Gen 07 2013

QUANDO GLI SCHIAVI ERAVAMO NOI. PER SECOLI I CACCIATORI DI SCHIAVI NORD AFRICANI HANNO SEMINATO TERRORE IN ITALIA.

Category: Economia e lavoro,Islam,Storia e dintornigiorgio @ 00:09

harem

Per  l’harem. Acquisto di una donna bianca in una ricostruzione di fantasia.

 

Ecco la loro storia. Nel 1500 i cacciatori di schiavi fecero “furti di cristiani”   lungo tutte le coste italiane: li catturarono a migliaia e arrivarono indisturbati fino a 20 km dal Vaticano.

 

 

Due navi slanciate si avvicinano da poppa alla Francis.  Emergono dai flutti con una virata ardita.  Gli uomini a bordo della  Francis, una piccola nave da carico che nel 1716 è sulla via del ritorno da Genova verso l’Inghilterra, sono impietriti dalla paura: quelle navi sono sciabecchi,  le navi dei cacciatori di uomini nordafricani. E i marinai sanno fin troppo bene quale destino incomba su di loro: la schiavitù.

 

Arrembaggio. Perderanno la libertà e molti anche la vita.  Verranno stipati in segrete putride, saranno torturati e umiliati, maltrattati fino alla morte.  Solo pochi di loro rivedranno la patria.  Ma ecco che  un’altra nave inglese, la Southwark, li incrocia.  È più grande delle 4 imbarcazioni e fornita di 16 bocche da fuoco. Ma con abili manovre, gli agili sciabecchi raggiungono la fiancata della Southwark, fuori dal tiro dei cannoni sulla murata.  I nordafricani gettano i rampini d’arrembaggio e, con grida infernali, saltano a bordo. I corsari trionfano e fanno bottino di 2 navi e tonnellate di carico: tessuti e vino, coralli e porcellane. Ma il vero tesoro sono i 52 uomini caduti nelle loro mani: merce fresca per i mercati di schiavi del Nord Africa.

Oro bianco.  Schiavi europei, padroni africani: una situazione insolita, che solo di recente è diventata oggetto d’indagine.  Il quadro che abbiamo di quell’epoca, nella quale i cristiani erano “oro bianco” sui mercati del Maghreb, è ancora ricoperto da una patina di descrizioni folkloristiche. Nel XIX secolo, il bisogno di esotismo orientale (e di erotismo: “la donna bianca rapita e portata negli harem” era un filone venduto in molte varianti fantasiose) trovò risposta in un genere letterario. Gli storici invece non hanno mai preso sul serio il fenomeno. Oggi però un nuovo libro dello storico statunitense Robert Davis (1) traccia un quadro   radicalmente diverso.

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Secondo Davis ci sono stati non meno di un milione di schiavi europei asserviti a padroni africani. Tra il 1580 e il 1680 ad Algeri, Tunisi, Tripoli e in una manciata di località affacciate sulle coste maghrebine, vivevano stabilmente ben 35.000 schiavi.

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Merce preziosa. Il mercato degli schiavi ad Algeri in un disegno europeo del 1700. I prigionieri europei vengono portati in catene(1), spogliati(2) esaminati con cura(3) talvolta picchiati(4) e poi comprati da mercanti(5) che li rivendevano da privati o presi come rematori.

 

Fino In Islanda. Cercando di calcolare quanti uomini dovessero essere catturati per mantenere stabile questo numero, tenendo conto di fughe (meno dell’1%), riscatti (4%), morti per la peste che in Africa dilagava con spaventosa regolarità, Davis ha stimato che ogni anno bisognasse catturare almeno 8.500 persone, cioè 850.000 nel periodo compreso tra il 1580 del 1680. Per tutta l’epoca della schiavitù, dal 1500 fino al 1800, Davis stima così «con buona approssimazione» 1,25 milioni di europei ridotti in schiavitù. E si riferisce  soltanto alle roccaforti dei cacciatori di schiavi nel Mediterraneo occidentale: Algeri, Tunisi e Tripoli. Ma anche in Marocco o in Egitto decine di migliaia di europei vivevano in schiavitù, e anche nell’Impero ottomano. a Costantinopoli, tra il 1500 e il 1800, c’era una presenza stabile di 30.000 schiavi.  I cacciatori di schiavi del Nord Africa arrivavano fino in Gran Bretagna, dove facevano irruzione nelle taverne e nelle chiese, vestendo abiti lunghi e con la testa completamente rasata, sguainando le scimitarre e portando via avventori al bancone o fedeli che assistevano alla Messa. Nel 1627 un gruppo algerino di cacciatori di uomini arrivò fino in Islanda, dove rapì centinaia di uomini, donne e bambini.

 

Terrore in Italia. Ma soprattutto i corsari imperversavano nel Sud Italia. Nel 1543 sbarcarono sulla  penisola circa 12.000 corsari, un esercito che si spinse nell’entroterra anche per 30 km. Un’altra volta arrivarono a 20 chilometri dal Vaticano. Le milizie locali non osavano attaccare gli invasori, nettamente superiori. E il potere centrale era distante oppure, come nel caso dei piccoli Stati in cui era frammentata l’Italia, non esisteva affatto.

Nel 1544, i cacciatori di uomini fecero prigioniere 7.000 persone nel golfo di Napoli, nel 1554 deportarono 6.000 persone da Vieste, in Puglia. Quando le navi tornavano a casa dopo queste scorrerie, nei mercati del Maghreb i testimoni dell’epoca raccontavano che “un europeo vale solo una cipolla“.

 

Qualche volta le spedizioni avevano un tale successo che le navi corsare non riuscivano a trasportare tutti i prigionieri.  Allora questi erano rivenduti sul posto ai  loro congiunti a prezzo scontato.  In questi casi comparivano immediatamente usurai locali che facevano prestiti a chi non era in grado di pagare il riscatto dei parenti schiavi e, come avvoltoi, traevano profitto dalla sventura dei loro conterranei. I parenti del prigioniero davano loro in pegno la casa e il podere; nel giro di un paio d’ore, potevano riabbracciare i loro cari, ma non avevano più di che vivere.

 

Travestiti.  Solo a partire dal 1600 circa, la portata di questo fenomeno si ridimensionò. La sorveglianza delle coste migliorò grazie alle torri di avvistamento e di difesa, le unità di cavalleria sbarravano la strada ai corsari mentre tornavano alle loro navi.  Piccole, innumerevoli scorrerie presero il posto delle grandi battute di caccia.  Il numero delle vittime di questi cosiddetti “furti di cristiani” si sommava a quello di persone catturate nel corso di grandi operazioni spettacolari.

Le popolazioni cercarono riparo nell’entroterra, in  paesi fortificati cinti  da mura sulle colline. Le zone costiere si  spopolarono, le isole  furono abbandonate.  Poi iniziarono gli  attacchi alle navi mercantile.  Spesso i corsari si avvicinavano alle loro vittime a bordo di navi già conquistate, sotto falsa bandiera e travestiti con le uniformi di nazioni amiche.

Tra il 1613 e il 1621  furono sequestrate  e portate in Algeria  1.000 navi provenienti dall’Inghilterra e dalla Francia, dai Paesi Bassi e dalla Spagna.

 

Gli europei catturati erano portati  nelle città del Nord Africa, trascinati per le strade come appestati, percossi e coperti di sputi da una folla urlante.  Quindi condotti nelle  carceri  sotterranee.  Lì, ammassati in grandi celle sovrappopolate,  vivevano in  mezzo a escrementi e   parassiti.  La luce penetrava da una grata sul soffitto. Per abbandonare la prigione, gli schiavi dovevano arrampicarsi su una scala di corda che veniva calata dall’alto.

 

Il mercato. Questo fino al giorno dell’asta al mercato degli schiavi. Qui i prigionieri erano tirati di qua e di là, dovevano saltellare e muoversi ballando: i clienti volevano essere sicuri che la merce fosse in buono stato.  I potenziali acquirenti valutavano la muscolatura, esaminavano le mani, osservavano scrupolosi i denti. Al mercato si decideva la partita tra la vita o la morte.  L’acquirente aveva bisogno di un animale da lavoro o puntava a una speculazione?  Soltanto se il nuovo padrone poteva sperare di ricavare un compenso elevato dal riscatto del proprio prigioniero, avrebbe evitato di maltrattarlo fino alla morte.

 

Vescovi “jackpot“.  Per questo i ricchi passeggeri a bordo delle navi catturate erano un bottino di cui i corsari andavano sempre a caccia: commercianti, con familiari disposti a pagare somme elevate per il loro riscatto, o, ancor meglio, vescovi, che in questo gioco valevano un jackpot.  si era sparsa la voce che, per i suoi dignitari,  la Chiesa pagasse velocemente,  senza fare chiasso e profumatamente.

Il destino più benevolo toccava di solito a chi entrava in servizio in case private: svuotare le latrine, condurre cammelli, magari solo fare musica in giardino e servire il caffè.  Agli schiavi da lavoro di Stato, invece, era riservato un trattamento duro e spietato.  Ad Algeri dovevano trascinare per chilometri blocchi di pietra di 20-40 tonnellate, dalla cava di estrazione al cantiere del molo al porto. E poteva andar peggio: la forma più brutale di sfruttamento toccava ai rematori di galea.

 

Nel fetore. A bordo di una galea l’acqua da bere era centellinata. Chi non resisteva, veniva buttato in mare.  Gli uomini erano incatenati ai remi. Non potevano né spostarsi né alzarsi in piedi e dovevano dormire seduti in file di 3-4 persone.  Per fare i loro bisogni, si arrampicavano sui vicini e li scavalcavano fino ad arrivare alla murata. Molti di loro, esausti, rinunciavano persino a spostarsi; non a caso, le galee erano circondate da un fetore bestiale. Sulle galee da guerra ottomane, i rematori rimanevano incatenati anche quando la nave restava in porto durante l’inverno.  E quando la nave affondava in battaglia. Molti finivano per convertirsi all’Islam. Per i padroni, la conversione degli schiavi era un evento contraddittorio: utile per compiacere Allah,  ma negativo per gli affari. I convertiti, infatti, non potevano più essere sfruttati in modo disumano.  Per chi invece si allontanava dal cristianesimo, il passaggio all’Islam era un patto con il diavolo: per il governo inglese diveniva  un traditore e non poteva più sperare nel riscatto.  Spesso gli ex cristiani si distinguevano per il particolare zelo come collaboratori del regime: «Superano anche i barbari per crudeltà e picchiano i loro fratelli senza pietà» racconta un testimone oculare.

 

Schiavo nel lusso. Ma si poteva anche fare carriera.  Il veneziano Giacomo Colombin, catturato in mare nel 1602, fu corteggiato dal capitano dei corsari per la sua arte ingegneristica, che gli portò  grandi ricchezze: era uno schiavo, ma abitava in un villa di lusso sulle colline di Algeri.  Dopo 30 anni, usando una delle navi da lui stesso progettate, fuggì insieme ad altri 22 prigionieri.  Già esempi di questo tipo mostrano che le società schiavistiche del Nord Africa erano molto più complesse di quanto si sia immaginato finora.  Nuove fonti permettono anche di gettare uno sguardo alla vita sociale che si svolgeva nei cosiddetti “bagni” di Algeri.  Già dal 1700, questi labirintici quartieri-prigione, dove vivevano molti schiavi, furono dotati di una cappella per il culto cattolico, gestita da monaci accreditati nelle metropoli dei corsari.  I musulmani ne apprezzavano l’aiuto in campo pastorale e medico. I religiosi, nel frattempo, acquistarono un ruolo sempre più importante come agenti nelle trattative per il riscatto che, con il passare del tempo, si trasformarono da  “vendite al dettaglio” a commercio all’ingrosso di uomini-merci

 

Armati dai danesi. Il riscatto era costoso: nel 1646 un emissario inglese pagò 38 sterline per schiavo, il guadagno annuale di un commerciante inglese benestante. La politica europea nei confronti dei pirati, in particolare quella francese, rimase a lungo caratterizzata da titubanze e tatticismi: era più importante un accordo commerciale del destino degli schiavi. Alla fine del XVIII secolo, il re di Danimarca inviava ogni anno ai cacciatori di uomini un tributo di armi purché lasciassero in pace le sue navi.  Ma con la fine delle guerre napoleoniche i rapporti cambiarono.

Durante il congresso di Vienna  nel 1814-1815, su pressioni del governo inglese, fu messo al bando il commercio transatlantico di schiavi. Contemporaneamente, l’ammiraglio inglese Sir Sidney Smith lanciò con la sua “Società dei Cavalieri liberatori degli uomini Bianchi che gemono schiavi in Africa”  un intervento “umanitario” in Nord Africa.

 

Assalto finale.  Nell’agosto del 1816 una flotta composta da 18 navi da guerra inglesi, alcune delle quali dotate di oltre 100 cannoni, e con l’appoggio di navi olandesi, si ancorò nella baia di Algeri.  Scaduto un ultimatum, tutte le navi aprirono il fuoco.  Le bordate si conficcarono una dopo l’altra nei bastioni fino a quando, verso sera, su Algeri piovvero 50.000 palle di cannone. La flotta dei corsari, con le navi ormeggiate nel porto, bruciò. Il fuoco si propagò alle strutture del porto e all’arsenale e in poco tempo si estese alla città.  Il comandante in capo dei corsari si arrese e rimise in libertà tutti gli schiavi. Anche Tunisi, Tripoli e il Marocco si affrettarono a dichiarare che la schiavitù era abolita .

 

Fonte: srs di Fred Langer, da Focus numero 231 del gennaio 2012, pag. 24-29

 

1) Robert Davls Docente di storia delle civiltà del Mediterraneo alla Ohio State University (Usa).

 

 

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