati da chi?) nei confronti di quei rubli che avrebbero potuto soccorrere Atene e Nicosia. E soprattutto che ha coinvolto alcuni dei protagonisti di rapporti economico-imprenditoriali forse non troppo graditi oltreoceano.

Accanto alle ricostruzioni che da queste colonne sono state fornite sul triangolo Milano-Bengasi-Mosca, con l’emarginazione internazionale di Berlusconi premier nel 2009, nella vicina Grecia proprio nelle ultime settimane sta emergendo un filone analogo. Con similitudini temporali e contingenziali inquietanti ma con, rispetto al caso italiano, la certezza in più di un’inchiesta ufficiale della magistratura.

In scena l’ex premier conservatore Kostas Karamanlis, i suoi rapporti con Mosca e con Gazprom, il tentativo di dare seguito all’accordo sul South Stream (proprio come ha fatto Berlusconi) che avrebbe portato il prezioso gas direttamente nel mare nostrum. Nel 2004 Karamanlis vince le elezioni con il 45.36%, conquistando 164 seggi su 300. Tre anni dopo gli impongono le elezioni anticipate e nel settembre 2007 le vince nuovamente. Nulla può però quando, due anni più tardi, con i primi scricchiolii della crisi economica, i socialisti rifiutano le larghe intese e si impuntano per le urne, vincendo di poco. Ma senza che il premier Papandreou per almeno un anno dica una parola sulla voragine finanziaria del paese.

In Grecia lo dicono e lo scrivono da tempo: dopo le Olimpiadi del 2004, il conservatore Karamanlis si sarebbe «bruciato» per via del gasdotto e del ruolo che avrebbe potuto avere Gazprom, per nulla gradito a Washington. Un passaggio sul quale si è soffermato anche Dirk Mueller, ex broker della Banca di Francoforte, nel pamphlet Showdown che disegna gli scenari dell’ultimo biennio horribilis del continente. Sottolineando come Papandreou, fino a poche settimane fa leader dell’Internazionale socialista e ancora docente in un prestigioso campus americano, fosse niente altro che il factotum ad Atene di Washington e il frangiflutti puntato su Mosca.

I pm greci intanto indagano su una pista accreditata: qualcuno voleva assassinare Karamanlis quando era premier perché troppo vicino a Putin. Il primo articolo in merito venne pubblicato sul settimanale greco Hot nel 2011. È la stessa rivista diretta dall’inchiestista Kostas Vaxevanis, finito in cella sei mesi fa perché l’unico a diffondere i duemila nomi della lista Lagarde, un elenco di illustri evasori ellenici, in cui figurano uno dei principali consiglieri economici dell’attuale premier Samaras, Stavros Papastavrou, e Margareth Papandreou, madre di Giorgios, con la faraonica cifra di 500 milioni di dollari. La signora ha più volte smentito la sua implicazione, ma l’apposita commissione parlamentare di inchiesta è ancora al lavoro ad Atene.

Nel febbraio 2009 i Servizi greci informarono Karamanlis che secondo il Servizio federale russo per la Sicurezza (Fsb, ovvero l’ex Kgb) egli era diventato un obiettivo. In quei mesi sul territorio greco operava un «gruppo di lavoro» di 19 agenti russi per controllare la politica energetica del paese, così come ad esempio anche i parigrado italiani fanno in forma preventiva nelle zone dove è al lavoro l’Eni. Si faceva riferimento all’esistenza di un piano denominato «Pizia 1», che comprendeva quattro punti per danneggiare Karamanlis: instabilità politica attraverso lo scandalo Vatopedi su terreni concessi al clero ortodosso che nei mesi successivi è detonato sulla stampa nazionale; destabilizzazione economica, attraverso il progressivo degrado dell’economia greca e il rapimento di uomini d’affari; destabilizzazione sociale con disagio sociale e terrorismo. Su quest’ultimo punto un report dei servizi russi si esprimeva in questi termini: «L’attuale generazione di terroristi greci è controllata dai servizi segreti occidentali».

Ricostruzioni su cui anche Wikileaks appone una certificazione di autenticità, quando annota in data 17 dicembre 2007 una comunicazione dell’ambasciatore Usa ad Atene Daniel Speckhard: «.. al lavoro per “annullare“ l’acquisto di serbatoi nell’accordo con la Russia e nell’accordo per il gasdotto South Stream».
Quattordici mesi dopo, esattamente il 5 febbraio 2009, il Ministro degli interni Pavlopoulos, informò Karamanlis che secondo i servizi russi era pronto un piano per assassinarlo. Lo stesso Karamanlis da quel giorno restò confinato in «quarantena» per quasi un anno come emerge dal documento top secret del National Intelligence dal nome in codice «Special paper» (n. 219/5 del febbraio 2009). Mentre qualche giorno dopo nei pressi del monastero di St. Efraim ci fu anche un «incontro ravvicinato» tra agenti russi, colleghi occidentali e un nucleo del Mossad. L’intrigo è servito.

 

Fonte: srs di Francesco De Palo – da Il Giornale di Sabato   08/giugno, 2013

Link: http://www.ilgiornale.it/news/interni/chi-tocca-gas-russo-si-scotta-silurato-pure-lex-premier-925140.html

 

 

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