Dic 16 2018

QUANDO UNA VOLTA SI FACEVA IL BUCATO A MANO

 

 

CUAN ‘NA OLTA SE LAVAVA DO LE ROBE A MAN  

 

Sino agli anni ’60 del XX° secolo lavare i panni era un “affare serio” in quanto richiedeva molta fatica e molto “ojo de gombio” e necessitava di diversi giorni, a differenza dei tempi contemporanei ove con l’ausilio della lavatrice e dell’asciugatrice nel volgere di alcune ore si risolve il problema senza la minima fatica. Infatti, sebbene i primi elettrodomestici con funzione di lavapanni, denominate in seguito lavatrici, risalgano ai primi anni ’40, fu solo con lo sviluppo economico degli anni ’60 e ’70 che la lavatrice ebbe una notevole diffusione nelle abitazioni dei nostri monti Lessini e un po’ ovunque nelle periferie italiane.

 

Prima di allora il bucato si lavava a mano, innanzitutto non si disponeva di un detersivo o di un ammorbidente già pronto all’uso per cui era necessario produrselo. Due tre giorni prima di quando si stabiliva di fare l’operazione di lavaggio, si metteva da parte della cenere del focolare che veniva riposta in un bidone in metallo che si riempiva con dell’acqua. Dopo un paio di giorni il bidone si poneva sul fuoco e l’acqua contenuta veniva fatta bollire, ottenendo così’ la “lìssia” che costituiva il detersivo del passato.

 

Migliore era il legno bruciato nel focolare o nella “stua” e migliore era la cenere prodotta che, se di qualità arrivava addirittura ad essere fine e bianca.

 

Dalla lascìva cotta con il grasso animale e riponendovi fiori di lavanda o alloro veniva ricavato il sapone, sostituiti solo in seguito dall’uso della soda caustica, un composto chimico che divenne a buon mercato in tempi a noi vicini.

 

Lavare i panni era un vero e proprio rito; con una cadenza di ogni 20/25 giorni la biancheria del letto veniva tolta e lavata.

La fase di preparazione iniziava con la raccolta dell’acqua dai pozzi, dalle fontane, dai fossi o dai fiumi che veniva posta in contenitori di metallo e fatta bollire sul fuoco. Una volta che l’acqua raggiungeva l’ebollizione si aggiungeva la cenere vegetale e rimestando di tanto in tanto si veniva a creare un liquido di color grigiastro, denominato la “lìssia” cioè la liscìva. Questo composto era particolarmente grasso ed aveva un forte potere pulente.

 

Dopo la produzione della liscìva iniziava la prima parte della pulitura: sopra la biancheria, che veniva disposta entro “ ‘na brenta o un mastèl”, si riponeva una sorta di telo che aveva la funzione di fungere da filtro in quanto la cenere non doveva toccare i panni che venivano lasciati in ammollo in questa poltiglia per una notte. I panni tuttavia non dovevano assolutamente essere a contatto diretto con la “lìssia” bollente; il motivo era evidente, il contatto con la lisciva bollente avrebbe avuto un effetto di cottura dello sporco e le macchie si sarebbero fissate non riuscendo più a toglierle in seguito. I panni venivano poi coperti da una serie di assi di legno per evitare che il liquido si raffreddasse. La biancheria necessitava infatti di rimanere in ammollo per tutta la notte, per poi essere fregata con il sapone il giorno seguente. I panni venivano appunto strofinati con il sapone il giorno successivo su un’apposita tavolozza (“ l’asse da laar do le robe” ) in legno.

 

Il sapone veniva quasi sempre prodotto in casa perché troppo costoso per essere acquistato per le misere economie domestiche del passato. Erano soprattutto i contadini a farsi da soli il sapone, ottenendolo attraverso un lungo procedimento.

 

Il sapone veniva ricavato dal grasso “del porsèl” (maiale) che veniva conservato “cuàn se fasea sù el porsèl”; il grasso veniva bollito e profumato con delle foglie di alloro, salvia, basilico o fiori di lavanda e poi versato negli stampi di legno e fatto raffreddare fino all’indurimento. Questo prodotto veniva utilizzato anche per l’igiene umana, cioè per lavarsi. 

 

 

Oltre alla “lìssia” le donne lavavano anche presso il “lavador” (lavatoio) del fosso, dei fiumi o presso gli “àrbi de le contrè”, dove bagnavano, strofinavano, sbattevano gli indumenti parecchie volte fino a renderli puliti. Quasi sempre nelle contrade dei nostri monti era presente infatti “l’arbio” (fontana/lavatoio) dove si lavavano anche i panni.

 

D’inverno il tutto diventava più complicato a causa del freddo e dell’acqua gelata o ghiacciata, ma si trattava comunque di un’operazione che si doveva fare lo stesso. Appena compariva un po’ di sole (anche con la neve) la massaia scaldava l’acqua “in tel parol” (pajolo) ed iniziava tutta la faticosa procedura per il lavaggio.

 

Una volta, ogni settimana o mese si lavava il bucato più piccolo mentre in primavera quello voluminoso (come lenzuola o asciugamani), perché era il periodo migliore per l’abbondanza di acqua conseguente al disgelo.

 

Il giorno del bucato, si prendevano delle “brente” (grandi vasche) di legno che venivano posate su dei treppiedi con sotto un secchio. A questo punto la biancheria veniva inserita dentro queste vasche e pigiata. Veniva poi coperta con un drappo di tela su cui si spargeva la cenere e su cui veniva versata acqua bollente.

L’acqua sporca, dopo un po’, cadeva da un foro posto sul fondo delle vasche e finiva nel secchio. Questa operazione veniva ripetuta finché l’acqua caduta non fosse stata limpida.

 

La biancheria più delicata, come polsini o pizzi, era messa a bollire a parte con il sapone mentre le magliette, le mutande e le calze venivano prima immerse nell’acqua con farina e succo di limone così da essere sgrassate.

 

La biancheria bagnata veniva, infine, trasportata al fiume o al “lavador de contrà” per essere risciacquata e messa a stendere. Una volta asciugata la biancheria veniva diligentemente stirata con il ferro da stiro alimentato dal calore della carbonella e riposta nella cassapanca o nell’ “armàro” poiché doveva durare il più possibile, non potendo infatti le magre economie domestiche dei nostri montanari permettersi molti ricambi. 

 

I “lavadori de contrà” costituivano poi dei veri e propri punti di socializzazione per le massaie, ove si scambiavano i consigli ed i pettegolezzi, partecipavano alle gioie ed alle disgrazie delle une e delle altre; ove si cantavano canzoni nostalgiche o si confessavano i più intimi segreti della vita affettiva ed amorosa e dove spesso ci si lamentava in segreto della “disgraziata” condizione della donna nel mondo contadino e montanaro maschilista del passato.

 

Questi lavatoi di contrada sparsi un po’ ovunque anche sui nostri monti costituiscono oggi dei veri e propri musei a cielo aperto, ove ancora oggi si avverte la nostalgica aria del passato di una semplice vita quotidiana vissuta dai nostri avi, ove il raccontare le proprie angosce alla vicina “lavandàra” poteva dare, anche se per pochi istanti, un sollievo da una grama vita in povertà.

 

E’ facilmente intuibile come dall’usanza di raccontare i propri fatti più intimi e familiari presso i lavatoi pubblici abbia dato origine al detto che “i panni sporchi si lavano in casa“, nel senso che si doveva rimane a casa a lavare i propri panni e non portarli al lavatoio pubblico, per non incorrere nella tentazione di raccontare i propri affari di famiglia alla vicina di lavatoio per cercare un po’ di sollievo nella comprensione altrui.

 

 

Fonte: srs di  Alfred Sternberg, da  Facebook, Amici di Velo Veronese. del  14 dicembre 2018

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