Giu 30 2009

Molise: note di archeologia e paleonologia

Category: Archeologia e paleontologiagiorgio @ 08:57

Spesso si è portati a pensare che i ricercatori non universitari, quelli che comunemente vengono chiamati dalle comunità  accademiche, e molto spesso in modo dispregiativo,  “appassionati” o “dilettanti”,   nascondono dietro di sé, nelle loro possibilità, una preparazione e un attaccamento allo studio da far impallidire i più blasonati baroni accademici.

Ultimamente mi  è capitato di andare in quel di Santa Maria di Zevio a salutare Alberto Solinas, libero ricercatore, conosciuto nell’ambiente archeologico nazionale soprattutto per essere stato lo scopritore del sito palentologico di “Isernia la Pineta” e poter ficcare il naso nella sua libreria, rimanendone  letteralmente impressionato dalla massa di  informazioni in essa archiviate. Sulla scrivania  vi era la copia di suoi studi ed articoli redatti, alcuni anni or sono, sull’ archeologia e paleontologia del “suo Molise”. Gli  ho chiesto se me li potevo leggere con calma, e se potevo  inserire qualche estratto  nel mio blob.

«sì! Fai pure, anzi se hai tempo  pubblicalo pure tutto, penso che sia una cosa  utile perchè  là,   in Molise, vi sono molti  distratti!»

Distratti?

«Si si; diciamo distratti.»

Molise: note di archeologia e paleonologia

di Alberto Solinas

INTRODUZIONE

La Preistoria o Paletnologia è una scienza ancora giovane, essendo nata verso la prima metà dello scorso secolo, quando alcuni studiosi cominciarono ad interessarsi concretamente dei resti abbandonati sui luoghi d’abitazione o di lavoro oppure dispersi sul terreno dagli uomini comunemente detti «primitivi». Scienza giovane ma che ha già fatto mola strada: è dunque ormai possibile tracciare classificazioni di aspetti culturali fondate su solide basi

La successione delle tre età, della Pietra, del Bronzo e del Ferro, venne accertata e stabilita per merito precipuo di due paletnologi danesi della prima metà del secolo XIX: Cristian J. Thomsen, direttore del museo di Copenaghen, e il suo successore Hans Worsaae.

La scoperta di un sito archeologico viene spesso fatta da «dilettanti».   Ad esempio, il più famoso protagonista della preistoria dei nostri giorni, «padre della preistoria  e genio dell’archeologia», Heinrich Schliemann, che scoprì e scavò Troia e Micene, era di origini assai modeste: figlio di un pastore protestante di campagna, fu garzone di bottega, poi commerciante di salnitro, piombo e legna.

Lo scavo archeologico, al tempo dello Schliemann (morì a Napoli nel 1890, all’età di 68 anni), consisteva nel semplice recupero di oggetti, mentre nella paletnologia moderna, intesa come ricostruzione della storia, sono necessarie, per la laboriosa interpretazione dei materiali all’interno di un giacimento, ricerche interdisciplinari tese a ricostruire l’ambiente naturale e la vita dell’uomo in quei tempi remotissimi.  Per questo vengono impiegati specialisti nei vari rami delle scienze naturali: geologi, paleontologi, paleobotanici, eccetera.

La ricostruzione degli avvenimenti e degli ambienti, nei vari periodi della preistoria si basa esclusivamente sulla ricerca e sull’interpretazione degli oggetti che si sono potuti conservare nei depositi, frutto delle attività umane.

Generalmente tutto ciò che è opera dell’uomo primitivo si trova sepolto nel terreno: sono questi i depositi antropici, così chiamati perché l’uomo ha contribuito in maniera determinante alla loro formazione. I giacimenti archeologici in grotta, o in ripari sotto la roccia, sono i più interessanti, perché si sono formati e conservati ai riparo dagli agenti atmosferici, mentre i depositi all’aperto hanno subito le intemperie e probabili manomissioni ad opera dell’uomo, pertanto  il loro studio diventa difficoltoso e poco attendibile.

Il giacimento archeologico è caratterizzato da una serie di strati terrosi all’interno dei quali si trova tutto ciò che l’uomo ha fatto in un determinato periodo della sua vita; questi strati si sono formati nel tempo per cause naturali, sovrapponendosi l’uno all’altro.

Il  deposito antropico può considerarsi, nel suo insieme, come un libro di storia ed ogni strato del deposito può essere paragonato ad un foglio di questo antichissimo volume scientifico, scritto però alla rovescia: la prima pagina stampata corrisponde cioè all’ultima pagina del testo.

Per questo motivo nelle fasi di scavo del giacimento è importantissimo seguire l’andamento di ogni singolo strato e leggerlo nel modo più accurato possibile, perché una volta tolto lo strato, si è praticamente distrutta una pagina del libro.

L’analisi stratigrafica consente di riconoscere la posizione e la distribuzione dei reperti abbandonati dall’uomo, permettendo così di ricostruire la vita che si svolgeva su quello spazio di terreno.

L’indagine legata alla ricostruzione della morfologia territoriale attorno al giacimento viene affidata agli studiosi di geomorfologia, i quali devono stabilire quali fossero le forme, e gli aspetti fisici del luogo, al tempo in cui questo era abitato dall’uomo, tenuto conto che nei secoli l’ambiente può aver subito profonde modifiche quali, ad esempio, la formazione o la scomparsa di un fiume o di un lago.

Lo studio dei terreni occupati dall’uomo primitivo viene eseguito da esperti di sedimentologia e pedologia; questi studiosi stabiliscono la provenienza dei depositi ed il loro processo di formazione. Si può così ricavare una preziosa messe di informazioni relative  all’ambiente e al clima in cui è avvenuta la formazione del giacimento, alla sua età e ai mutamenti naturali che si sono sviluppati nel tempo.

Le ricerche condotte dai paleobotanici, negli strati archeologici, sono importantissime per conoscere il rapporto tra ambiente naturale e l’insediamento umano: si possono infatti comprendere le ragioni per le quali un determinato territorio fu scelto dall’uomo quale dimora; le stesse ricerche contribuiscono poi, in misura determinante, alla ricostruzione di tutte le essenze arboree presenti e del clima in cui queste si sono sviluppate.

Lo studio dei reperti ossei faunistici è affidato ad esperti di paleozoologia, cui spetta un compito basilare per la comprensione del comportamento dell’uomo primitivo. Riconoscere i residui faunistici consente infatti di individuare i sistemi di caccia attuati dall’uomo e di capire inoltre se l’attività venatoria potesse essere anche

selettiva. Le ossa dei grandi mammiferi sono generalmente portate nel giacimento dall’uomo e costituiscono gli avanzi del suo pasto.

L’individuazione delle varie parti ossee di una stessa specie animale può condurre ad individuare i luoghi dell’uccisione o della macellazione, talvolta anche distanti dagli abitati umani. Il ritrovamento di singole parti scheletriche di determinati animali può portare gli studiosi alla conclusione che l’uomo ne abbia fatto un uso selettivo e specifico.

Resti ossei di micromammiferi, piccoli roditori ed insettivori,  si ritrovano frequentemente nelle grotte. Non essendo di solito avanzi del pasto umano, questi animali si sono introdotti nel giacimento spontaneamente e, essendo molto sensibili alle variazioni climatiche ed ambientali, il loro studio permette di ricavare notizie precise sui mutamenti intervenuti nell’ecosistema del giacimento.

Inoltre, poiché uccelli e pesci possono appartenere a specie migratorie, lo studio dei loro reperti scheletrici può portare ad accertare, con precisione, in quale stagione dell’anno l’uomo fosse presente in quel sito.

Molto frequenti, negli strati archeologici, sono anche i resti di molluschi d’acqua dolce o marina che forniscono indicazioni utili sul clima, sull’ambiente e sull’alimentazione umana, essendo i molluschi generalmente ritenuti avanzi del pasto dell’uomo, o da questo usati come gioielli o monete, «le conchiglie delle Cipreidi, ad esempio, furono usate come monete e lo sono tuttora presso i popoli con abitudini primitive».

L’esame dei resti scheletrici umani si svolge nell’ambito delle scienze antropologiche. Attualmente l’analisi dei resti ossei dell’uomo consente di conoscerne le caratteristiche fisiche e razziali, l’età ed il sesso; altre utili informazioni possono riguardare aspetti fisici particolari legati all’ambiente che frequentava o al suo regime alimentare.

Fin dall’inizio dello studio della paletnologia, le principali suddivisioni cronologiche delle culture preistoriche si sono fondate sui manufatti, ossei, litici o ceramici  raccolti nei depositi antropici.

Per tutto il Paleolitico ed il Mesolitico, rivestono importanza fondamentale gli strumenti in pietra. Poi, dal Neolitico fino alla fine della Protostoria, sono ancora basilari gli strumenti in pietra, ma soprattutto quelli ceramici e metallici.

Si tratta comunque di informazioni ed acquisizioni di valore relativo, poiché la Paletnologia essendo una scienza giovanissima, è in continua  rapida evoluzione, perciò quello che noi scriviamo oggi, domani potrebbe non essere più valido.

Nell’evoluzione umana vengono riconosciute, a grandi linee, alcune fasi di sviluppo culturale che sono state attribuite a tre specie:  Homo habilis, Homo erectus ed Homo sapiens, secondo una nomenclatura scientifica che indica:  con il primo termine il genere e con il secondo la specie.

I più antichi strumenti attualmente conosciuti sono quelli dell’Homo habilis, vissuto da circa 2.500.000 a circa un milione di  anni fa in Africa.

Questi antichissimi strumenti sono costituiti da ciottoli fluviali lavorati più o meno grossolanamente, togliendone schegge da un solo lato per ricavarne un margine tagliente, probabilmente usati per rompere rami ed ossa o scavare radici; il loro nome scientifico è choppers, ma vengono più semplicemente definiti ciottoli utensili.

Si rinvengono anche altri tipi di manufatti, a volte realizzati utilizzando le stesse schegge asportate per la modellatura dei choppers, raschiatoi, graltatoi, denticolati, incavi, che potevano servire ad un’infinità di usi come tagliare, raschiare o costruire altri utensili in legno.  Vi sono infine schegge non ritoccate, utilizzate sicuramente come coltelli per tagliare pelli, scarnificare ossa, recidere tendini, ecc.

L’Homo erectus è apparso in Africa circa 1.700.000 anni fa e si è estinto circa 100.000 anni dal presente.  I suoi manufatti, all’inizio, somigliano molto a quelli delle epoche precedenti, con una caratteristica distintiva: i ciottoli utensili sono scheggiati su due lati; nasce così il cosiddetto chopping-tools.

Dall’Africa sud-orientale tra 1.600.000 e 1.000.000  di anni  fa l’Homoe erectus appare in Europa

Circa 500.000 anni fa il chopping-tools subì un’evoluzione: il ciottolo veniva scheggiato su tutta la sua superficie per realizzare un utensile definito, con termine tecnico, bifacciale o amigdala, o più semplicemente ascia a mano.  Per la realizzazione di questi strumenti vengono sempre più frequentemente utilizzati ciottoli di selce.

Scomparso l’Homo erecrus, ne prende il posto l’Homo sapiens, altrimenti conosciuto come Homo neandenhalensis.

La figura di questa specie umana, ritenuta uno scimmione fino a pochissimi anni or sono, è stata rivalutata attraverso le più recenti scoperte; con la sua nuova cultura, che ha origine circa 100.000 anni fa, termina infatti il Paleolitico inferiore ed inizia il Paleolicico medio o  Mousteriano

Da principio l’uomo di Neanderthal continua a costruire strumenti come il suo predecessore. Poi applica esclusivamente la tecnica levalloisiana: dal ciottolo in selce toglie schegge e soltanto da queste ricava poi utensili specifici.

E’ l’uomo di Neanderthal a compiere le prime opere artistiche e a praticare i primi riti religiosi, come denunciano le sepolture umane e quelle dell’orso delle caverne, probabilmente ritenuto un animale sacro.

L’uomo di Neandenhal sembra essersi estinto 35.000 anni fa; al suo posto appare l’Homo sapiens sapiens, cioè l’uomo attuale.

Con l’avvento dell’uomo moderno termina il Paleolitico medio ed inizia il Paleolitico superiore; le sue manifestazioni artistiche sono spettacolari, ne sono un esempio le caverne dipinte, e gli strumenti silicei  realizzati per essere destinati ad un utilizzo sempre più specializzato.

Circa 12.000 anni fa terminava il Paleolitico superiore e iniziava il Mesolitico, durante il quale gli strumenti vengono costruiti con caratteristiche microlitiche: sono cioè molto piccoli e presentano forme geometriche, prevalentemente triangolari e trapezoidali.

Al Mesolitico succede il Neolitico, nuova civiltà apparsa in Italia circa 8.000 anni fa. In questo periodo si compie la prima grande rivoluzione della storia dell’umanità: l’uomo, da nomade cacciatore, si trasforma in agricoltore e allevatore con dimore stabili.  Appaiono i primi recipienti in terracotta e vengono realizzati strumenti litici specificamente destinati all’agricoltura: zappe, falci ecc..

Il Neolitico ha lasciato il posto all’età del Rame, o Eneolitico, circa 5.000 anni fa; nel corso di questo periodo, che segna l’avvento dei metalli nella costruzione degli utensili, gli strumenti litici tuttavia non scompaiono: ne sono prova i magnifici pugnali in selce, ad imitazione di quelli, costosissimi,  in rame.

Soltanto sette secoli più tardi, con la fine dell’Eneolitico e l’inizio  dell’età del Bronzo, gli oggetti in selce si riducono abbondantemente e, dove è possibile, si costruiscono in bronzo; la definitiva scomparsa dei manufatti litici avverrà con l’età del Ferro, iniziata circa 3.000 anni fa.

Nello studio della Paletnologia, però, lo sviluppo degli strumenti in pietra non basta, da solo, per datare in modo attendibile i giacimenti preistorici; per questo motivo si è fatto ricorso a metodi più precisi e sofisticati.

Per i periodi più recenti, quali l’età del Ferro e l’età del Bronzo, viene utilizzato anche il sistema della dendrocronologia, ma il metodo di datazione di gran lunga più applicato è quello del radiocarbonio   0.14 C.

Per datare giacimenti ancora più antichi si ricorre al sistema del potassio-argon: questo metodo di calcolo si basa sul decadimento di un isotopo radioattivo del potassio, presente nelle rocce eruttive, il 40K che decade in 40 Ca e 40 Ar, dal momento in cui inizia il raffreddamento delle rocce laviche e dalla conseguente formazione di limpidissimi cristalli di sanidino.

Il rapporto  tra potassio e argon nei cristalli consente di determinare l’epoca in cui si è solidificata la roccia: essendo noto il periodo di dimezzamento del potassio radioattivo è infatti possibile, sulla base della quantità di argon presente nel sanidino, risalire all’epoca in cui si sono formati i cristalli. Con questo metodo è stato possibile datare i più antichi resti umani ed i primi manufatti creati dall’uomo.

Un diverso metodo di datazione è quello del paleomagnetismo.

Va tenuto presente che, per cause non ancora individuate, il polo nord, vale a dire il polo positivo della calamita terrestre, non si è sempre trovato nell’emisfero artico: con il susseguirsi delle ere geologiche si sono verificate numerose inversioni di polarità tra il nord e il sud; l’Artide, nel corso dei millenni è così passato più volte da una carica positiva ad una carica negativa e viceversa.

All’interno delle lave vulcaniche, durante il loro lento raffreddamento, si formano cristalli; le particelle magnetiche di quei cristalli si orientano secondo il campo magnetico terrestre di quel momento, e mantengono invariato tale orientamento, anche nel caso di successive inversioni di polarità.

Sulla base di queste conoscenze è stato possibile ricostruire, con riferimento ad un determinato giacimento, le vicende del magnetismo terrestre nel corso delle varie ere geologiche; le conclusioni che questo metodo permette di raggiungere, non presentano tuttavia l’attendibilità  assoluta.

Utilizzando il metodo di datazione del potassio-argon, insieme a quello del paleomagnetismo, si sono elaborate tabelle cronologiche delle varie inversioni del campo magnerico negli ultimi milioni di anni; in particolare negli ultimi cinque milioni di anni si sono succeduti:

1) il periodo con magnetismo inverso, detto periodo di Gilbert, fino a 3.400.000 anni fa;

2) la fase con magnetismo normale detta di Gauss, fino a 2.480.000 anni fa;

3) il periodo con magnetismo inverso, detto di Matuyama,  fìno a 730.000 anni fa.

Questa lunga premessa sulla metodologia della ricerca, e sulla cronologia preistorica, è necessaria per comprendere appieno l’importanza dell’ argomento; si rende altresì necessario un richiamo ai primordi dello studio della preistoria italiana per comprendere come si sia arrivati alla scoperta del giacimento di Isernia La Pineta.

Il padre della paletnologia italiana è, seondo l’opinione prevalente, Luigi Pigorini, nato a Fontanellato (PR) nel 1842. Nominato direttore del Museo archeologico di Parma a soli 25 anni, Pigorini fandò, nel 1875, il Museo Nazionale Preistorico ed Etnografico a Roma, da poco divenuta capitale d’ltalia (il museo prenderà poi il nome del suo fondatore).

Nello stesso anno, Pigorini creò il “Bullettino  di Paletnologia Italiana” pubblicando, sul secondo numero, l’anno successivo, il primo studio sulla preistoria molisana :« L’età della pietra nella provincia di Molise».

Nel suo saggio lo studioso scriveva:  «Una delle province italiane; nella quale parvero fin qui scarseggiare le armi e gli utensili dell’età della pietra, è senza dubbio quella di Molise e Campobasso. Il primo ad indicare che non vi mancavano reliquie di quella remota età fu il Bonucci, il quale ne raccolse pel duca di Luynes nel 1864. Pochi anni appresso il Nicolucci, che avea già posto lungo studio e sommo amore nel riunire materiali e notizie paletnologiche da ogni parte dell’Italia meridionale, nel porgere una sommaria relazione delle sue fatiche così nel 1871, come nell’anno seguente, non ebbe modo di riferire altri particolari sull’età della pietra della provincia di Molise, e dovette stringersi a riprodurre il cenno del Bonucci.

Soltanto il Cocchi ricordò nel 1872 che una punta di freccia di selce, raccolta in quel territorio e non menzionata prima da alcuno, esisteva nel gabinetto paleontologico dell’Istituto Superiore di Firenze. In tanta povertà di notizie sull’età della pietra della provincia di Molise, torna senza dubbio utile di accennare che anche per essa il numero delle armi e degli utensili litici è oggi considerevolmente aumentato, mercè acquisti fatti dal sig. Achille Graziani di Alvito e dal dott. Nicolucci, non che dal Museo Nazionale Preistorico ed Etnografico di Roma.

Gli oggetti posseduti dal sig. Graziani consistono in otto punte di frecce di selce, raccolte rimovendosi profondamente il terreno in un fondo di sua proprietà, nel comune di San Vincenzo al Volturno.

Più importanti pel numero e per la varietà delle forme sono invece quelle esistenti presso il dott. Nicolucci. Ne fanno parte una freccia del ricordato fondo Graziani; quattro frecce, una lancia, tre coltelli ed un raschiatoio a cucchiaio, provenienti da Isernia; otto coltelli raccolti in quel di Larino; un raschiatoio discoide e due coltelli di Casacalenda; una lancia ed un grande e sottile raschiatoio in forma di ventaglio mezzo spiegato di Civita Campomarano, tutti quanti di selce, e finalmente una scure di diorite trovata presso Jelsi.

All’elenco, favoritomi dal Nicolucci, sono lieto di far seguire quello di altra pregevole serie di manufatti litici, pressoché tutti di selce, della provincia di Molise, esistente nel Museo Nazionale Preistorico ed Etnografico di Roma.

Essa comprende, oltre a scarti ed abbozzi dei quali non giova tener conto,

una freccia di Petrella Tifernina ed un coltello di Montorio nei Frentani, regalati dal sig. Leonardo Girardi di Petrella;

-una freccia di Riccia donata dal prof. G. Mola di Campobasso;

due coltelli della stessa località;

sei frecce di Carovilli,

una punta di lancia, fra le più belle del cosìddetto lavoro archeolitico;

tre frecce ed alcuni coltelli di Cercemaggiore;

-un coltello di Molise;

-alcuni coltelli e due frecce di Pietracatella;

-un’accetta di diorite e quattro coltelli di San Biase, offerti in dono al detto Museo dal prof. Luigi Gamberale di Campobasso;

tre frecce di varie località del comune di Sant’Angelo Altissimo;

-un coltello e una freccia del Matese fra Campo Chiaro e Guardiaregia;

-un coltello e una freccia del podere Monte Calvario nel comune di Campobasso, inviati dal sig. Domenico Bellini di Campobasso;

-trentatre frecce (di cui alcune costruite con selce proveniente dal Gargano – n.d.r.).

-sette coltelli;

-due punceruoli;

-un’accetta di diorite;

-una punta di giavellotto ed un raschiatoio di lavoro così detto neolitico,

-oltre a due accette;

-tre coltelli;  una lancia e un raschiatoio fabbricati a grandi e semplici scheggiature, oggetti tutti quanti raccolti nelle campagne di Venafro e generosamente ceduti al Museo Preistorico di Roma dal sig. don Francesco Lucenteforte, primicerio del capitolo di quella città.

Ai quali poi sono da aggiungere, per essere dello stesso territorio e facenti parte della collezione Lucenteforte, una punta di lancia di selce e un frammento d’altra consimile, i quali giacevano in una tomba nella Corona de’ Coppa, località nel comune di Pozzilli (i due manufatti si trovano al Museo Nazionale Pigorini e sono riferibili all’età del Rame – n.d.r.).

Di tutti quanti i manufatti litici della provincia di Molise, i soli che io abbia modo di esaminare, sono quelli del nuovo Museo Preistorico ed Etnografico. Di essi peraltro poco può dirsi che non sia stato già notato,  per oggetti consimili rinvenuti altrove. Svelano in generale l’arte migliore dell’età della pietra, e le punte di freccia sono pressoché tutte pregevoli: o per la loro lunghezza, o per la squisitezza del loro lavoro, o per la loro conservazione.

Ricorderò soltanto, come particolarità degne di considerazione, che quella di  Petrella Tifernina è dentata ai bordi (fig. V), e che una di quelle del  territorio di Venafro è munita di un appicagnolo d’argenlo (fig. VII), e portavasi al collo di un bambino quale amuleto per essere preservato  dal fulmine, riproducendo un fatto osservato in parecchi altri punti d’Italia.

Ma, fra gli oggetti litici della provincia di Molise posseduti dal Museo di Roma, meritano particolare attenzione il coltello di Montorio nei Frentani, e l’accetta dei dintorni di Venafro. Il primo (fig.IV)  lungo centimetri 21 è senza dubbio uno dei più notevoli coltelli fino a qui osservati in Italia. Riproduce, nella disposizione e nel modo delle scheggiature praticate sui bordi, lo stesso tipo e la stessa arte di quello della Valle della Vibrata nell’Abruzzo Teramano.

L’accetta, come ne diede notizia il sig. don Francesco Lucenteforte alla Direzione Generale dei Musei e degli Scavi, fu scoperta, e a quanto si crede non associata ad altro, “alla profondità di quasi sei metri tra uno strato di argilla e uno di ghiaia, cavandosi le fondamenta di una casa colonica presso il villaggio di Ceppagna, discosto a 5 chilom. circa a sud-ovest dalla città di Venafro.”

Lavorata a semplici e grandi scheggiature, è di notevole larghezza nel capo, e termina nella estremità opposta quasi in punta, leggermente arrotondata e con acuto tagliente. Larga nel capo maggiore cent. 10, e della totale lunghezza di cent. 24 circa.

Nell’oggetto litico del villaggio di Ceppagna, come par chiaro dalle figure che ne presento (fig. I e II), abbiamo una delle accette scheggiate, fatte a guisa di lancia, frequenti a scoprirsi in Francia e nell’Inghilterra, e che si incontrano altresì nel Belgio, nella Spagna, in molti punti dell’Asia e nell’Africa occidentale.

È noto ad ognuno che, per essere tale foggia di strumenti comunissima a Saint-Acheul,  tanto da costituire ivi 1’80 per 100 delle selci lavorate, ne fu dai Francesi, e particolarmente dal De Mortillet, creato il tipo speciale detto Acheulèen.

Giova peraltro osservare che poche fra le accette consimili delle regioni estere presentano le dimensioni dell’esemplare di Ceppagna, ed è  noto che all’Esposizione Universale di Parigi se ne ammirava una dell’eccezionale lunghezza di cent. 29, in generale la misura di quelle di Francia sta fra i 15 e i 20 centimetri.

Il tipo Acheulèen o, come noi dobbiamo chiamarlo, delle grandi accette scheggiate a foggia di lancia, ebbe il suo maggiore sviluppo nel periodo preglaciale, secondo le osservazioni del De Mortillet.

Non potrebbe peraltro alcuno affermare che a tale periodo risalga pure l’esemplare del villaggio di Ceppagna, non avendone assolutamente prove desunte dalla natura dello strato in cui giaceva.

D’altra parte, ove si rifletta che armi ed utensili della stessa arte si raccolsero, quanto all’Italia, in terreni di recente formazione, e così nell’Abruzzo Teramano dal Rosa, nella Capitanata dall’Angelucci, nel Perugino dal Bellucci, e nell’lmolese dallo Scarabelli, si hanno argomenti sempre nuovi per affermare come non si possa assolutamente determinare l’età geologica di un qualsiasi manufatto di selce, giudicandolo soltanto dalla maniera del lavoro.

Dobbiamo quindi non solo ritenere col Gastaldi che la divisione dell’ età della pietra in periodo archeolitico e in periodo neolitico “in Italia non è sempre applicabile”, ma concludere altresì col Nicolucci “che gli strumenti litici delle età più remote non furono punto obliati o negletti nelle età posteriori, e se ne continuò l’uso anche in epoche a noi più vicine”.

Ciò del resto venne pure ammesso per altri paesi,  e nel Congresso Preistorico di Bruxelles, lo stesso De Mortillet ebbe ad osservare come ad Hoxne nell’Inghilterra si abbia esempio del tipo Acheulèen mantenutosi nel periodo posglaciale.

Deve insomma essersi verificato lungamente, durante le età preistoriche, quello che oggi ancora si osserva fra i popoli rimasti selvaggi, vale a dire, che mentre taluni fabbricano armi ed utensili, che trovano riscontro nei tipi del periodo della pietra levigata, non mancano quelli che, come gli Australiani, conservano le forme primitive degli strumenti litici appena scheggiati. (Oggi possiamo dire con precisione che lo strumento di Ceppagna è un bellissimo bifacciale di eccezionale grandezza, databile alla civiltà Acheuleana compresa tra circa 500.000 e 150.000 anni fa. Di questa ascia a mano è rimasta una fotografia in Le meraviglie del passato, voI. I, Mondadori, p. 52 n.d.r.). .

A completamento delle mie brevi parole sull’età della  pietra della provincia del Molise, chiamo l’attenzione dei lettori sulla punta di lancia di selce e sul frammento d’altra consimile, di cui si ammirano le figure (fig. 11 e IV) della tavola annessa.

Quella intera (figura 1/1) venne ricavata da una delle lunghe schegge a sezione triangolare e, nel lato opposto a quello finito a minuti ritocchi, presenta tuttora la faccia concava, quale ebbe necessariamente a risultare staccando la scheggia dalla madreselce; e sanno i paletnologi come si scoprano di frequente nelle stazioni litiche d’ogni paese punte di lance, di giavellotti e di frecce, non che punteruoli fabbricati nella stessa maniera.

Tale punta di lancia, come ebbe cortesemente a scrivermi il ch. sig. Lucenteforte, proviene da un sepolcro, il quale  “giaceva in un podere dei signori Guarini, denominato Corona de’ Coppa, esistente nel lembo orientale della pianura di Venafro, ma nel comune di Pozzilli. Lo scheletro era nella nuda terra, ne sasso alcuno vi si vedeva. Quel sepolcro dovette essere stato in epoca remotissima violato, come lo indicano ed il rimescolamento delle ossa, e le selci stesse che vi si trovarono (tre soltanto), delle quali due non sono che parti d’una medesima lancia”.

Mancando ora il mezzo di accertare se nella particolare giacitura dello scheletro, e nel fatto che le armi di selce erano spezzate dovevansi vedere le prove di una violazione subita dal sepolcro, o piuttosto gli indizii di una speciale costumanza funebre, quella cioè di collocare presso la salma le armi rotte in segno di duolo, io mi limito a segnalare che nella tomba della Corona de’ Coppa il solo oggetto litico ricomposto si presenta come una delle più belle armi fabbricate durante l’età della pietra.

Anche nei sepolcri contemporanei di Roccasecca, in Terra di Lavoro, e di Cantalupo Mandela nella Campagna Romana, per citar quelli che debbono forse ritenersi i più importanti di tutta Italia, la perfezione e la bellezza degli oggetti litici che contenevano, suscitano sempre l’ammirazione dei paletnologi, mentre non è che in via di eccezione se nelle stazioni e nelle officine litiche si trovano armi ed utensili altrettanto notevoli per volume o per arte. (Attualmente sappiamo che nelle tombe venivano sistemati come corredo gli oggetti più cari al defunto ma spezzati, in modo da renderli inutilizzabili ad un eventuale profanatore – n.d.r.).

In siffatta differenza fra gli oggetti litici delle tombe e quelli delle stazioni di uno stesso periodo, parmi si abbiano prove sicure per affermare, che, nei sepolcri deponevansi in generale soltanto i prodotti migliori dell’industria litica.  Io  credo quindi che i paletnologi debbano procedere con molta cautela nel determinare diversi periodi dell’età della pietra, quando i fatti che si pongono a confronto non siano identici in ogni loro particolare, cioè non si mettano in comparazione case con case e necropoli con necropoli, cercando poi scrupolosamente i rapporti tra le abitazioni e i cimiteri che sembrano essere di una medesima famiglia. Tombe e stazioni di uno stesso periodo e di uno stesso popolo possono contenere oggetti apparentemente così disparati, che ove si facessero atlanti  distinti delle reliquie litiche delle une e delle altre si sarebbe condotti a stabilire fasi diverse di una industria esercitata forse in una identica età e da una sola gente, ma in condizioni differenti con diverso fine.

Se sapremo porre un freno al desiderio troppo forte di  fare in ogni momento nelle nostre ricerche, scoperte nuove, e non saremo tanto vaghi nel  modificare spesso con divisioni e suddivisioni  la più semplice e la più naturale classificazione del materiale raccolto,  io credo che ci accosteremo sempre più al punto ove sono rivolte  le cure nostre.»

«In aggiunta alla memoria in questo Bullettino pubblicata (ann. II. p. 119-125) Sull’età della pietra della provincia di Molise, possiamo annunziare che altre armi ed utensili litici di quel territorio furono regalati al Museo Nazionale Preistorico di Roma, dal sig. Francesco Pallotta sindaco di San Giuliano del Sannio e dal prof. Gamberale di Campobasso. Provengono dai comuni di Boiano, Castellino di Biferno, Jelsi, Matrice, Pietrabbondante, Pietracatella, Riccia, San Biase e San Giuliano del Sannio».  COSI’  SCRIVEVA  PICORINI.

Sempre nello stesso anno (1876), venne inaugurato il Museo Nazionale Preistorico ed Etnografico di Roma. In quella prima mostra il materiale preistorico esposto era pochissimo; vi erano comunque reperti provenienti: dalla Liguria, dall’Emilia, dal bresciano, dal veronese, dal Friuli Venezia Giulia, dal Lazio, dalle Marche, dall’Abruzzo, dal Molise, dalla Campania e dalla Sicilia. Questo elenco di località dimostra che il Molise è una delle più importanti regioni italiane legate allo studio della nascente scienza della preistoria.

Due anni dopo, Giustiniano Nicolucci, già ricordato dal Pigorini, nel suo saggio dal titolo Oggetti preistorici della provincia di Molise, pubblicato nel Bullettino di Palecnologia Italiana, anno IV, 1878, scriveva:

«…Di questa provincia poche armi ed utensili in pietra, da me ricordati in alcune mie pubblicazioni, erano conosciuti fino al 1876, quando il Pigorini ne descrisse circa un altro centinaio che egli riuniva nel Museo Preistorico di Roma (Bullettino di Paletnologia Italiana, Luglio 1876), fra i quali parecchi d’importanza non ordinaria.

Una serie discreta potei aggiungerne anch’io recentemente alla mia collezione per la gentile cortesia del Sig. Primicerio D. Francesco Lucenteforte di Venafro, il quale mi fe’ dono di preziosi avanzi preistorici da lui raccolti con amore nel  territorio di quella città,  sicche al presente anche il contado di Molise non si mostra più così povero, come pareva per lo innanzi, in fatto di oggetti dell’età della pietra.

Fra i vari esemplari donatimi dal sig. Lucenteforte prendo ora a descriverne uno solo, che è un amuleto ben conservato, consistente in una testa di serpente (fig. 1, a prospetto, b profilo).

Questo amuleto fu trovato cavandosi un fosso di scolo, in un terreno nelle vicinanze di Venafro, alla profondità di circa un metro dalla superficie del suolo. Ivi dappresso, e quasi alla stessa profondità, si erano rinvenuti altra volta e frecce e coltelli ed altri arnesi di pietra, che il sig. Lucenteforte donava generosamente al Museo Preistorico di Roma.

L’amuleto di cui favello è in quarzo bianco compatto, e rappresenta la testa di un serpente di mediocre grandezza. Gli occhi consistono in due fori rotondi, praticati nel sito appunto in cui i serpenti sogliano averli, e sono ripieni di una sostanza minerale nerastra, che è un ferro ossidulato a struttura finamente granulosa. La forma sembra riprodurre quella della biscia d’acqua dolce (Tropidonotus natrix)…

L’altro oggetto che io prendo a descrivere (fig. 2, a e b), proveniente anch’esso dalla provincia di Molise, è un coltellone rinvenuto in Gambatesa, piccolo comune del circondario di Campobasso, ad una certa profondità del terreno, mentre si eseguivano lavori di agricoltura.

È conservato in tutta la sua integrità, ed ha la lunghezza di 22 centimetri, la larghezza, nella base, di 6 e mezzo, e nella punta. che è smussata, di 3. La spessezza dello stesso, che va digradando dalla base alla punta, è di 4 centimetri nella prima e di uno e mezzo presso alla seconda. Il suo peso è di 504 grammi…

Di questo prezioso avanzo dell’alta antichità io sono debitore all’illustre Prof. A. Scacchi, alla preziosa benevolenza del quale è dovuta gran parte de’ più rari oggetti che si conservano nella mia collezione».

Di questi due straordinari oggetti sembra si siano perse le tracce.

Nel 1881 il prof. Francesco Sciali aveva pubblicato sulla Rivista Italiana di Palermo II serie n° 15-20, una serie di Articoli intitolati Cenni sull’importanza dell’archeologia preistorica. Nell’articolo n° 18 racconta che in quel di Monteroduni, tra la sponda di un supposto lago ed il Volturno, fu trovato uno scheletro umano con un pugnale ed una punta di selce. Il prof. Scioli ebbe quelle armi litiche ma non le ossa umane perché andarono perdute.

L’anno successivo il prof. Michele Del Lupo scriveva Concribuzioni agli studi di Antropologia in Rivista Scientifico-Industriale e Giornale del Naturalista, Firenze 1882, su vari oggetti litici da lui posseduti o esistenti presso il Gabinetto di Antropologia dell’Università di Napoli, raccolti nei territori di: Riccia, Gambatesa, Jelsi e Venafro. A p. 202 lo studioso si limitava a descrivere i reperti dei comuni di Riccia, Gambatesa e San Bartolomeo in Galdo e indicava con precisione i nomi delle località ove si rinvennero gli strumenti preistorici.

Due anni dopo, nella stessa rivista, il prof. Del Lupo sriveva Contribuzioni agli scudi di Paleoetnologia delle province meridionali d’Italia. Aggiornava lo studio precedente e descriveva ben 220 strumenti litici, aggiungendo alle precedenti località  quelle di Castelpagano, Civita Campomarano, Campochiaro e Circello.

Sempre Luigi Pigorini scrisse nel Bulleccino,. anno XIII, 1887  un importantissimo studio sulla  preistoria molisana: Tombe neolitiche scoperte nel Comune di Monteroduni in provincia di Campobasso.

Così l’autore:

«In questo Bullettino” si è più volte trattato delle Jntichità dell’età della pietra che appartengono alla provincia di Molise o Campobasso, con articoli speciali miei e del prof. Giustiniano Nicolucci, e con recensioni da me fatte di lavori paletnologici pubblicati dal prof. Michele Del Lupo. Aggiungo ora alle cose dette questa breve nota sopra due tombe neolitiche (dalla tipologia di costruzione delle due tombe e dagli oggetti del corredo oggi sappiamo che sono riferibili all’età del Rame (quindi più recenti – n.d.r.) rinvenute nella mentovata provincia  valendomi di notizie gentil mente favoritemi dal prof. Francesco Sciali di Monteroduni.

Uno dei sepolcri, del quale il prof. Sciali diede un cenno nel 1881, riprodotto poscia nel Bullerrino, esisteva nella contrada le Soccie, comune di Monteroduni, sulla destra del Volturno. Era scavato in forma di parallelepipedo nel tufo calcare del sottosuolo, coperto da larghe lastre parimenti di tufo, accostate l’una all’altra. Nel fondo, insieme con ossa umane frantumate ea quanto si afferma, disordinate, giacevano due armi di selce piromaca. pregevoli per la grandezza e la forma, e per la finezza dell’esecuzione. Tali armi, che si conservano nel Museo Sannitico di Campobasso cui lo Sciali ne fece dono, consistono in una lama di pugnale e in una cuspide di lancia, quando non debba considerarsi un pugnale pur questa. La prima, a giudicarne dal disegno avutone dovrebbe essere lunga circa cent. 18: è stata ricavata da una delle note lamine di selce a sezione triangolare, comunemente chiamate coltelli, e non ha ritocchi nella faccia piana. La cuspide invece, bellissima, è di forma ovoidale, con minuti ritocchi in ambo i lati, di circa 14 o 15 cento di lunghezza, e di 6 o 7 nella sua massima larghezza.

Come il sepolcro precedente, così il secondo del quale devo fare menzione, si rinvenne nella contrada le Soccie, e di questo non è stato dato ancora cenno alcuno. Lo trovò casualmente un contadino, dal quale il prof. Scioli ebbe parte di ciò che conteneva, e le notizie che aggiungo. Consisteva pur esso in un cavo praticato nel tufo, chiuso come l’altra tomba da lastre della stessa roccia. Sul fondo eravi uno strato di materia nera che il contadino giudicò cenere, e annerite erano le pareti del cavo, non che le ossa umane andate in frantumi col cranio. Degli avanzi dello scheletro il prof. Scioli vide soltanto un osso, che suppose avesse subita l’azione del fuoco. Non si hanno però buone ragioni per ritenere che fosse una tomba di cadavere combusto, non potendo dare molto peso alla opinione dello scavatore, il quale non è in grado di riferire con esattezza ciò che ha veduto.

S’ignora quanti e quali fossero gli oggetti esistenti nel sepolcro. Lo scopritore parla di armi di selce piromaca disperse, e di un vaso fittile ridotto in pezzi, lasciati sul campo; inoltre una punta di freccia di selce con peduncolo e corte alette, lunga cent. 3, è stata smarrita dal prof. Scioli. Del corredo della tomba rimangono soltanto tre oggetti, dei quali il prof. Scioli mi fece cortese dono pel Museo Preistorico di Roma, cioè una cuspide di freccia e una lama di pugnale di selce, oltre ad un vasetto fitti le (attualmente sono al museo Pigorini – n.d.r.).

La cuspide, al pari di quella smarrita, è ad alette e peduncolo, lunga mm. 65. La lama del pugnale si rinvenne in tre pezzi, e la patina e le incrostazioni che si osservano nei punti di rottura, mostrano che si collocò nel sepolcro spezzata; dei tre pezzi non si raccolse il più piccolo, per la mancanza del quale resta interrotto circa a metà uno dei tagli dell’arma. Si congiungono invece perfettamente i due pezzi maggiori per formare l’altro taglio che è della lunghezza di cent. 18: presso la base, che è tondeggiante, si ha una larghezza di cento 3.  Anche questa lama di pugnale, come quella dell’altra tomba, fu ricavata da una lamina a sezione triangolare, scheggiata minutamente da un’estremità all’altra, fuorché nella faccia piana.

Il vasetto fittile è rozzamente fabbricato a mano, senza fregio alcuno, di pasta grossolana, nerastra nell’interno, e alla superficie di colore rosso cupo per essere stata cotta a fuoco libero. Non è intero: ne rimane anzi poco più della metà, cioè il fondo, piatto, del diamo di cent. 6, e un pezzo di parete. Questo si congiunge perfettamente col fondo, ha al disopra un residuo del labbro, sottile, e porta nel mezzo una piccola ansa tubolare, lunga circa mill. 40, disposta verticalmente. Un’ansa simile esisteva senza dubbio nella parte opposta della parete, ora mancante, e per esse si aveva modo di appendere o portare il vaso mediante un cordoncino. L’altezza del vasetto è di circa cent. 8. .

Amendue le tombe della contrada le Soccie, evidentemente coeve, si riferiscono al periodo e al popolo cui appartiene quella, neolitica, già da me descritta nel Bullettino, scoperta anni sono nel podere Corona de’ Coppa, comune di Pozzilli, sul lembo orientale della pianura di Venafro, nella stessa provincia di Campobasso.

Anche in questa, come nelle due del territorio di Monteroduni, si osservò un tal quale rimescolamento di ossa umane, che fece pensare a un’antica violazione dei sepolcri. Dopo gli studi compiuti in Italia e fuori sopra fatti analoghi, non è inverosimile che qualcuna almeno delle ricordate tombe neolitiche della provincia di Campobasso fosse di quelle nelle quali deponevansi le ossa umane scarnite, e per ciò disordinate, non già il cadavere intatto. Di tale rito funebre seguito nell’età neolitica fu ripetuta mente parlato nel Bullettino.

A complemento della mia breve scrittura noto per ultimo che tanto nel secondo sepolcro della contrada le Soccie, quanto in quello del podere Corona de’ Coppa la lama del pugnale si rinvenne in frammenti, per essere stata rotta in antico. Simile circostanza sembra avvalorare l’opinione altre volte espressa, che talora cioè, nell’età neolitica, le armi per rito si collocassero spezzate nelle tombe.

Non è improbabile che nella contrada le Soccie o nei terreni attigui esistano altre tombe le quali facciano seguito alle due brevemente descritte. Ricerche un po’ estese che ivi si eseguissero colle norme scientifiche le più rigorose potrebbero condurre a risultati importanti. Auguro di cuore che vi si ponga mano, raccomandando che colle maggiori cure si osservi la profondità e la forma dei sepolcri che per caso si rinvenissero, si notino le relazioni tra di essi, si tenga conto scrupoloso di ciò che ognuno contenesse, notando con diligenza la distribuzione degli oggetti in ciascuna tomba. PIGORINI

I primi strumenti silicei raccolti nello scavo per i lavori di costruzione della superstrada nei pressi di Isernia

Conoscenze paletnografiche di fine ‘800.

Per quanto possa apparire strano, quello pubblicato nel 1887 da Luigi Pigorini è l’ultimo studio sulla paletnologia molisana; seguirono, poi, solo piccole note: nel 1908 apparvero solo due brevissime note scritte da A. Di Blasiosio in Bricio  di  paletnologia  meridionale, e nella Rivista Italiana di Scienze Naturali, e nel Bulettino del Naturalista Collettore, Siena.

In esse l’autore tratta del coltello di selce con manico di calcare, vale a dire il bifacciale di Ceppagna, e della capanna-sepolcro dell’epoca neolitica scoperta nel bosco di Sepino, territorio di Campobasso.

Verso la fine del secolo scorso alcuni studiosi locali raccolsero manufatti oggi custoditi nel museo Pigorini di Roma, nel museo di Agnone, in quello di Baranello (la raccolta dell’archeologo G. Barone fu donata al Comune nel 1896) e nel Museo Sannitico di Campobasso.

Una sola scoperta paletnologica venne segnalata negli anni ’30 nel territorio del comune di Jelsi, dove furono rinvenute due tombe tipiche dell’età del Rame. La prima, dalla struttura “a forno“, misurava circa tre metri di diametro e altrettanti d’altezza; la seconda, posta al di sotto della precedente, presentava invece una struttura “a pozzo“. Le due camere erano messe in comunicazione tra di loro mediante un’apertura in pietra di forma quadrata; in uno dei due sepolcri furono rinvenuti resti umani e frammenti di vasi in terracotta. Sempre a Jelsi, prima dell’ultima guerra mondiale, si registrava in Casa D’Amico una notevole collezione di strumenti litici raccolti nella zona.

Il vecchio materiale siliceo molisano custodito nei musei sopra citati (il Pigorini di Roma, quelli di Agnone e Baranello ed il museo Sannitico di Campobasso) può essere elencato, secondo le zone di rinvenimento, come segue.

PROVINCIA DI ISERNIA:

Venafro: 36 punte e 6 lame;

Pozzilli: un pugnale ed un frammento di lama (raccolti nella tomba di Corona de’ Coppa);

Monteroduni: un pugnale, una punta e il vasetto raccolti nella tomba di contrada le Soccie e una lama;

Santa Maria Oliveto: una punta;

Macchia d’Isernia: 3 punte, 2 lame e un pugnaletto;

Isernia: una punta;

Castelpetroso: una punta ed una lama;

Sessano del Molise: una punta ed una lama;

Pizzone: una punta e una lama;

Carovilli: 5 punte;

Pietrabbondante: 2 punte, 2 lame e una bellissima quanto rara ascia in pietra levigata di ben 14 cm (come vedremo più avanti, l’ascia ha, secondo le credenze popolari, il medesimo significato delle punte di freccia);

Poggio Sannita: 3 punte;

Agnone: 18 punte e 18 lame;

Capracotta: 2 lame.

PROVINCIA DI CAMPOBASSO:

Sepino: 2 punte e 3 lame;

Guardiaregia: una punta ed una lama;

San Giuliano: due lame;

Cercepiccola: una punta e 2 lame;

Cercemaggiore: 13 punte, 2 lame (molto probabilmente provengono dall’abitato posto sul costone, chiamato Santa Maria del Monte, risalente all’ età del rame);

Boiano: una punta e 4 lame;

Riccia: una punta;

Baranello: 17 punte e 5 lame;

Campobasso: una punta e 2 lame (nel 1996 raccolsi presso Castel Monforte alcune selci lavorate e consegnate al sottostante Museo);

Pietracatella: 2 punte e una lama;

Macchia Valfortore: una punta;

Matrice: una punta;

Campolieto: 2 punte e una lama;

Petrella Tifernina: una punta;

Sant’Angelo Limosano: 3 punte;

San Biase: una punta e 4 lame;

Salcito: 4 punte;

Lupara: una lama;

Guardialfiera: una lama;

Montorio nei Frentani: 8 lame ed un nucleo da lame;

Larino: 3 lame in selce e, dalla località Ripalda, 3 lame in ossidiana;

Portocannone: una punta.

Altre 3 punte furono rinvenute in altrettante località, indicate però in modo meno preciso: Molise, Altissimo (probabilmente da intendersi corrispondente all’attuale Sant’Angelo Limosano), Montecalvario (nel territorio del comune di Campobasso).

A questo elenco vanno aggiunte le località (alcune in territorio campano) citate negli studi del Pigorini, del Nicolucci e di Del Lupo, vale a dire: Ceppagna, San Vincenzo al Volturno, Rocchetta a Volturno, Gambatesa, Casacalenda, Castelpagano, Campochiaro, Civitacampomarano, Circello, San Bartolomeo in Galdo e Capriati a Volturno (Pigorini, Bullettino di Paletnologia Italiana, anno XXI, 1895). Non ho avuto purtroppo la possibilità di esaminare i manufatti molisani giacenti nel gabinetto di antropologia dell’Università di Napoli, che avrebbero forse permesso di aggiungere alla lista altre località molisane di interesse paletnologico.

L’elenco delle località molisane di interesse paletnologico suggerisce due considerazioni: la prima è che già alla fine dell’Ottocento era disponibile un’ottima mappatura delle numerose località paletnologiche; la seconda è che il Molise si dimostrava, tra le regioni d’Italia, una delle più ricche di testimonianze preistoriche; non si comprende quindi il motivo per cui a questa regione gli studiosi della materia non abbiano dedicato l’attenzione che meritava.

Va infine considerato che la mappatura delle località preistoriche fu realizzata, forse inconsapevolmente, dal “popolino” molisano: le vecchie raccolte museali comprendono infatti esclusivamente punte di freccia, lame di selce ed un’ascia in pietra levigata e, come scriveva il prof. Giuseppe Bellucci, abruzzese, in Il  feticismo in Italia, Perugia, 1907, «…È da tutti conosciuto che le cuspidi di freccia e le accette levigate adoperate dall’uomo dell’età della pietra, furono e sono ritenute dalle genti delle nostre campagne e città, come la parte materiale, che il fulmine o la saetta conducono al suolo … Si ritiene fermamente che le punte del fulmine rappresentate da armi o utensili litici dell’epoca preistorica, preservino da ulteriori scariche fulminee il possessore, la sua casa, le persone e gli animali che vi sono raccolti ed abbia perfino un raggio d’azione, che può estendersi a sette case … Quattro cartoni della mia collezione di amuleti contengono una serie di 92 supposti fulmini caduti, ciascuno de’ quali meriterebbe un’illustrazione speciale sia per la forma, sia per le particolarità della legatura in metallo con cui fu circondato…».

Una di queste punte fu esposta alla mostra mondiale di manufatti preistorici tenutasi a Parigi nel 1881 ; esposta nella plancia XLIII, questa punta di freccia usata come pendaglio fu trovata nel modenese ed è attualmente conservata nel museo parigino di Saint-Germain, catalogata con il numero 17240. L’appicagnolo e la punta di freccia sono simili a quella raccolta a Venafro e descritta dal Pigorini nel suo primo studio sulla preistoria molisana. Per questo argomento è interessante ciò che scriveva il Cav. Uff. Giuseppe Cimorelli in L’età della Pietra nel territorio Venafrano, Pescara 1910, in cui tratta appunto anche le saette o tuoni del fulmine nei dintorni di Venafro.

Pur potendo contare su notizie tanto numerose ed interessanti, la ricerca paletnologica in terra molisana si fermò alla pubblicazione di Luigi Pigorini del 1887. Nessuno si interessò più a quel periodo, anteriore al IV secolo a.c., tanto che, nella monumentale Guida della preistoria italiana (Sansoni, 1975), redatta dai più famosi studiosi italiani di Paletnologia, il Molise era l’unica regione non contemplata.

Solo settantasette anni più tardi, nel 1964, consapevole di questo vuoto temporale nella ricerca paletnologica molisana, iniziai ricerche in superficie nell’alta valle del Volturno, prendendo come punto di partenza Montaquila, paese natale di mia moglie.

ALBERTO SOLINAS

Fonte: srs di Alberto Solinas

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