Feb 18 2014

VITA CRISTIANA NEI SECOLI IX-XI

Category: Chiesa Veronese Storia Pighi,Libri e fontigiorgio @ 13:06

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ALTARE DI S. FRANCESCO O DELLA TORRE. Con pala di Giambattista Bellotti (prima metà XVIII sec.) raffigurante la Vergine col Bambino e S. Francesco. Sotto la mensa, le reliquie dell’eremita S. Gualfardo morto a Verona nel 1127;  CHIESA DI SAN FERMO, VERONA

 

 

EPPOCA II – CAPO XVIII

 

SOMMARIO. – Chiese in città e nel territorio – Parrocchie in città e nel territorio: le « Plebes » – Attribuzioni dei «Plebani » – Vita comune – Monastero di S. Zeno – S. Maria in «organo » – Ss. Nazaro e Celso – Ss. Fermo e Rustico – S. Giorgio in Braida – SS. Trinità – Monastero della Vangadizza – Ospedali – S. Gualfardo.

 

 

Nonostante le turbolenze religiose e politiche di questi tre secoli, abbiamo prove sufficienti a dimostrare che nei medesimi secoli era ben radicata e vigorosa la vita cristiana in Verona e nel suo territorio.

 

Frutto di questa vita sono le molteplici chiese erette in quest’epoca. Della città, a quanto riferisce lo Stato personale, oltre le quarantotto chiese già esistenti verso la metà del secolo X, altre diciotto furono erette dalla metà del secolo X fin verso la fine del secolo XII.

La « ecclesia sancti Benedicti» è nominata in un diploma (non del tutto certo) di Corrado II l’anno 1036; così pure in un breve di Gregorio VII dell’anno 1078, ed in altro di Callisto II dell’anno 1124: pare che fosse officiata da monaci benedettini (1). Anche la chiesa di S. Matteo risale al secolo XI, essendo nominata in un atto di donazione fatta il 30 ottobre 1105 da Gisla col suo figlio Magnifredo a favore del monastero di S.  Maria Pomposa (2). Alla stessa epoca appartiene la chiesa di S. Cecilia, che con breve di Callisto II dato l’anno 1122 fu confermata ai canonici della cattedrale.  Anche la chiesa dei SS. Simone e Taddeo, che era nel vicolo dietro la chiesa di Giovanni in foro, si trova nominata in un documento del 6 aprile 1141(3).  E così potremmo enumerare parecchie altre, oltre quelle già esistenti all’epoca del Ritmo pipiniano.

 

Della molteplicità delle chiese erette nel territorio abbiamo una prova evidente nella bolla Piae postulatio voluntatis data dal pontefice Eugenio III il 17 maggio dell’anno 1145.

Vi sono determinate col proprio nome ben cinquantacinque chiese plebane (Plebes) esistenti nel territorio veronese, altre dieci chiese col proprio nome, ed inoltre moltissime altre chiese e cappelle con la forma indeterminata « cum ecclesiis et cappellis suis ».  Certamente spettano a quest’epoca le chiese di S. Michele in Flexio,  S. Pietro di Mauratica, S. Pietro di Albutiano, di S. Sofia nella valle veriaca (Negrar), S. Pietro di Calavena, di S. Severo di Bardolino, S. Giusto di Castelrotto ed altre (4).

 

In quest’epoca abbiamo i primi indizii della formazione delle parrochie. In città le parrochie furono di certo costituite più tardi che nel territorio.

Nei secoli IX-XI troviamo una forma limitata di giurisdizione parrocchiale nelle chiese di S. Stefano, S. Giovanni in Valle, di cui nell’anno 1025 era arciprete un certo Martius Tabella, e forse anche quella dei SS. Apostoli: queste chiese avevano il fonte battesimale, e quindi i loro « presbyteri » avevano il diritto di battezzare: ma la piena giurisdizione parrocchiale per il foro esterno risiedeva tutta nel vescovo, che uffici ava nella chiesa cattedrale: per trovar in città le parrocchie propriamente dette ed i parroci con cura l’anime abituale, dobbiamo ancora attendere per qualche secolo.

 

Lasciando a parte i placiti dei giansenisti, che pretendevano essere di origine e di diritto divino l’istituzione delle parrocchie, e volevano essere i parroci successori immediati dei settantadue discepoli, ora è cosa storicamente certa che nelle città, ad eccezione forse di Alessandria e di Roma, non si trovano parrocchie e  parroci in senso proprio prima del secolo XI (5).

Perciò anche in Verona le parrocchie in senso proprio non furono istituite prima del medesimo secolo, e forse nel seguente. Prima di tutte potrebbe essere quella di S. Stefano, dove antecedentemente era la residenza dei vescovi; nell’anno 994 essa già era collegiata, e ne era rettore un certo Davide; nell’anno 1067 Martino ne è detto « archipresbyter »(6).

 

Ben diversa è la cosa nel territorio fuori città.

Fin dal secolo carolingio, nelle popolazioni di alcuni « vici» apparisce una tendenza a costituirsi in una specie di corporazioni, dette « plebes », che si vanno lentamente organizzando in una cotal forma iniziale d’autonomia, di governo popolare, all’infuori delle forme amministrative officiali.

Presso a poco nell’epoca stessa vediamo costituirsi alcune corporazioni (plebes) nell’ordine spirituale, formanti veri corpi morali sotto la direzione immediata di un « presbyter », detto anche « parochus» o « plebanus ».

Come nell’ordine materiale i torbidi carolingici, italici, germanici, contribuirono allo sviluppo delle «plebes », preparandole così a quella forma autonoma che ebbero nell’epoca dei comuni, così alla più perfetta formazione delle « plebes » in corpi morali religiosi, non diremo autonomi, ma certo meno immediatamente e più limitatamente dipendenti dal vescovo, contribuì l’ingerenza dei vescovi nelle controversie politiche, per la quale restava paralizzata la loro autorità nel campo spirituale e si rallentava ogni dì più quel sacro vincolo che dovrebbe legare i fedeli al loro vescovo.

 

Nell’ordine materiale un primo germe di corporazione apparisce nei privilegi, che l’imperatore Ottone II concesse ad alcuni abitanti di Lazise (quasi rettori o consoli delle età successive) con diploma del 7 maggio 983, nella quale concessione il nostro illustre storico Carlo Cipolla vede una incipiente organizzazione di una plebe, con una forma qualsiasi di governo popolare ed un preludio a quelle libertà, che ebbero più tardi il loro pieno sviluppo nel secolo XIII (7).

 

Nel senso ecclesiastico è troppo oscura la prima origine delle parrochie, anche fuori delle città. Certamente erano i vescovi,  che ad alcuni sacerdoti del comitato commettevano direttamente od indirettamente, espressamente o tacitamente, la cura spirituale di un certo gruppo di fedeli. Questo a priori; e quindi forse tra noi fin dal secolo V o VI.   Ma trovare storicamente la prima formazione delle antiche parrochie nelle campagne, è compito troppo difficile. Daremo quei pochi documenti storici, che abbiamo potuto trovare; premonendo che il termine più antico che sembri di notare la parrochia è appunto « plebes », talvolta « parochia »; come il sacerdote è detto ordinariamente « rector» o « plebanus » o « presbyter plebanus »; poche volte « parochus ».

 

Il primo che troviamo detto rettore di una chiesa, è Audone diacono « rector sancti Martini sita in valle Paltenate »: così in un atto del 7 marzo 839(8): questa chiesa dovrebbe essere quella stessa che in documenti di poco posteriori è detta « plebs di Gretiana ». Forse Audone era puramente rettore della chiesa senza cura d’anime; molto più che esso è detto diacono.

 

Nel medesimo secolo IX troviamo la voce « plebs » per indicare un ente morale, forse anche in senso ecclesiastico, in un diploma di Carlomanno dato il giorno 6 ottobre dell’anno 879 (878, 880), nel quale tra i possessi conferiti al monastero di S. Zeno si pone « castrum cum curte ac plebe juxta lacum positum et Desentianum »(9). Certamente in questo senso è presa la voce « plebs » in un diploma di Berengario del 26 maggio 905, che si dice dato « juxta plebem sancti Floriani »(10).

Nell’anno 920 ricorre la « plebs Illasiorum », di cui era arciprete un certo Azzone (11): verso l’anno 968 Raterio scrive di aver conferito ad un diacono (ordinarium) una delle migliori plebi, che egli avea (12): verso l’anno 1008 troviamo nominato un « Dominicus diaconus de plebe sancti Martini in vico Piscaria ».

 

Anche la chiesa di S. Procolo, consacrata dal vescovo Ratoldo  il 9 dicembre 822, posta fuor di Verona nella « villa sancti Zenonis », apparisce come pieve nel 962. In un atto di Berengario 30 nov. 896 ne è detto rettore un certo Boniperto: il primo, che si trovi nominato come arciprete, è Uberto nell’anno 1080(13).  Essa avea certamente il fonte battesimale.

 

Queste Pievi crebbero di numero nei secoli X e XI, anche per le ragioni indicate: il pontefice Eugenio III nella Bolla Piae postulatio voluntatis ne nomina cinquantacinque. Esse diedero origine alle vicarie foranee; anzi parrebbe che già fin da allora i sacerdoti plebani avessero una qualche preeminenza sui sacerdoti di altre chiese, che pure vi esercitavano una vera cura delle anime, e quindi erano parroci.

 

Difficile cosa è determinare quali attribuzioni avessero questi sacerdoti preposti alle plebi ed alle altre chiese minori. Certamente aveano il diritto ed il dovere di predicare, di battezzare, di dare la comunione ai fedeli nella loro chiesa e il viatico agli infermi, di celebrare la messa; avean pure il diritto che nessun sacerdote cantasse la messa nella loro chiesa «absque parochiani presbyteri voluntate et rogatu» (14). Di queste attribuzioni parla espressamente il nostro vescovo Raterio.

Un punto oscuro è quello del sacramento della penitenza; per il quale sembra che il vescovo riservasse a sé i peccati pubblici.  Alcuni plebani si arrogavano anche il diritto di ascrivere alcuni fedeli fra il clero senza la licenza del vescovo: pretesa riprovata da Raterio; il quale volea che il diritto di ascrivere qualcuno fra il clero spettasse al vescovo, poiché  egli solo «potest de clerico acolythum facere » (15).  Del resto in massima le plebi erano commesse alla cura dei « presbyteri plebani »; ai quali Raterio inculca di conoscer bene le prescrizioni vescovili, affinché «ministerium vestrum facere possitis, et plebes vobis commissas ad vitam ducere et Christo repraesentare» (16).  La Synodica è diretta appunto «ad presbyteros et ordines caeteros forinsecus »: il che prova che al di fuori della città esistevano vere parrochie (a).

 

Ludovico Tomassino prete dell’Oratorio di Parigi, seguendo le  tendenze gianseniane dei suoi tempi, volea che i parroci avessero facoltà di scomunicare (17); ed a prova della sua tesi portava un testo della Synodica del nostro Raterio, dove questi «ad presbyteros et ordines caeteros forinsecus » ordinava: « De occultis peccatis poenitentiam vos dare posse scitote; de publicis ad nos referendum agnoscite » (18). Ma è chiaro che qui Raterio non parla di facoltà di scomunicare: indica soltanto di riservare a sé la facoltà di giudicare sui peccati pubblici, lasciando ai sacerdoti il compito di giudicare sugli occulti, ossia nel foro della coscienza.

 

In questi secoli vediamo svolgersi fra il clero una tendenza alla vita comune. Oltre le due congregazioni del clero, una intrinseca, altra estrinseca, abbiamo fin dal secolo IX la canonica degli ordinari, detti da allora canonici: inoltre abbiamo memorie di sacerdoti viventi vita comune fin dall’anno 994 presso la chiesa di S. Stefano (19); un simile collegio si aveva presso la chiesa di S. Cecilia (20), e forse anche presso quella di S. Giorgio detto ora di Valpolicella.  Ma uno sviluppo ben più spiccato troviamo nella vita monastica.

 

Principale fra i monasteri fu quello di S. Zeno, al quale accrebbero importanza e ricchezza la basilica ed il corpo del nostro santo patrono custodito con grande amore nella medesima. Contava un gran numero di monaci, spesso provenienti da conspicue famiglie di Verona e di altre città, massime della Germania.

Il monastero con la chiesa fu in parte rovinato nelle scorrerie degli Ungheri, quando il corpo di S. Zeno fu precariamente trasportato nella chiesa di S. Maria Matricolare.  Ricostruito più tardi, vi dimorarono spesso gli imperatori di Germania, Enrico II il Santo, Enrico III, Enrico IV; i quali ivi tennero più volte i loro placiti.

 

In un diploma del 21 maggio 1014 Enrico II, assecondando le preghiere del vescovo di Verona, conferma «omnes proprietate et possessiones monasterii beatissimi Zenonis, ubi corpus ejus sacrum quiescit humatum »: sono chiese e terre donate al monastero da Pipino, Berengario ed Ottone nei comitato di Verona, Brescia, Parma e Treviso (21): queste donazioni furono poi riconfermate da

 

Corrado II  il 24 maggio 1027(22).  Nell’anno 1073 vennero a Verona la contessa Beatrice e la sua figlia Matilde ed il vescovo di Lucca Anselmo, e nel refettorio dei monaci, segnavano un atto, con cui donavano al monastero alcune terre di Bonferraro, Roncolevato, Pigozzo, Fatoledo ed altre (23).

 

Fra le chiese erette dai benedettini (della basilica di s. Zeno diremo in seguito) merita speciale menzione quella dedicata a S. Dionigi su di un colle presso Parona.  Secondo il Moscardo, quella chiesa su terre donate ai monaci da Pipino fu eretta verso la metà del secolo IX; quando i Franchi diffusero anche in Italia il culto del loro santo Patrono. Quella chiesa, dietro istanza dell’abate Ugone fu più tardi confermata al monastero di S. Zeno dal pontefice Urbano II con bolla data il 13 ottobre 1187(24).

 

Mercè le donazioni di principi ed imperatori quel monastero acquistò immensi possedimenti, che venivano poi distribuiti ai coloni con condizioni assai vantaggiose per essi: in progresso di tempo parte di quei possedimenti passarono in proprietà dei villici stessi con il dovere di riconoscere il condominio dei monaci con qualche leggera contribuzione quotale: altri rimasero in proprietà del monastero sino alla soppressione veneta dell’anno 1773.

 

Fioriva pure il monastero di S. Maria in Organo, dal quale dipendevano le chiese di S. Maria Antiqua, S. Margarita, S. Faustino ed altre.  Esso, a quanto pare, era esente dalla giurisdizione del vescovo di Verona, e soggetto al patriarca di Aquileja fino dal secolo X. Esso pure avea vasti possedimenti nella Valpantena, sui monti di Azzago e Cerro e nel Trentino (25); e giurisdizione su varie chiese di Verona, confermatagli dal pontefice Giovanni XIX l’anno 1025(25).

 

Nella prima metà del secolo X fu fondato un nuovo monastero presso l’antica chiesetta posta alle falde del colle Castiglione. Poco di poi fu eretta una chiesa dedicata ai SS. Nazaro e Celso ed a S. Giuliana; della quale apparvero alcuni avanzi nello scavare i fondamenti della cappella di S. Biagio. Questo monastero era  abitato da monaci viventi secondo la così detta regola di S. Benedetto, forse in parte conformata a quella di sant’Agostino: fu dotato di beni dai vescovi Giovanni (1015-1036) e Brunone (1073- 1083), confermati poi dagli imperatori Enrico IV ed Enrico V.  A questo monastero furono sottomesse la chiesa di S. Maria di Marcellise nel 1046, quella di S. Stefano di Persana, quella di S. Cassiano di Mezzane.

 

 

Anche la chiesa del SS. Fermo e Rustico avea annesso un monastero di benedettini, se non dai tempi di Carlo Magno, certo sulla fine del secolo X, quando il vescovo Otberto con atto dell’anno 996 concedeva favori e sussidi ai poveri sacerdoti di S. Fermo (27). Un atto di locazione del 10 giugno 1019 parla espressamente di monaci e del monastero dei SS. Fermo e Rustico (28). Nell’anno 1065 detti monaci ampliarono la chiesa inferiore e cominciarono la fabbrica della superiore (29): Federico Barbarossa con atto sottoscritto in Verona il 26 ottobre 1184 confermava alla chiesa ed al monastero i privilegi e possedimenti, che si dicevano già concessi da Carlo Magno (30). Vi stettero fino all’anno 1261, nel quale per ordine del pontefice Urbano IV dovettero cedere il monastero e la chiesa ai frati Minori.

 

Un altro monastero nell’anno 1046 fu fondato dal troppo famoso Kadalo presso la chiesa di S. Giorgio in Braida.  Di famiglia oriunda dalla Germania, nato, come sembra, a Sabbion nella diocesi di Vicenza, Kadalo o Cadalao o Cadaloo avea sua dimora in Verona nella contrada di S. Faustino, dove in quel tempo troviamo la « curtes Ducis »: fu chierico e vice domino della chiesa veronese, indi vescovo di Zetis-Namburgo e Cancelliere imperiale, poi vescovo di Parma (1045-1061), e finalmente antipapa col nome di Onorio II contro il legittimo pontefice Alessandro II (31).  Egli allora vescovo di Parma, edificò la chiesa di S. Giorgio (se pur questa non preesisteva con alcune monache) ed il monastero sopra suoi fondi nel « Pratum dominicum foris et prope civitatem Veronae »(32):  prescrisse che vi stessero tanti monaci quanti potessero vivere coi beni del monastero, che vivessero secondo la regola di S. Benedetto, ma senza dipendenza da altra congregazione, che l’abate vi fosse eletto dal vescovo e dalla parte maggiore dei monaci. Con suo testamento (24 aprile 1046) lasciò allo stesso monastero molti beni, che egli possedeva nella Valle Veriaca (di Negrar), in altre terre del veronese e nel comitato vicentino. Che cosa sia avvenuto in seguito di quei monaci non lo sappiamo. Ma almeno dall’anno 1070 quel monastero era abitato da monache, e di sì mala vita, che il vescovo Bernardo, il primo riformatore della nostra chiesa, le espulse dal monastero e vi sostituì alcuni sacerdoti che vi avessero vita comune conforme alla regola di sant’Agostino.

 

Alla fine del secolo XI spetta la chiesa della SS. Trinità con l’annesso monastero di monaci vallombrosani, nel luogo posto a mezzogiorno della città, detto fino ad allora « Mons olivetus ». La chiesa fu consacrata il giorno 12 gennajo dell’anno 1117: l’altare maggiore fu consacrato dal vescovo Bernardo l’anno 1132.  I vallombrosani, beneficati di vaste possessioni da Fulcone marchese d’Este l’anno 1115(33), vi dimorarono sino all’anno 1443. Da qualcuno di essi furono compilati gli Annales sanctae Trinitatis (34).

 

Nel comitato veronese, oltre i monasteri di Sirmione, S. Maria de Gaio, S. Michele in Flexio, S. Pietro de Mauratica, troviamo in quest’epoca il monastero di S. Maria della Vangadizza, fondato nella prima metà del secolo X da Ugo marchese di Toscana (35).  Fu prima abitato dai così detti monaci neri, dei quali nell’anno 961 era abate un certo Martino, quando il monastero ebbe privilegi e possedimenti da Berengario II ed Adalberto.  In seguito quei monaci divennero camaldolesi.

 

Elemento e frutto insieme della vita cristiana sono le opere di beneficenza: e queste pure hanno il loro sviluppo in Verona nei secoli accennati. Già abbiamo detto altrove del « xenodochium » fondato dal vescovo Notkerio nella prima metà del secolo X. Nella seconda metà del medesimo secolo, e precisamente in un documento dell’anno 987 troviamo un ospedale presso la chiesa di S. Siro (36).

Altro ospedale era pure non lungi dalla chiesa di S. Maria in Organo, diverso da quello fondato da Notkerio. Di un ospedale presso la chiesa di S. Stefano abbiamo la prova in un atto del 9 marzo 1084,  col quale un certo Totone lascia a detto ospedale alcuni suoi poderi « in valle Paltenate in “Monte Agudulo“,  qui nuncupatur Cultores »(37).  Possiamo affermare che presso la maggior parte delle chiese in quest’epoca si trovava pure un «hospitale» o « xenodochium» o « nosocomium» (b).

 

Chiuderemo questa esposizione della vita cristiana nella città e nel territorio di Verona con pochi cenni della vita di un santo, che non era di origine veronese, ma edificò il nostro popolo con esempi di sublimi virtù nei primi decennali del secolo XII.

 

S. Gualfardo, nato in Augusta di Baviera, nell’anno 1097 venne ad esercitare in Verona il mestiere di sellaio.  L’arte sua non gli impedì di dedicarsi in pari tempo alle opere di pietà e di carità; finché, avendo conosciuto per esperienza quanto fosse maligno il mondo, pensò ritirarsi a vita nascosta in un bosco sulla riva dell’Adige, non lungi da Verona (38).  Quivi stette parecchi anni, conducendovi vita di penitenza e d’orazione: ma poi, scoperto dai veronesi e costretto dalle loro insistenti domande, venne in città, e dimorò in una casetta presso la chiesa di S. Pietro in monastero, mantenuto dalla pietà dei fedeli, fatto ad essi esemplare modello di ogni virtù.  In seguito, causa un’inondazione dell’Adige, si ritirò presso la chiesa della SS. Trinità, e più tardi fu accolto fra i camaldolesi nel monastero di S. Salvatore in Corte Regia.  Quivi santamente terminò la sua vita il giorno 30 aprile dell’anno 1127; venerato ed invocato dai veronesi per molti miracoli operati da lui in vita e dopo morte. Il suo corpo sepolto nella chiesa del monastero, quando i monaci dovettero esulare e fu dissacrata la \ chiesa (1807), fu trasportato nella chiesa di S. Fermo Maggiore (39). S. Gualfardo fu eletto a protettore dell’arte dei sellai.

 

 

NOTE

 

 

1 – BIANCOLINI, Chiese di Verona, II, pag. 628; IV, 827.

 

2 – BIANCOLINI, Chiese, II, pag. 721, segg.

 

3 – BIANCOLINI, Chiese, II, 628, 629. – Vedi anche SORMANI·MORETTI, La Provincia di Verona, III, pag. 184.

 

4 – SIMEONI, Verona. Guida … pagg. 296, 298, 299, 332, 355, ecc.; SGULMERO, Bardolino, pag. 23 (Verona 1901); SORMANI-MORETTI, Op. e l.c.; ecc.

 

5 – M. LUPI, De paroeciis ante annum 1000. Dissert. II; NARDI, Dei parochi; BOUIX, De parocho, P. I, Sct. I;  BERENGO, Enchir. paroch., Introd., Num. 20. – Non intendiamo come in un libro recente si dicano esistenti a Venezia cinquantaquattro parrocchie prima del 1000: PIVA, Il seminario di Venezia, pag. 64 (Venezia 1918).

 

6 – BIANCOLINI, Chiese di Verona, IV, pag. 732-737.

 

7 – CIPOLLA, Compendio della storia politica di Verona, pag. 72, seg.

 

8 – BALLERINI, Ratherii, Opera, col. 563. Nota 11. – Da un Quinternetto della Fabbriceria di Campofontana (1744-1752) S. Nicolò di Roverè apparirebbe vera parrocchia nell’anno 804: ma tale notizia pare basata sopra equivoci. CIPOLLA, Le popolazioni dei XIII Comuni, pag. 10, seg.

 

9 – UGHELLI, Italia sacra, Tom. V, col. 699; CERUTI, in Hist. P. Monum. XIII.  Codex diplom.  Longob., Num. CCLXXVII, pag.  467; BETTONI, Storia della riviera di Salò, III, Num. 1., il quale ne prova l’autenticità (I, pag. 137) contro Biancolini e Da Persico.

 

10 -DUMMLER, Gesta Berengarii, Num. 47, pag. 174; SCHIAPPARELLI, Diplomi di Berengario, Num. LIV, pag. 154 (Roma 1903).

 

11 – BIANCOLINI, Chiese, II, pag. 564. – Si dice spettare al secolo IX, e come vera parrocchia, la pieve del SS. Salvatore, detta di S. Salvar, in Bussolengo. BACILIERI, Bussolengo, pag. 21 (Verona 1903).

 

12 – RATHERIUS, Epist. ad Ambrosium cancell. Num. 2, col. 563.

 

13 – SCHIAPPARELLI, Op. cit., Num. XVI; GUALTIERI, Serie cronologica degli Arcipreti della chiesa plebana di S. Procolo … Docum., pag. 47 (Verona 1818). – Vedi anche GARZOTTI, Le pievi della città di Verona … (Verona 1882): egli vorrebbe che le pievi di S. Floriano, S. Giorgio Ingannapoltron ed Arbizzano risalissero al secolo IV. Sarebbe un po’ troppo.

 

14 – RATHERIUS, Synodica, Num. 9, col. 416.

 

15 – RATHERIUS, Iudicatum, Num. 5, col. 476, coll.  Synod., Num. 22.

 

16 – RATHERIUS, Synodica, Num. 15, col. 422.

 

17 – THOMASSINUS, Vetus et nova discipl., P. I, Lib. II, Cap. 26, Num. 6.

 

18 – RATHERIUS, Synodica, Num. 15. – Cosi egli chiude questo importante documento.

 

19 – BIANCOLlNI, Chiese di Verona, I, pag. 14; IV, 732.

 

20 – BIANCOLlNI, Chiese, II, pag.  29.

 

21 – CAVATTONI, Memorie intorno alla vita … di S. Zeno, pag.  239; BRESSLAU,  Diplom. Regurn et Imper., Num. 309, III, pag. 387 (Hannov. 1900-1903).

 

22 – CIPOLLA, Verzeichniss der Kaiserk in den Archiv. Veronas, Il, 107.

 

23 – BIANCOLINI, Chiese I, pag. 51; BRESSLAU, Diplom … IV, pag. 132, Num. 95 (Hannov. 1909).

 

24 – Ne abbiamo scritto una breve monografia: S. Dionigi (Verona 1893).  Vedi anche POMELLO, S. Dionisi  (Verona 1909).

 

25 – CIPOLLA, Le popolazioni dei XIII comuni, pag. 13, Antichi possessi del mon. di S. Maria in Organo nel Trentino (Roma 1882).

 

26 – BIANCOLINI, Chiese, V, P. I, pag. 14; CIPOLLA, Fonti edite pag. 114, coll.  Append. III, pag. 17; JAFFÈ,  Regesta RR. PP., Num.  4071.

 

27 – PANVINIUS, Antiqu. Veron., Lib. I, Cap. 22; BIANCOLINI, Chiese VIII. – Forse vi erano monaci sino dal 774. DA LISCA, Cenni … sulla chiesa di S. Fermo (Verona 1909).

 

28 – BIANCOLINI, Chiese, I, pag. 332.

 

29 – BIANCOLINI, Chiese, I, pag. 331. – Ciò apparirebbe da una iscrizione, presso DA LISCA, Op. cit.

 

30 – BIANCOLINI, Chiese, I, pag. 329.

 

31 – Dei suoi fasti anteriori al pseudopontificato scrisse MUNERATI in Rivista di scienze storiche, Anno III, Vol. I, pagg. 167,277, 342 (Pavia 1906).

 

32 – UGHELLI, Italia sacra, V, col. 1039; BIANCOLINI, Chiese, V, P. II, pag. 147.

 

33 – L’Atto presso BIANCOLINI, Chiese, IV, pag. 755.

 

34 – Presso PERTZ, Monum. Germ. Hist., Script., XIX, pag. 2-6.

 

35 – Altro monastero degli stessi monaci neri era a Vangadizza di Badia (Polesine). Forse qualche confusione tra i due monasteri si trova anche presso il nostro Biancolini: certamente S. Teobaldo (BIANC., Chiese, III, 276) non morì nel monastero della Vangadizza veronese.  Sigeberto Gemblacense (Chron.) presso PERTZ, Monum. Germ., Script., VI, 359, 361 lo dice defunto «in Vincentia Venetiae urbe reclusus ». – TRECCA, Legnago, pag. 29.

 

36 – SALVARO, La chiesa dei SS. Siro e Libera, pag. 8 (Verona 1882).

 

37 – BIANCOLINI, Chiese di Verona, IV, pag. 737, seg. – Il Monte Agudulo, secondo Biancolini, sarebbe ora Monte Agù, presso il castello di S. Felice.

 

38 – Pare al Saltuclo (S. Pancrazio): N. N., Vita di S. Gualfardo (Verona 1759).

 

39 – TURRI, Cenni intorno alla vita di S. Gualfardo (Verona 1861).

 

 

ANNOTAZIONI AGGIUNTE AL CAP. XVIII (XVII nella stampa originale) a cura di A. Orlandi

 

 

(a) Pag. 299. – Dopo l’epoca in cui scrisse mons. Pighi, molti hanno trattato il tema delle pievi e dell’organizzazione ecclesiastica nel medioevo; ecco alcuni studi fondamentali: G. FORCHIELLI, Una « plebs baptismalis cum schola iuniorum » a S. Giorgio di Valpolicella, in «Studi Urbinati » I, 2 giugno 1927;  G. FORCHIELLI, Collegialità dei chierici nel veronese dall’VIII secolo all’età comunale, estratto da «Nuovo Archivio Veneto» vol. In (1928), pp. 1-117;  G. FORCHIELLI, La pieve rurale. Ricerche sulla storia della chiesa In Italia e particolarmente nel Veronese, Verona 1931, pp. XVI-282 + 11; A. CASTAGNETTI, La pieve rurale nell’Italia padana. Territorio, organizzazione patrimoniale e vicende della pieve veronese di S. Pietro di «Tillida » dall’alto medioevo al secolo XIII, Roma 1976.

 

(b) Pag. 304. – Per una visione riassuntiva di questa materia si veda:  V. FAINELLI, Storia degli Ospedali di Verona dai tempi di S. Zeno ai giorni nostri, Verona, 1962.

 

 

 

Fonte:  srs di Giovanni Battista Pighi, da CENNI STORICI SULLA CHIESA VERONESE, volume I

 

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