Mag 06 2013

LA PREISTORIA NELLA VALLE DI AVESA

Category: Verona archeologia e paleontologiagiorgio @ 01:03

Di Alberto Solinas

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Alberto Solinas (a sinistra con il cane Virgo)  durante una visita al  sito archeologico del Ponte di Veja, 1981

Alberto Solinas, nato a Verona il 24 giugno 1940, diplomato alla scuola d’arte Napoleone Nani nel 1958. «Figlio d’arte» di Giovanni, si interessa di archeologia. Nelle sue ricerche accumula una grande esperienza e conoscenza in campo paletnologico, che lo porta a scoprire il paleosuolo di Isernia.  Questo accampamento del Paleolitico inferiore europeo è una delle più grandi scoperte paletnologiche di tutti i tempi

  

1. STORIA DELLE RICERCHE

  

Il presente lavoro vuole illustrare come si sono svolte le ricerche preistoriche, e come si è inserito l’uomo in Avesa e nella zona circostante.

 

È da tener presente che le date e le ipotesi che si avanzano, col passare degli anni possono subire dei cambiamenti, perché la preistoria è una scienza molto giovane e quindi soggetta a continui aggiornamenti. Quando andiamo a passeggiare, o a compiere delle scampagnate sulle nostre colline, in genere non osserviamo con attenzione il terreno che calpestiamo, altrimenti noteremmo quei fenomeni geologici che lo hanno plasmato, e osserveremmo prima o poi, quelle pietre del tutto particolari, le cui forme possono difficilmente spiegarsi come scherzi della natura: lame sottili, ciottoletti più o meno rotondeggianti, punte, ecc., tutte per lo più con quella patina lucida e biancastra, oppure variamente colorate e dall’aspetto vetroso: sono le selci volgarmente chiamate folende.

Questi «sassi» si trovano generalmente concentrati in alcune aree della collina, oppure, più raramente, nella pianura ai piedi delle colline, ivi trasportati e sepolti dai dilavamenti delle piogge e delle nevi di migliaia di stagioni, assieme alla terra che ricopriva i colli, formando depositi terrosi che innalzarono il fondo delle valli.

Le concentrazioni di queste selci (lame, raschiatoi, picconi, punte di freccia, scarti di lavorazione ecc.), che rinveniamo abbandonati sul terreno nella zona di Avesa, sono parte degli strumenti che servirono all’uomo primitivo per la sua attività, e costituiscono le più tangibili testimonianze dei villaggi da lui costruiti sulle cime delle colline migliaia di anni fa.

Oggi noi troviamo in superficie i manufatti si licei più recenti, mentre i più antichi li possiamo rinvenire, o nelle grotte (come nei ripari Mezzena e Zampieri) oppure, come abbiamo detto, trasportati nelle valli dai fenomeni atmosferici, e depositati negli strati terrosi più profondi (esempio: le cave di Ca’ Rotta).

I primi strumenti silicei rinvenuti nei pressi della nostra città, vennero raccolti nel 1874 sulla dorsale collinare a est di Avesa. Dopo circa 60 anni, nel 1930, si aprì la cava di argilla ai piedi del monte Croceta (Ongarine), in cui degli «appassionati» trovarono strumenti riferibili al Paleolitico inferiore, i primi rinvenuti a nord del Po.

 

Nei trent’anni successivi, la zona Avesa-Quinzano si rivelò della massima importanza per lo studio della preistoria, in quanto si è scoperto che l’uomo vi ha lasciato le tracce della sua esistenza «ininterrottamente» dall’antica età della Pietra fino ai nostri giorni: si è qui in presenza di un fenomeno unico in Italia. Ciò fu possibile perché anche le inondazioni dell’Adige rispettarono quell’angolo di terreno allo sbocco delle due valli di Avesa e Quinzano, lasciandolo intatto. Purtroppo, questo prezioso deposito, che poteva offrire ancora tanto materiale di studio, e forse anche la soluzione di importanti problemi archeologici, è stato praticamente distrutto con la costruzione di edifici sopra il deposito stesso.

La storia delle ricerche sulle tracce lasciateci dall’uomo preistorico attorno ad Avesa, inizia con l’indiscusso padre della paletnologia veronese Pietro Paolo Martinati.  Egli ci fornì notizie delle sue ricerche, compiute nelle vicinanze di Avesa, nell’occasione del discorso pronunciato alla Prima Esposizione Preistorica Veronese, del 20 febbraio 1876, nel quale annunciò che:

«Non è offesa da verun dubbio l’antichità delle numerose selci tagliate che nell’autunno dell’anno 1874 osservai e raccolsi a fior di terra nello spiano che prospetta l’amenissima Valpantena, fra le due ultime torri del colle detto Monte Cain o Gain con parte di un grande femore bovino».

Agostino Goiran

Agostino Goiran

 

Queste selci vennero esposte alla mostra e descritte nel catalogo da Agostino Goiran (1), nel quale leggiamo:

 

«Espositore: Martinati Pietro-Paolo (a) Monte Gaino o Caino presso Verona.

1. Porzione di femore di bue;

2. Sassi da fionda, coltelli, seghe, nuclei, scaglie ed altri oggetti di selce per la massima parte tramutatasi in cacholongs; (2)

3. Punte di giavellotti;

4. Una freccia triangolare, altra freccia a foglia d’ulivo, tre frammenti di freccia».

 

Se Pietro-Paolo Martinati, invece di limitarsi alla dorsale collinare, si fosse abbassato un poco, e avesse avuto in quel tempo l’intuizione logica che successivamente ebbe Giovanni Solinas, secondo il quale un villaggio preistorico aveva la necessità di una sorgente d’acqua vicina per la sua fondazione, si sarebbe recato alla vicinissima sorgente del Copo (versante di Avesa) e avrebbe così scoperto il primo villaggio preistorico sulla collina veronese.

Per circa 60 anni, nessuno dei maggiori studiosi di paletnologia veronese come: Luigi Pigorini, Carlo Cipolla, Giuseppe e Gaetano Pellegrini, Agostino Goiran, Stefano De Stefani, Achille Forti, Ramiro Fabiani, Giorgio Dal Piaz, Alfonso Alfonsi e Raffaello Battaglia si interessò a quelle ricerche paletnologiche iniziate da Pietro-Paolo Martinati sulla collina a nord di Verona. Ai piedi del Monte Croceta, nell’anno 1930, a circa metà’ strada dell’attuale via Cava Bradisa e a occidente della stessa (a nord-nord-est di villa Ca’ Rotta), la ditta Giovanni Battista Righetti e Figli di Verona apriva una cava in località Bradisa per l’estrazione dell’argilla per la fabbricazione di mattoni.

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Una cartolina inviata a Giovanni Solinas «Paletnologo» dagli amici del Museo di Storia Naturale di Verona, Sandro Ruffo, Angelo Pasa e Francesco Zorzi nel 1933. 

 

Nel 1932 si formò, all’interno del Museo Civico di Storia Naturale di Verona, un gruppo di appassionati naturalisti, composto dal trentaduenne paletnologo Francesco Zorzi (assistente del direttore del museo Vittorio dal Nero), dal geologo e paleontologo Angelo Pasa allora poco più che ventenne, dallo studente Giovanni Solinas di diciotto anni, che collaborava con Zorzi e Pasa, ed infine dal più giovane di tutti, il diciassettenne studente Alessandro Ruffo, futuro zoologo.

Di questo gruppo, il primo che si interessò dell’area all’imbocco delle due valli di Avesa e Quinzano, fu Angelo Pasa che periodicamente visitava la cava d’argilla, chiamata dagli operai Bradisa (successivamente prenderà il nome di «cava orientale») (3). Qui egli raccolse delle ossa fossili e alcuni strumenti di selce.

Non potendo essere continuamente presente all’estrazione dell’argilla e di conseguenza non potendo raccogliere tutto il materiale che gli interessava, propose agli operai di raccoglierlo per lui, che lo avrebbe acquistato (il proprietario della cava, fino al 1938 non sapeva nulla dei «guadagni» extra dei suoi operai e delle ricerche intraprese dal «gruppetto» di appassionati naturalisti nelle sue cave) (4).

Il vecchio cavatore d’argilla Giulio Montresor era quello che vendeva maggiormente gli «ossi» e le folende (selci) a Angelo Pasa. Agli inizi dell’anno 1933, questi, resosi conto che il rinvenimento di selci aumentava, consigliò il Montresor a venderle a Francesco Zorzi (5). Nel 1934, Zorzi accertò che la cava Bradisa stava restituendo  manufatti importantissimi dell’industria paleolitica, e capì l’importanza del materiale paletnologico: così, oltre ad acquistare le selci, iniziò a frequentare la cava (6).

planimetria-valle-avesa-quinzano1945

Planimetria della bassa valle di Avesa-Quinzano nel 1944-45, e posizione delle cave: 1) Cava Vecchia o Occidentale e Cave Nuove; 2) Cava Bradisa (orientale); 3) Cava del Cesiolo. Scala 1:25.000. (Da Zorzi F. – Pasa A. op. cit. 1944-45). 

 

Seguendo i lavori di estrazione dell’argilla, Zorzi ben presto si rese anche conto che nella Bradisa non esistevano solo selci di epoca paleolitica, ma di quasi tutti i periodi preistorici. Questo fatto lo portò a esplorare la zona attigua ad Avesa, con il risultato dell’individuazione di due località preistoriche sul Monte Calzerega e sul Monte Croceta (7).

 

Visti i buoni risultati ottenuti da Francesco Zorzi nelle ricerche sulla collina, Giovanni Solinas nel 1936 iniziò una serie di ricognizioni sistematiche lungo le dorsali collinari comprese tra   Avesa e Quinzano, spingendosi a nord fino a Montecchio.  Le esplorazioni dettero buoni risultati e portarono all’individuazione  di tutta una serie di abitati preistorici.

Essi si trovano sul :

– Monte Cavro o Cavre,

– Monte Triarcole,

– Monte Faldè,

– quota 391,

– Monte Pavaglio,

– Le Rosele,

– Tramanal,

– I Patrizi,

– Tre Tempi,

– Ca’ del Gabi,

– Monte Cossa,

– Monte Tosato,

– il Maso,

– Spigamonte,

– Monte Sarte, –

– Monte Spigolo di Avesa,

– Monte della Cola,

– Monte Spigolo di Montecchio,

– le Are,

– la Torricella la, attorno alla Fontana di Sommavalle,

– quota 239,

– il Còstolo,

– quota 326,

– Monte Arzan,

– dosso Ca’ Vecchia, –

– Monte Croson -S. Vincenzo,

– Monte Solan,

– Montesel del Rocolo,

– la Crucola,

– Castejon,

– il dosso dei Gaspari,

– i monti della Tenda, l

– a Caseta (8).

 

Tutti i manufatti silicei raccolti da Giovanni Solinas indicavano una serie di abitati preistorici costruiti sulle dorsali collinari: ciò costituì una novità per la preistoria veronese. Ma tutti questi manufatti non vennero e non vengono tenuti in considerazione per il fatto che le selci non furono trovate in scavi regolari bensì in superficie.

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Piano d’assieme delle cave di Ca’ Rotta: 1) Cava Vecchia (il punto nero segna la «Buca fonda»); 2) Cava Bradisa; 3) Cave Nuove. Le frecce indicano le principali correnti alluvionali che causarono il riempimento delle cave.  Scala 1:4.000. (Da Zorzi F. – Pasa A. op. cit. 1944-45)

 

Nel 1937 si iniziò lo scavo della cava Vecchia o occidentale; l’anno 1938 fu importante per i ritrovamenti: si rinvennero parecchie selci musteriane, una amigdala acheuleana e il famoso osso occipitale umano. Francesco Zorzi si rese veramente conto della grande importanza del deposito, e il 5 dicembre 1938 comunicava alla Reale Soprintendenza di Padova che a Ca’ Rotta gli operai avevano rinvenuto ossi di animali e oggetti silicei (9).

amigdala-busa-fomda-cava-vecchia

 

L’amigdala acheuleana proveniente dalla «Buca fonda» della Cava Vecchia. Lo stato fisico dell’amigdala e degli altri manufatti silicei, trovati nello stesso strato, non presentano segni di rotolamento o di accentuata degradazione: ciò sembra provare che essi non abbiano subito trasporto naturale da luoghi vicini, ma si trovino in giacitura primaria. Scala 1:1. 

 

Il 15 dicembre, il prof. Raffaello Battaglia si recò a Verona, visitò la cava di Ca’ Rotta ed esaminò il materiale trovato (10). Durante il sopralluogo, Zorzi si accorse che il Battaglia non mostrava interesse al materiale preistorico, per cui inviò tutte le selci al prof. Paolo Graziosi dell’Istituto di Paleontologia Umana di Firenze (11).

L’invio del materiale siliceo da parte dello Zorzi al Graziosi, provocò naturalmente un contrasto tra i due studiosi (Zorzi e Battaglia), tanto che, durante gli scavi regolari effettuati dall’aprile all’agosto dell’anno 1939 nella cava Vecchia sotto la direzione di Raffaello Battaglia, a quanto pare, Zorzi non fu presente: ciò si deduce da quanto scrive Battaglia stesso nel suo studio del 1939:

«Nelle mie visite agli scavi ho potuto controllare come fu raccolto il materiale da parte degli operai della cava per conto dello Zorzi. Il vecchio cavatore Giulio Montresor, ora occupato nei nostri scavi, e che fu il principale fornitore di materiale allo Zorzi, mi assicurò in modo categorico che a partire dal 1933, tutte le selci e le ossa che venivano raccolte dagli operai durante l’estrazione dell’argilla,   egli le portava allo Zorzi, col solito specchietto della ‘mancia competente’.  Il Montresor mi assicurava che la maggior parte delle selci (musteriane) meglio lavorate furono raccolte nella cava orientale, in località Bradisa, la quale venne completamente esaurita già durante l’anno 1937.  Va corretto quindi, in base alle assicurazioni dello Zorzi, che tutto il materiale da me esaminato era stato raccolto nel corso di pochissimi mesi … I depositi  argillosi di Quinzano sono nel complesso poveri di materiale, perché ci vogliono intere giornate di lavoro per raccogliere qualche scheggia di selce o qualche pezzetto di osso. Pare che tali ritrovamenti diventino un po’  meno rari negli strati più profondi del deposito … e si possono dividere in tre gruppi:  selci di tipo neolitico e eneolitico e di tipo campignano;  selci musteriane; selci chelleane»,

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Sezione delle cave di Ca’ Rotta: 1) Cava Vecchia (la parte più bassa era conosciuta come «Buca fonda»); 2) Cava Bradisa; 3) Cave Nuove. Scala 1:1250. (Da Zorzi F. – Pasa A. op. cit. 1944-45)

 

Francesco Zorzi, oltre a non partecipare allo scavo, non ebbe, a quanto sembra, neanche più contatti con Battaglia, perché in caso contrario, ci sarebbero stati dei chiarimenti sulla sua prima lettera spedita, come si è detto, in data 5 dicembre 1938 alla Reale Soprintendenza di Padova, nella quale diceva:

« … risulta che le località in cui si eseguono i lavori di scavo corrispondono a due appezzamenti di terreno … Un muro divisorio separa i due lotti, dei quali l’orientale (Bradisa, n.d.r.) fu sfruttato fin dal 1937 (Zorzi doveva scrivere 1930, n.d.r.) e diede industrie liti che preistoriche» (12).

Perciò Battaglia ritenne che tutte le selci vennero raccolte in pochi mesi, anche per il motivo che durante la sua prima visita del  5 dicembre  1938, dice:

« … potei esaminare, in una rapida visita, il  materiale già immesso nel Museo e visitare, guidato dal signor  Zorzi la cava di argilla».

Zorzi come si comprende da questo scritto,  mostrò al Battaglia solo la cava occidentale, cioè la Vecchia, perché la Bradisa era nascosta dal muro che divideva le due cave, ed era già stata chiusa fin dal 1937, e quindi aveva «perso» il suo interesse scientifico.

sezione-stratigrafica-cava-vecchia

Sezioni stratigrafiche della cava Vecchia rilevate da Angelo Pasa e Francesco Zorzi, con le posizioni degli oggetti ivi trovati: 1) corno di cervo e frammenti di denti di elefante; 2) grande selce acheuleana; 3) frammenti di ossi e di denti di elefante; 4) cranio di elefante; 5) amigdala acheuleana; 6)cranio di cervo e frammenti indeterminati; 7) megàcero; 8) occipitale umano; 9) tibie di elefante; 10) piccolo corno di cervide. Sulla grande quantità di materiale archeologico e faunistico rinvenuto in così poco spazio, il geologo Mauro Cremaschi scrive « … e, soprattutto una notevole quantità di industria litica senza traccia di trasporto postdeposizionale, di tecnica levallois e bifacciali, associata a fauna tra cui Helephas e cervidi, … è con tutta probabilità da legarsi come un suolo d’abitato sepolto». (Cremaschi M. I paleosuoli ed i depositi atriali delle cavità carsiche e dei ripari, in «Il Veneto nell’antichità, preistoria e protostoria», edizioni Banca Popolare di Verona 1984). 

 

Quando Zorzi spedì il materiale preistorico al prof. Paolo Graziosi, fu molto più esplicito con lui.  Gli mandò dei cartoncini – come si usava allora – con sopra legate le selci provenienti dalle due cave; le selci erano attaccate in modo alquanto confuso, perché Zorzi le sistemava secondo le indicazioni stratigrafiche indicate dagli operai che estraevano l’argilla. A volte succedeva che alcune selci molto più «recenti» cadessero dall’alto delle cave andando a finire sul fondo mischiandosi con le più antiche esistenti alle basi delle cave stesse: per questo motivo, gli operai davano indicazioni errate allo Zorzi.

I circa 70 manufatti silicei che raccolse nelle cave, Zorzi li divise in tre gruppi: i primi due erano composti da 43 pezzi provenienti dalla cava Bradisa: il gruppo più copioso portava l’indicazione da profondità 7-8 m, quello più esiguo 6-7 m; il terzo gruppo era composto da 25 manufatti provenienti dalla cava Vecchia e recava l’indicazione strati 5 e 6; ma alcuni:

« … provengono senza dubbio dalla superficie del suolo… si tratta di alcune lamette che possono ben figurare in un complesso neolitico» (13).

Il prof. Paolo Graziosi, una volta ricevuto il materiale preistorico, lo ritenne subito di grandissima importanza e si recò a Verona due volte: il 24 gennaio e il 20 febbraio 1939. Anche in quelle occasioni Zorzi fu molto più esplicito con lui che non con il prof. Battaglia nell’illustrare le cave di Ca’ Rotta, tanto che Graziosi scriveva nel 1939:

«Circa un mese fa il signor Francesco Zorzi, direttore del Civico Museo di Storia Naturale di Verona, mi comunicò di aver scoperto ai piedi del monte Ongarine, un giacimento quatemarioQuando visitai per la prima volta il giacimento di Ca’ Rotta, la cava orientale (la Bradisa, n.d.r.) era stata interrata e sulla zona si estendevano di nuovo le colture agricole. Nessuna possibilità quindi di studiare quella parte del giacimento che aveva dato a suo tempo manufatti litici. Una trentina di metri più a valle, invece, la cava occidentale (la Vecchia, n.d.r.) era, e lo è tuttora, in efficienza. Un’ampia cavità subrettangolare si approfondiva nel terreno argilloso per una dozzina di metri e su di una estensione di circa 500 mq».

Il prof. Graziosi, vista l’importanza del giacimento di Ca’ Rotta, si unisce subito al lavoro, e solo un mese dopo, nel marzo del 1939 licenziava le bozze perla stampa della sua nota sul giacimento, nella quale sottolineava che a Ca’ Rotta

«è rappresentato in modo chiarissimo il Paleolitico inferiore del quale, come è noto, non si era avuta fino ad oggi alcuna segnalazione in Alta Italia, a settentrione del Po».

Anche il prof. Battaglia, dà il via alla stampa della sua nota informativa sulle cave di Ca’ Rotta il 4 settembre 1939. In essa accenna nuovamente all’esiguità del materiale siliceo raccolto, ma pone l’attenzione sull’industria chelleana presente nelle cave e sull’amigdala

«giacché non si tratta evidentemente in questo caso di un oggetto sporadico raccolto in superficie, ma di un manufatto ‘in situ’, in concordanza stratigrafica, a quanto pare, con l’elefante antico. L’amigdala veronese è inoltre la prima del genere rinvenuta ‘in situ’ nell’Italia settentrionale».

Terminato lo scavo da parte della Soprintendenza, Zorzi continua le sue ricerche nella cava Vecchia, e il 20 giugno 1940 raccoglie alla base dello strato 5° una seconda amigdala.

L’ultimo scavo per l’estrazione dell’argilla nella cava Vecchia viene eseguito il 3 ottobre 1940, e contemporaneamente si apre la Prima cava Nuova e poco dopo la Seconda cava Nuova; nel febbraio del 1941 si inizierà lo scavo nella Terza cava Nuova. In tutte queste cave lo Zorzi raccoglie nuovo materiale siliceo, frammenti di ceramica dell’età del Bronzo, dell’età romana e del XV o XVI secolo.  Questa attività di ricerca ebbe termine nel marzo del 1941, perché Zorzi si vide consegnare dalla polizia tributaria una diffida, da parte del Soprintendente di Padova prof. Brusin (14).

Nel 1942 il prof. Piero Leonardi scrive una nota su tutto il materiale rinvenuto durante le ricerche eseguite dalla Soprintendenza di Padova. Il risultato di questo suo studio è simile ai due precedenti fatti dal Graziosi e dal Battaglia.

È giusto a questo punto riportare quanto scrive il Leonardi sulla stratigrafia delle cave di Ca’ Rotta, per avere un’idea reale del loro contenuto preistorico:

«Gli strati più antichi (6° e 7°), hanno fornito una caratteristica e omogenea industria litica musteriana riferibile ad un Paleolitico medio molto antico … Lo strato 5°  si è rivelato poverissimo di industria … È probabile che lo strato 5°  sia più ricco di industria in altra zona della cava ed abbia fornito i numerosi manufatti di tipo musteriano più evoluto … Lo strato 4° (crostone concrezionato) è sterile. Il 3° si è pure rivelato assai povero di industria, e ciò è piuttosto spiacevole perché la sua esatta datazione presenterebbe particolare interesse, essendo stato trovato alla sua base il ben noto occipitale umano. Fra i non molti manufatti rinvenuti … propendo a ritenerli riferibili al Paleolitico superiore, non si può escludere che essi siano già neolitici. In ogni caso è quasi certo che il Paleolitico superiore è rappresentato nel deposito di Ca’ Rotta. Infine gli strati 2° e 1 e per la presenza della ceramica e per la tipologia dei manufatti si dimostrano sicuramente riferibili alle culture neo-eneolitiche».

Da questi dati, oggi si può comprendere l’importanza che avevano le cave di villa Ca’ Rotta, nelle quali l’uomo lasciò le sue tracce «ininterrottamente» per ben 250 mila anni, cosa tuttora unica in Val Padana.

Nel 1945 Francesco  Zorzi e Angelo Pasa, pubblicano la nota sui depositi di villa Ca’ Rotta (15), dove vengono per la prima volta chiariti e trattati, gli aspetti paleontologico, paletnologico e geologico.

Circa 40 anni dopo, mi diceva il prof. Francesco Tagliente, che nel riordinare il materiale siliceo giacente  nel Museo di Storia Naturale di Verona, sono stati ritrovati degli strumenti del Paleolitico superiore raccolti nelle cave di Ca’ Rotta nel lontano 1946 da mio padre Giovanni; mi faceva notare l’importanza di quel materiale purtroppo mai pubblicato, che costituiva a quell’epoca i primi strumenti appartenenti al Paleolitico superiore rinvenuti a nord del Po. Infatti le prime notizie su questo periodo nel Veneto, si riferiscono alle industrie litiche delle grotte del Broion sui colli Berici trovate nel 1951 dal prof. Piero Leonardi (16).

Dobbiamo tener presente però, che nel giacimento di villa Ca’ Rotta alcuni manufatti raccolti da Zorzi o durante lo scavo regolare, vennero descritti dal Graziosi e dal Leonardi come probabili appartenenti al Paleolitico superiore. È certo che se a questo materiale si fosse aggiunto quello trovato dal Solinas, e fosse stato tutto mostrato agli studiosi interessati alle cave di Ca’ Rotta, si sarebbe risolto molto prima il problema del Paleolitico superiore a nord del Po, senza dover attendere il 1963, anno di pubblicazione dello studio di Broglio e Zorzi sull’industria del Paleolitico superiore nelle grotte del Ponte di Veja, in cui si afferma (17): «D’altra parte lo studio delle tre industrie del Paleolitico superiore di Veja porta un contributo essenziale alla conoscenza del Paleolitico superiore della Valle Padana, ignoto sino agli scavi di Veja ed ancor oggi conosciuto solo in poche stazioni, con industrie piuttosto povere … ».

Prima di chiudere con l’argomento sul Paleolitico superiore, dobbiamo notare con rammarico ciò che scrive al riguardo Raffaello Battaglia nel 1957:

«Il materiale veronese è purtroppo, dopo tanti anni dallo scavo, ancora e sempre inedito».

Cosa scriverebbe oggi il Battaglia, se sapesse che nella bellissima opera Il Veneto nell’antichità edito nel 1984, non è neanche citato questo preziosissimo materiale, importantissimo per il motivo che costituisce l’industria (di questo periodo) trovata «in pianura» alla quota più bassa, 66 metri sul livello del mare, l’unica finora della Valle Padana?

Raffaello Battaglia – essendo un antropologo – scrisse pure una nota informativa nel 1939 sul frammento di cranio umano raccolto nella cava Vecchia.

Tuttavia le notizie poco chiare fornite dallo Zorzi al Battaglia fecero sì che anche l’osso occipitale iniziasse malamente il suo percorso scientifico: lo strato di provenienza non  era sicuro, e della rottura dell’osso venne incolpato ingiustamente l’operaio Giulio Montresor: l’osso occipitale umano, raccolto integro, è stato rotto in più pezzi dall’operaio nel portarlo a Verona allo Zorzi, è stato detto. Solo nel 1945 si seppe la verità, quando Francesco Zorzi scrisse come venne trovato l’osso:

«Nel pomeriggio del giorno 8 ottobre 1938 nella cava Vecchia alla base dello strato terzo in argilla rossa, l’operaio Fagioli Bortolo battè col piccone contro un osso occipitale umano che andò in pezzi. In parte questi furono raccolti e ci vennero consegnati la sera stessa da un altro operaio: Giulio Montresor. Dopo aver messo insieme quattro frammenti e constatata con facilità la mancanza di altri minuti pezzi, ci recammo sul posto la sera stessa per cercarli e li trovammo subito fra la terra rossa».

Il Battaglia nella citata nota informativa, fa osservare che, sebbene analizzato superficialmente, l’osso, senza alcun dubbio presenta uno stato di fossilizzazione molto antico, che non si tratta di un occipitale riferibile al Palaeanthropus Neandertalensis.

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L’osso occipitale rinvenuto nella Cava Vecchia di Ca’ Rotta datato all’interglaciale Riss-Würm (120.000-80.000 anni fa). Fotografato in grandezza naturale. (Battaglia R. op. cit. 1947-48). 

 

Più specificatamente il prof. Battaglia tratterà lo studio dell’osso occipitale nella nota scritta nel 1943, ma stampata solo nel 1948 (18). In questa nota egli ribadisce che, nonostante la posizione stratigrafica e l’età  geologica dell’occipitale umano siano incerte, esse  «devono ritenersi contemporanee agli strati inferiori (5°-7°) del deposito».

In questi strati si rinvennero industrie silicee ricavate con «tecniche clactoniane e levalloisiane: ciò dimostra che esse appartengono ad un livello molto antico del cosiddetto Paleolitico medio».

Pochi mesi dopo, nelle Memorie del Museo civico di storia naturale di Verona, sempre il Battaglia scriveva un’altra nota sull’occipitale veronese (19) nella quale ribadiva la sua tesi: che l’osso appartiene al «periodo geologico Riss-Würm, in cui si diffusero sul suolo europeo i più antichi paleantropi neandertaliani … I caratteri che maggiormente colpiscono esaminando l’occipitale sono:

1) lo stato molto avanzato di fossilizzazione dell’osso;

2) il suo notevole spessore;

3) la morfologia di tipo attuale».

Con ciò il Battaglia voleva dire che l’occipitale appartenuto a quell’uomo si avvicinava, come struttura cranica, più alle razze attuali che a quella dei neandertaliani (Angelo Pasa, nella revisione dei sedimenti delle cave di Cà Rotta (20), colloca gli strati inferiori della cava Vecchia alla fine della glaciazione rissiana, perciò i dati in linea di massima coincidono con quelli del Battaglia).  Il Battaglia propone così la teoria secondo cui, assieme all’uomo di Neanderthal, viveva anche un uomo dai caratteri fisici simili ai nostri.

Questa teoria venne accolta da alcuni antropologi (21), ma da altri osteggiata: fra questi Sergio Sergio.  Ne nacque infatti una diatriba sull’argomento, alla quale parteciparono anche antropologi stranieri (22). Sergio Sergi (23) ritiene l’occipitale veronese un «documento non attendibile, perché non è provata la sua posizione stratigrafica» nel terreno. La persona più direttamente interessata all’occipitale era lo stesso scopritore, il prof. Zorzi, il quale sostenne la tesi del Battaglia e indicò la «sua posizione nello strato, nel quale, a breve distanza, fu rinvenuto anche un raschiatoio litico prettamente musteriano», per questo fatto «l’osso occipitale umano fu attribuito al periodo musteriano» (24). Anche questo scritto non venne tenuto in considerazione, nemmeno nell’ultima edizione del noto volume Razze e popoli della terra, UTET, Torino, 1967.

 

Finalmente nel 1971,  riappare l’occipitale veronese nel notissimo Catalogue of fossil  hominids edito dal British Museum di Storia Naturale di Londra, dove si legge:

«… l’assegnazione al penultimo interglaciale (Riss-Wiìrm) attribuita all’occipitale di Ca’ Rotta dal Battaglia è avvalorata dai risultati delle datazioni relative (eseguite con il sistema della flourina e con la stima radiometrica dell’uranio) eseguite dal British Museum»;  con queste datazioni – basate su leggi fisiche – rese possibili solo da pochi anni, si ha la conferma di tutto quello che fin dall’inizio aveva intuito e sostenuto Raffaello Battaglia e successivamente confermato dai due studiosi veronesi Zorzi e Pasa, chiudendo così definitivamente la disputa tra studiosi sull’occipitale rinvenuto nella cava Vecchia nel lontano 1938.

ca-rotta-tavola-pasa

La tavola rilevata da Angelo Pasa nel 1956 dove descrive dettagliatamente le fasi pedostratigrafiche e la sua interpretazione cronostratigrafica che si è evoluta – probabilmente per l’intero Pleistocene nella valle di Avesa. La campionatura degli strati terrosi raccolti da Pasa, prima dell’interramento delle cave di Ca’ Rotta, e depositati al Museo di Storia Naturale  di Verona, sono oggi in fase di riesame da parte del prof.  Cremaschi per una eventuale revisione dei dati raccolti.

 

Dopo la pausa delle ricerche scientifiche, causata dalla seconda guerra mondiale, lentamente riprendono le attività nel Museo di Scienze Naturali di Verona, e alla fine del 1945 si formerà all’interno del Museo stesso il «Gruppo grotte».  Questo gruppo inizierà una serie di esplorazioni nelle grotte e nei ripari sotto roccia esistenti nelle valli a nord di Avesa. Al gruppo partecipavano anche Zorzi, Pasa e Solinas, senza però dimenticarsi delle cave di Ca’ Rotta.

Alla fine del settembre 1947, vennero raccolte dagli operai delle ossa umane (un femore e un bacino in connessione anatomica) provenienti dagli  strati argillosi 19° e 18° (25) nella Terza cava Nuova: si  scopriva cosi una necropoli composta di 13 individui.

I defunti erano stati adagiati in posizione rannicchiata sul fianco sinistro nella nuda terra, in buche profonde da 50 cm a 1 m,  quasi sempre rivestite di pietre, e sembra anche da grumi o lastre di argilla mal cotta. Le sepolture si trovavano sparse e senza un orientamento preciso, a distanze variabili l’una dall’altra dai 5 ai 10 m.

Il normale corredo al fianco del cadavere era composto da strumenti silicei, piccole asce di pietra verde levigata e vasi a bocca quadrata (26), ma è presente anche il vaso campaniforme (27). L’inumato era poi quasi sempre ricoperto di pietrame disposto a forma di cupola (28). Il pietrame fu la causa principale del cattivo stato di conservazione con cui si sono rinvenuti i resti ossei: quasi tutti gli scheletri presentavano evidenti caratteristiche di schiacciamenti; il cranio, nella parte rivolta verso l’alto, era per lo più deformato, compresso e fratturato; i crani e gli scheletri erano spesso ridotti ad uno spessore di 5-6 cm: ciò rese impossibile il recupero totale dello scheletro (di 7 individui si sono raccolti solo frammenti del cranio).

Cleto Corrain e Gilberta Malgeri traggono da questi reperti le seguenti conclusioni (29):

«Di caratteristico la serie dei 13 individui sembra avere un’evidente contrazione del volume facciale rispetto al resto del cranio. Nella faccia, che è lunga e stretta in senso relativo, non mancano altri indizi di affinamento: orbite ben proporzionate nelle loro dimensioni; mesoconche; naso stretto in senso assoluto, ma non molto alto; mandibola gracile nel complesso, ma ben disegnata e con un forte mento. Non c’è caratteristica importante la quale non designi abbastanza chiaramente il tipo convenzionale mediterraneo: dolicefalia, ort-ipsicefalia, mesoleptenia, mesoconchia. La statura è medio-bassa: 162,9 cm, da 9 ossa maschili; 152,0 da 5 femminili … Si tratta di materiale osteologico, importante anche se non sicuramente neolitico. Infatti la suppellettile funeraria comprendeva vasi a bocca quadrata … ma è presente il vaso campaniforme»,

La presenza del vaso campaniforme nella necropoli venne negata da Francesco Zorzi nel 1960; ma confermata da Giovanni Solinas nella sua Storia di Verona del 1981.

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1) Frammento di vaso campaniforme rinvenuto sulla Rocca di Rivoli, disegnato in grandezza naturale; 2) vaso campaniforme (ridotto) proveniente dalla tomba di S. Cristina, Brescia.

 

Paolo Biagi (30) scrive che il materiale in questione è prettamente neolitico. Sennonché il prof. Giuseppe Perin – grande appassionato di preistoria – di passaggio a Verona all’inizio del 1948, si recava a visitare la Terza cava Nuova, dove era situata la necropoli e «proprio sotto i miei occhi», scrive Perin (31) «il piccone del cavatore estrae uno strano oggetto verde: era un’ascia piatta in rame puro».  Essa quindi non venne trovata in una tomba (32). Subito acquistata dal prof. Perin (i cavatori d’argilla non avrebbero dovuto venderla, perché si erano impegnati a vendere il materiale di interesse scientifico solo agli incaricati del nostro Museo di Storia Naturale) per evitare che un oggetto così importante andasse magari perduto, venne tosto da lui regalata al prof. Zorzi. Si noti che a nord del Veronese sono state rinvenute solo due asce: quella citata e un’altra a nord di Avesa, alle Colombare di Negrar, vicino a Montecchio.

L’ascia in questione venne successivamente analizzata accertando che il rame con cui era stata costruita proveniva dalla Spagna.

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L’ascia piatta in rame rinvenuto alle Colombare di Negrar nella capanna n° 1, durante gli scavi compiuti da Giovanni Solinas nel giugno 1953. Disegnata al naturale. E vaso a bocca quadrata della necropoli di  Ca’ Rotta. 

 

Come si può capire da questi scritti, una datazione precisa della necropoli di Ca’ Rotta non è possibile; possiamo però capire dai dati raccolti la presenza sicura dei vasi a bocca quadrata e dell’ascia in rame, anche se non rinvenuta in una tomba, la quale ascia, come è noto, è contemporanea al vaso campaniforme.  Ciò  starebbe a confermare che la necropoli non era solo neolitica, ma potrebbe anche essere stata usata durante l’età del Rame; oggi possiamo dire che la cosa è possibilissima, poiché secondo studi più recenti (33), la «cultura del vaso campaniforme» ha un periodo di tempo «molto breve», solo circa 400 anni e si svolgeva all’incirca tra i 4.150 e i 3.750 anni fa.  È inoltre da notare che durante gli scavi eseguiti nel 1953 da Giovanni Solinas nella capanna n. 1, alle Colombare di Negrar, l’ascia in rame ivi rinvenuta era associata a frammenti di vasi a bocca quadrata e campaniformi.

Con l’ascia in rame si mettè la parola: fine  ai rinvenimenti di manufatti di una certa importanza nelle cave di Ca’ Rotta.

 

Nel mese di marzo del 1949 viene pubblicato lo studio del prof. Zorzi sul Campignano (34), dove egli cita tutta una serie di località a nord di Avesa, nelle quali si rinvengono questi tipici manufatti. Giovanni Solinas faceva notare all’amico Zorzi, che parecchie località attorno ad Avesa interessate a questo argomento, e che lui aveva individuato nel 1936, non erano state citate nel suo studio, sebbene i manufatti campignani fossero stati depositati al Museo (forse erano andati perduti durante il conflitto bellico). Zorzi e Solinas decisero così di ritornare sulle colline di Avesa nelle località non citate dallo Zorzi, con il proposito di arricchire la conoscenza del Campignano veronese.

Nello stesso periodo (1948-49) un altro studioso di   preistoria veronese, Umberto Grancelli(35),  nota che alcuni abitati primitivi posti sulle cime collinari di Avesa (M. Arzan, M. Croson e Castejon o Castagnon di Marzana)  potevano essere considerati dei castellieri. Della stessa opinione erano anche Zorzi e Solinas (36).

L’anno successivo, il 1950, Giovanni Solinas scrive un  appunto sul suo diario: «Domenica 15 Aprile 1950 .. Ad Avesa, ore 10 con Anna e Alberto. Visita al Dosso  dei Giacinti  (successivamente si conoscerà il nome locale: il dosso de la Busona, per la dolina carsica che si trova su di esso, n.d.r.),  Alberto scopre la grotta al Dosso (nelle sengele de la Busona, che prenderà poi il nome di Riparo Mezzena n.d.r.): poche selci ma importanti.

Ancora selci al Roccoletto, alla Colombara Barbesi, al Dosso della Lepre (il tenis n.d.r.); molte al Roccolo AltoQuota 354, moltissime selci, il più bel castelliere della provincia.  Ore 16 ritorno ad Avesa.

Mercoledì 18 Aprile 1950 con Zorzi a q. 354 detta, sul luogo, Costraga (nome gallico?) … Nel pomeriggio   ho riordinato il gabinetto di paletnologia»,

In quello   stesso anno Giuseppe Perin compiva alcuni saggi di scavo nei ripari sottoroccia della «Busona» che prenderanno i nomi «del Presepio», «Zampieri» e «Mezzenna», e consegnava il materiale paletnologico raccolto  al prof. Zorzi.

Solo dopo sette anni queste tre piccole cavità, poste sul versante sinistro del vaio Galina di Avesa, verranno prese in considerazione, quando nell’aprile del 1957 lo studente Franco Mezzena porterà nuovo materiale al prof. Zorzi. Il quale darà subito inizio a scavi regolari che porteranno ai ben noti risultati (37).

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L’appunto di Giovanni Solinas tratto dal suo diario, dove annota tutte le località da lui esplorate assieme ai figli Anna e Alberto il 15 aprile 1950. 

 

Nell’aprile 1951 Giovanni Solinas rinveniva l’importantissimo villaggio preistorico delle Colombare di Negrar.

Nel giugno del 1955 Giovanni Solinas scopriva a sudest della conca di Montecchio, sul Monte Rocolo del Maso a quota 556 circa, un complesso archeologico del massimo interesse, che è purtroppo ancora oggi misconosciuto dagli «addetti ai lavori», ma è invece preso di mira dall’incoscienza degli scavatori abusivi (38).

Il paletnologo Arturo Palma di Cesnola, nell’autunno del 1958 e del 1959, compiva scavi regolari nel riparo Zampieri trovandovi del materiale litico e faunistico, che tuttavia appariva più scarso rispetto a quello rinvenuto nel vicino riparo Mezzena.

A conclusione di questa prima parte del nostro studio, si deve sottolineare la grande importanza preistorica che aveva il giacimento di Villa Ca’ Rotta, sita all’incontro delle due valli di Avesa e Quinzano, per lo studio della paleontologia e della paletnologia.  Ma non fu possibile portare a termine nessuno studio, perché nel 1956 iniziava l’interramento del suddetto giacimento lasciando irrisolti molti problemi. Per fortuna Angelo Pasa raccolse dei campioni terrosi per ogni strato delle cave, i quali oggi sono oggetto di revisione e studio da parte dei geologi. Queste campionature consentiranno uno studio più aggiornato della sedimentologia delle cave, risolvendo uno dei tanti problemi legati ad esse (39).

Grave iattura è stata la distruzione, ad opera di vandali, dei due ripari della val Galina Mezzena e Zampieri. Oltre 7 mila studiosi di tutto il mondo avrebbero dovuto recarsi ad Avesa nel 1962 per visitare gli insediamenti neandertaliani Mezzena e Zampieri, ma l’incoscienza di tre giovinastri, purtroppo rimasti impuniti, impedì che Avesa divenisse giustamente famosa per la presenza sul suo territorio di un «testimonio» stratigrafico che costituiva uno dei più importanti documenti della preistoria.

Dieci anni dopo, 1972, si constatò la necessità di un riescavo del riparo Mezzena per chiarire alcune incertezze stratigrafiche. Ma solo nel 1977 si iniziò lo scavo  del deposito lasciato intatto nel 1957. Di questo erano rimasti solo 70 cm di spessore corrispondenti allo strato III: il resto venne distrutto da venti anni di scavi abusivi.

Anche nella bassa valle avesana, che arriva fino all’Adige, la recente e intensa urbanizzazione ha impedito il recupero di reperti archeologici. Nel 1976, presso la scuola media «Cesare Battisti», venne alla luce durante uno scasso edile, uno strato archeologico contenente manufatti neolitici simili a quelli di Ca’ Rotta (40). Una revisione del materiale siliceo, rinvenuto nelle cave di Ca’ Rotta, venne pubblicato dal prof. Carlo Peretto nel 1984.

Ad Avesa e nelle zone confinanti, esisteva il più completo patrimonio preistorico tanto che Avesa, almeno fino al 1959, poteva essere considerata, come è stato scritto, la «capitale» della preistoria italiana. Purtroppo, oggi, visitare le numerose località preistoriche per un più approfondito esame dei reperti, è assai arduo, a motivo delle recinzioni metalliche delle proprietà, installate di recente. D’altra parte le zone ancora libere sono preda degli abusivi, che con la loro attività distruggono le testimonianze degli insedia menti umani.

 

L’INSEDIAMENTO UMANO E L’AMBIENTE’ FISICO DURANTE LA PREISTORIA  NELLA VALLE DI AVESA

 

Le attuali conoscenze preistoriche collocano la nascita dell’uomo in Africa alla fine del Terziario, e precisamente nel Pliocene (il periodo geologico che va dai 7 milioni ad 1 milione e mezzo circa di anni fa).  In Africa, forse circa 6 milioni di anni da oggi, apparvero i più antichi ominidi (Australopithecus) anatomicamente simili al genere Homo, con una capacità cranica di 390-560 cc., i quali vissero fino ai 3-1 milioni di anni fa.

Attraverso questi antichi ominidi, la continua selezione naturale permise lo sviluppo di esseri con capacità intellettuali sempre più elevate. Si pervenne così all’uomo chiamato Homo habilis dotato di ampio cervello (520-760 cc.), in grado di fabbricare e usare strumenti ricavati da ossa, legni e ciottoli che trovava facilmente lungo le rive dei fiumi e dei laghi, dove generalmente viveva. L’habilis, con operazioni di scheggiatura, rendeva il ciottolo adatto al potenziamento di alcune operazioni manuali come tagliare, spellare, appuntire bastoni: vera e propria arma degli uomini di quel periodo. Tale strumentò si chiama choppers (ciottolo utensile). L’uomo habilis viveva in piccoli gruppi, forse formati da  15-20 individui, si fermava lungo le rive dei fiumi o dei ‘laghi in campi base per una stagione di raccolta o caccia.

La vita di questi uomini si calcola non superasse i 20 anni; essi vissero all’incirca tra i 2,5 – 1,5 milioni di anni fa nelle zone equatoriali e tropicali.

Durante il Pliocene, nella nostra penisola emergono dal mare, più caldo dell’attuale, solo l’arco alpino e una parte della dorsale appenninica, mentre le nostre colline sono lambite dal mare che ricopre ancora la pianura padana. Tutte queste terre sono coperte da una fitta foresta tropicale.

Verso la fine del Pliocene (2,5-2 milioni di anni fa), il clima terrestre si evolve lentamente in senso temperato, e il livello marino si abbassa notevolmente. Successivamente il clima si fa sempre più umido e fresco: è il preludio alle imminenti glaciazioni, che determineranno la fine del Terziario e l’inizio del Quaternario (Pleistocene ).

La ricostruzione geografica ideale dell’Italia all’inizio del Quaternario, compreso tra i 2 e 1,5 milioni di anni fa, si può così tracciare: il mare ricopre ancora in parte la pianura padana nonché varie zone dei litorali adriatico e tirrenico e vaste regioni delle Puglie, della Calabria e della Sicilia. Sulle terre emerse, in particolar  modo in Lessina, il paesaggio rimane ancora in parte forestale ma si fa più aperto con ampi spazi erbosi, dove pascolano elefanti, rinoceronti, cavalli, cervidi, bovidi, ecc., insidiati da leoni, tigri con denti a sciabola (Machairodus) e iene; nei fiumi nuotano ippopotami e nella foresta vive anche una scimmia (Macaca fiorentina).

All’inizio del Quaternario, in Africa appare una nuova specie umana molto simile alla nostra, chiamata Homo erectus. Questo uomo è alto metri 1,40-1,60, più robusto del precedente; possiede una capacità cranica media superiore a 1.000 cc., e a lui si devono meravigliose conquiste umane come l’uso del fuoco, le tradizioni culturali e religiose, l’utilizzazione delle sostanze coloranti ecc.

Sempre in questo periodo, un nuovo fenomeno geologico e climatico va lentamente formandosi: sono le glaciazioni, che causano un ulteriore abbassamento dei livelli marini, perché bloccano lo scioglimento delle nevi e dei ghiacci. Tali fenomeni danno la possibilità all’uomo erectus di attraversare il continente africano raggiungendo le zone temperate e poi l’Europa. L’Homo erectus sembra che raggiunga le regioni meridionali dell’Europa (Spagna e Francia) verso il milione e mezzo di anni fa. Le sue tracce le troviamo nel giacimento all’aperto di Chilhac vicino a Brioude in Alvernia (Francia), dove sono stati raccolti però solo 5 manufatti.

I giacimenti più antichi vicini all’Italia li troviamo a Mentone (Francia) nella grotta del Vallonnet, datati fra i 950.000 e i 900.000 anni fa; segue poi la grotta di Sandalja nei pressi di Pola, dove si sono  rinvenuti solo due ciottoli lavorati dall’uomo, in un deposito che è stato datato a circa un milione di anni fa.

Attraverso lo studio di queste due grotte a noi geograficamente «vicine», si può apprendere che attorno al milione di anni fa, avviene una variazione climatica, una prima vera espansione glaciale (Günz). Si instaura un nuovo ambiente poco arboreo, steppico e arido; di conseguenza si cambiano anche le faune precedenti e si rinnovano con la presenza di elefanti, e compaiono i megàceri (cervi grandi come cavalli), bisonti, alci, cavalli, cervi, lupi, cinghiali, ippopotami, rinoceronti, leoni, tigri, leopardi, orsi, iene, scimmie ecc. Finalmente in Italia appare l’uomo attorno a 850.000 anni or sono; la sua presenza viene scoperta a Ca’ Belvedere di Monte Poggiolo, nei pressi di Forlì. L’uomo aveva il suo accampamento più in alto sulla collina e si recava in questo luogo – allora era il delta padano – per scegliere i ciottoli migliori e per ricavarne, scheggiandoli, degli utensili.

Segue un nuovo cambiamento climatico temperato, fresco e molto umido; ritorna un ambiente più alberato, la vegetazione è tipicamente lagunare e costiera, formata in prevalenza da conifere, tra cui un pino (pino degli ombrelli) che oggi cresce spontaneo soltanto nell’isola giapponese di Hondo; conseguentemente si instaurano nuovi tipi di  associazioni faunistiche, miste a quelle di ambienti aperti e forestali; l’acqua comincia a ritirarsi lasciando qua e là lagune e piccoli golfi, il  livello marino è superiore di 200 m rispetto al livello attuale (oggi Avesa centro è a m 97, e il Monte Croceta a m 281 s.l.m.); il tavolato lessineo era tutt’uno con il Monte Baldo, doveva essere ancora molto più basso e pianeggiante dell’attuale e degradava leggermente.

Sul tavolato lessineo si ergevano ad arco delle catene montuose; esso era solcato da piccoli fiumi che scendevano impetuosi dalle montagne con il loro letto scavato sempre più profondamente lungo le faglie, che si erano aperte a ventaglio da nord verso sud durante il sollevamento del piastrone lessineo;  si venivano così creando le nostre valli, i fiumi alimentavano anche piccoli laghetti, oggi riconoscibili ad altezze variabili dai 1.000 ai 250 metri  s.l.m.;  i fiumi giunti al mare creavano un delta con vasti cordoni sabbiosi.

In quest’epoca, gli strumenti di base usati da questi gruppi umani: choppers,  grattato i e schegge, erano costruiti con il quarzo e la quarzite.  Ma la migliore materia prima è la selce, e l’uomo ben lo sapeva, per cui era ricercatissima.

A questo punto, seguendo un ragionamento logico, dobbiamo presumere che se l’uomo erectus esisteva a Nizza, a Pola e a Forlì, senz’altro doveva vivere anche sulle nostre colline, perché oltre ad avere qui l’ambiente ideale per la sua vita, egli aveva anche, a portata di mano, gli strati di selce che i fiumi mettevano in vista durante il lento lavorio di scavo delle valli. Le sue tracce sono state probabilmente distrutte o trasportate a valle dal dilavamento che hanno subito le nostre colline, e sepolte nelle valli.  Forse un giorno potremo rintracciare il passaggio di quest’uomo in epoche così remote: nelle colline di Avesa ci sono delle zone – doline, conche, avvallamenti ecc. – dove l’acqua piovana ha accumulato durante i millenni, tutto quello che vi era attorno.

Il prof. Carlo Peretto rafforza la nostra convinzione quando afferma in  Il Paleolitico inferiore (41) «Le più antiche industrie del Veneto presentano alcune somiglianze anche con quelle raccolte in località Ciola di Monte Poggiolo», Queste industrie sono datate, in cronologia convenzionale, al periodo medio-finale della glaciazione mindeliana, tra i 500 e i 370 mila anni da oggi.

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Manufatti silicei di tecnica clactoniana provenienti dagli strati più profondi della Cava Vecchia di Ca’ Rotta, perciò i più antichi: 1) scheggia; 2), 3), 5) denticolati; 4) raschiatoio. La scheggia e il denticolato n°  2 sono simili a quelli raccolti sul Monte Poggiolo di Forlì.  Disegnati al naturale. (Da Leonardi P. op. cit. 1942).

 

Verso i 700 mila anni fa, inizia la glaciazione mindeliana.  Da questo momento, il succedersi degli avvenimenti climatici si fa più frequente.  La nuova glaciazione del Mindel comporta un abbassamento del livello marino, causato dal formarsi di grandi masse glaciali.

 

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Strumenti silicei raccolti nel Riparo Mezzena: 1-2, punte di tecnica levallois; 3- 4, lame di tecnica levallois;  5-6, schegge di tecnica levallois; 7, coltello a dorso naturale;  8- 9-10-11, punte musteriane; 12- 13-14, punte musteriane allungate; 15-16, punte denticolate, 17, limaces;  18-19-20, denticolati; 21-22, troncature; 23-24-25, becchi (punteruoli); 26-27, bulini.  Disegno di A. Almerigogna e B. Santochi, a 2/3 della grandezza naturale.

 

La pianura padana per la prima volta emerge dal mare e su di essa si formano vaste foreste a pini, abeti, betulle, cedri ecc., ciò permetterà all’uomo di muoversi più liberamente in tutta la valle padana. La fascia pedemontana si presenta come una prateria umida e fresca; su di essa vivono elefanti, leoni, leopardi, machairodus, lupi, iene, orsi, megàceri, cervi, caprioli, camosci, stambecchi assieme a piccoli roditori steppici. Un imponente ghiacciaio scende dove è ora il lago di Garda e forma un grande arco morenico. Sotto il ghiacciaio nasce anche l’Adige, che trasporta nella pianura padana le ghiaie orientali del lago e quelle trasportate dai suoi affluenti, che scendono dalla Lessinia.  Queste ghiaie contengono anche noduli silicei, ma sono spesso fratturati o di piccole dimensioni, perciò non adatti a farne strumenti come le amigdale. Molto probabilmente, la ricerca di grandi ciottoli silicei, verso la metà della glaciazione mindeliana (circa 500 mila anni fa) spinge gruppi di uomini erectus a risalire il corso dell’Adige alla ricerca degli affioramenti di selce messi in luce dal lavorio delle acque, lungo le grandi incisioni vallive che vennero poi, in parte, colmate dalle ghiaie alluvionali trasportate dalle glaciazioni successive.

 

Sicuramente verso la fine della glaciazione del Mindel e l’inizio dell’interglaciale Mindel-Riss (350.000 – 300.000 anni fa), l’homo erectus raggiunge l’imbocco della valle di Avesa, seguendo il corso del Lorì.  Il paesaggio attorno ad Avesa si presenta a quest’uomo considerevolmente diverso dall’attuale: la valle è molto più bassa, la pianura è di carattere steppico con ampie praterie, l’area è ricca di quella fauna sopraindicata e il clima è arido con rare ma violenti precipitazioni, che causano il ritiro del ghiaccio, dando cosi inizio all’interglaciale Mindel-Riss.

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Profili geologici della bassa valle di Avesa (da: De Zanche V – Sorbini L. – Spagna V.,  “Geologia del territorio del Comune di Verona”. «Memorie del Mus. Civ. di St. Nat. di Verona», IIa serie, N. 1, 1977;  

 

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Sorbini L. – Accorsi C.A. – Bandini Mazzanti M. – Forlani L. – Gandini F. – Meneghel M. – Rigoni A. – Sommaruga M.  “Geologia e geomorfologia di una porzione della pianura a sud-est di Verona.” «Memorie del Mus. Civ. di St. Nat. di Verona», IIa serie, N. 2, 1984).

 

Il fondo del pozzo comunale in via Cavalcaselle – all’ imbocco della valle di Avesa – tocca la roccia a m 97,50 (forse si è in presenza qui  un paleoalveo del Lorì).  Un sondaggio, eseguito nell’ospedale di Borgo Trento (Maternità), ha incontrato la roccia a soli 26 metri di profondità: ciò dimostra con tutta probabilità,  che la dorsale collinare si prolungava al di sotto delle attuali alluvioni della pianura. L’uomo sale la dorsale del Monte Ongarine, trova una piccola depressione carsica di forma allungata, chiamata, dai cavatori di argilla «Buca fonda» (si trova oggi sepolta sotto 10 metri di terra, dove esisteva la cava Vecchia o occidentale), la sceglie come sua comoda dimora perché si adatta benissimo ad un accampamento riparato dai venti freddi.

Quanti uomini vivevano in questo villaggio? Secondo una statistica, in tutta la provincia veronese vivevano in quel periodo (Paleolitico medio e inferiore) circa 80 individui. Se contiamo tutte le generazioni apparse nei 315 mila anni trascorsi fino ad allora, possiamo assommare la popolazione «veronese» a 1milione e mezzo di persone.

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Reperti silicei di tecnica levallois: 1) frammento di scheggia; 2) raschiatoio latero-traversale; 3) punta; 4) lama; 5) scheggia.  Le selci vennero raccolte nella Cava Vecchia: la n. 1 nello strato n. 5 e le altre nella «Buca Fonda». Dimensioni. 1:1. (Piero Leonardi op. cit.1942).             .

 

In quel periodo, l’uomo, essendo nomade,  cacciatore e raccoglitore trovava nella valle di Avesa un posto ideale per la sua vita: abbondanza di acque e facilità di caccia di elefanti, bisonti, megàceri, orsi, camosci, stambecchi; ma la cosa più importante erano le miniere di selce che si trovavano nelle immediate vicinanze.

 

Per migliaia di anni l’homo erectus visse, oltre a Ca’ Rotta, anche su tutta la Lessinia, e in pianura. Si riscontrano infatti le sue testimonianze nei seguenti luoghi (tra la valle di Negrar e la Valpantena):

alla 2a Torricella, a

Fontana di Sommavalle,

Costraga-M. Solan,

Piasentin,

M. del Rocolo,

Rocoleto,

Rocolo Ferroni,

Rocolo Ederle,

Paroloto,

bosco delle Colombare,

Busona,

Caselle,

quota 356,

la Calzerega,

Montericco,

Ca’ Roncati,

M. Cossa,

Montecchio,

M. Tondo,

M. Triarcole,

M. Faldè,

La Tenda,

Volpare,

Volparette,

Colle degli Echini (q. 379),

M. Pigno,

Tramanal,

Coghetta,

Marognole.

 

E da notare una cosa importante: tutte queste località hanno restituito strumenti silicei molto omogenei tra di loro, ma «diversi» da quelli delle altre località. Ciò fa pensare a specifiche tribù umane, che abbiano frequentato per migliaia di anni questi luoghi.

 

Mentre scorreva la vita degli uomini accaddero, nei millenni, enormi cambiamenti geologici e climatici. L’interglaciale Mindel-Riss, verso i 300 mila anni fa, porta un clima caldo umido di tipo sub-tropicale con periodi più aridi; il nostro ambiente si presenta di tipo mediterraneo con foreste e ampie radure, dove vivono anche grossi mammiferi, e dove ritorna la bertuccia Macaca sylvana; geologicamente si approfondiscono le valli nei monti Lessini e con i detriti montani si innalza la pianura.

Alla fine dell’interglaciale Mindel-Riss (circa 250 mila anni fa), il clima si sposta in termini oceanici più freschi, e nuovi ghiacciai cominciano a scendere lungo le valli: ha inizio così la glaciazione rissiana. Questo fenomeno glaciale deposita detriti ghiaiosi nelle basse valli a sud di Avesa (in alcuni punti le ghiaie rissiane si trovano sepolte a circa 150 metri sotto l’attuale piano di  campagna).

Secondo Angelo Pasa, sugli alti Lessini e sul M. Baldo si formano piccoli ghiacciai, e forse l’Adige rompe la Chiusa di Ceraino.  Successivamente il clima si fa più temperato, e si forma una prateria umida, poi torna arido dando inizio a un periodo steppico. In parte rivivono gli animali della precedente glaciazione mindeliana e l’uomo si spinge a cacciarli fino al limite dei ghiacci (si inoltra fino al Passo delle Fittanze sopra la Sega di Ala). In questo periodo dell’interglaciale Mindel-Riss, l’uomo si specializza ulteriormente nella lavorazione della selce: scheggia il nucleo siliceo in maniera da ottenere manufatti della forma da lui predisposta e non più casuale. Con la fine della glaciazione rissiana si chiude il lunghissimo periodo preistorico del Paleolitico inferiore (120 mila anni fa); l’Homo Erectus si estingue e appare l’Homo Sapiens Neandertalensis. I Neandertaliani danno avvio ad una nuova civiltà chiamata Paleolitico medio o Musteriano. Essi erano abilissimi nel fabbricare strumenti, furono i primi a dare sepoltura ai propri morti e a praticare riti magici legati al mondo della caccia.

Nell’interglaciale Riss – Wiirm, nella bassa pianura, si riscontra un clima subtropicale umido con abbondanti precipitazioni ed inverni miti, ma sono state riscontrate anche fasi climatiche più aride. A Montorio è stato possibile riconoscere un ambiente forestale-aperto con latifoglie e radure a steppa carsica di tipo mediterraneo: tale ambiente è riscontrato fino alle quote di 1.100 – 1.300 m.

 

Il più antico resto fossile umano del Veneto è l’occipitale rinvenuto a Ca’ Rotta, attribuito da Raffaello Battaglia a questo interglaciale. Esso è di morfologia moderna, e ciò confermerebbe che assieme ai Neandertaliani vi erano anche uomini molto simili agli attuali. Se dei ripari sottoroccia  Mezzena e Zampieri (nelle sengele della Busana) si conosce tutto su quello che ci hanno lasciato i Neandertaliani (42), poco o nulla si sa invece delle altre località (in superficie) importantissime, che gravitano attorno ad Avesa.  Oggi possiamo dire che gli studiosi non tengono in considerazione le cave di Ca’ Rotta forse perché i dati scientifici non sono sufficienti a trarre delle conclusioni precise su questo periodo della storia umana.

Dagli scritti di Pasa e Zorzi apprendiamo una interessante nota, che merita di essere riportata: «Una sera del marzo 1941 sul fondo della 2a cava Nuova notò sulla roccia, poco lontano dal punto in cui qualche giorno prima venne trovata una selce musteriana, alcune pietre disposte ad U con i lati esterni di circa un metro e mezzo … questo piccolo recinto, aperto da un lato, a monte, era costruito da nove pezzi di calcare eocenico accostati, arrotondati all’esterno e alti una quarantina di centimetri. Nel mezzo giacevano a mo’ di pavimento molti frammenti dello stesso calcare. La mancanza di carboni nel mezzo o di qualsiasi altra traccia di fuoco, nonché di resti fossili lì intorno, escluderebbe, standosi alle prime incomplete osservazioni, la suggestiva funzione di focolaio, ma il fatto che le pietre erano movibili e accostate con ordine non può lasciar dubbio che si tratti di lavoro intenzionale» (43).

Il Prof. Zorzi aveva ragione nell’attribuire grande importanza a quel recinto, ma, come già sappiamo, egli dovette interrompere gli scavi perché venne diffidato dalla Soprintendenza di Padova.

Ma cosa era quel recinto a forma di U? Forse la base di una capanna, o una sepoltura. Non lo sapremo mai perché gli scavi furono abbandonati e poi richiusi.

Circa 80 mila anni fa, inizia l’ultima glaciazione, la würmiana. Essa è la meglio conosciuta per la possibilità di avere oggi datazioni assolute con il metodo del C14.

 

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Sezione della parte centrale del deposito musteriano nel riparo Mezzena disegnata da Angelo Pasa.   Legenda: 1) sedimenti siltosi;  2) sedimenti siltosi concrezionati;  3) focolari;  4) terreni argillosi bruni. (Da Bartolomei G. – Cattani L. – Cremaschi M. – Pasa A. – Peretto C. – Sartorelli A. Il riparo Mezzena. «Memorie del Mus. Civ. di St. Nat. di Verona», IIa serie, N. 2., 1980).

 

L’inizio del glaciale Würm comporta un clima continentale a nord delle Alpi, mentre da noi assume un carattere più mite, con inverni rigidi e lunghi, ed estati temperate calde, con scarse piogge. L’ambiente naturalistico nella nostra zona è così formato: nella pianura, foreste composte  da piante di tipo sia mediterraneo che continentale; sulla collina piccoli boschi e praterie; oltre i 650 m s.l.m. la steppa montana.  L’uomo di Neanderthal caccia, attorno ad Avesa, una fauna molto varia, da quella di tipo forestale a quella tipica di montagna: indice questo di un abbassamento dei limiti glaciali. Essa è composta da bisonti, elefanti, rinoceronti, iene, leoni, cinghiali, cavalli, cervi, caprioli, gatti, lupi, volpi, orsi, marmotte, alci, camosci, stambecchi ecc.  Nelle località all’aperto frequentate da quest’uomo, oggi rinveniamo sovente grossi noduli silicei in parte scheggiati, provenienti dalla media e alta Lessinia. Per questo motivo possiamo intuire che, mentre l’uomo di Neanderthal cacciava, si dedicava anche alla raccolta di tali noduli per lavorarli poi vicino a «casa».

Intorno ai 60 mila anni fa il nostro uomo viveva in un ambiente climatico continentale umido ed abbastanza temperato. Questo cacciatore-raccoglitore, nomade, attraverso praterie e boschi formati da ontani, betulle, carpini e noci cacciava megaceri, cervi, caprioli, gatti selvatici, iene, bovidi, cinghiali, volpi, lupi, orsi bruni e orsi delle caverne (loro principale sostentamento). Probabilmente durante una di queste battute di caccia, l’uomo di Neanderthal scopriva i due ripari nelle sengele de la Busona – quelli che poi prenderanno il nome di Mezzena e Zampieri – e decideva di frequentarli periodicamente.

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Strumenti silicei raccolti nel Riparo Mezzena: 1-2-3, raschiatoi latera-trasversali (punte déjetées); 4-5-6-7, raschiatoi; 8- 9-10, grattatoi;  11- 12, nuclei levallois.  Disegno di A. Almerigogna e B. Santochi, a 2/3 della grandezza naturale.

 

All’incirca attorno ai 55 mila anni da oggi iniziava un nuovo periodo climatico che durerà circa 10 mila  anni. In principio il clima era simile a quello dell’inizio della glaciazione würmiana, che causerà una prima  grande avanzata dei ghiacci.

Il grandissimo ghiacciaio che scendeva dal Trentino, era frenato a sud dagli alti Lessini, che non gli permettevano la discesa verso la sottostante pianura padana.

Analizzando il deposito terroso nei ripari Mezzena e Zampieri, troviamo i resti dei pasti dell’uomo di quel tempo e i pollini trasportati con la terra dal vento.

L’uomo d’oggi è in grado di ricostruire l’ambiente in cui viveva l’uomo attorno ai 55 mila anni fa: la fauna era simile alla precedente, ma con la presenza dello stambecco, del camoscio, dell’alce e della marmotta, la iena era scomparsa, mentre esisteva il leone delle caverne (simile all’attuale tigre siberiana), che insidiava l’uomo; nella pianura vivevano il mammout, il rinoceronte lanuto ed il bisonte.  Ad Avesa vi era una prateria composta da Graminacee, e nelle zone umide e acquitrinose formate in parte dal Lorì, vi crescevano le Ciperacee; radi erano i boschi composti da pini silvestri, ontani e betulle; poco sopra la zona di Montecchio, cresceva già la steppa montana. Tutti questi dati ecologici ci indicano un primo abbassamento dei limiti nivali.

Successivamente attorno ai 50 mila anni da oggi il clima diventava più rigido e freddo, come quello continentale asiatico, con inverni rigidi, aridi e lunghi, ed estati temperate calde con scarsa piovosità. A volte però, era alternato anche da periodi più umidi. Tutta la pianura aveva un aspetto simile all’attuale Siberia, ma ad Avesa, l’ambiente naturalistico era più ameno del circondario; ciò possiamo dedurre dal fatto che l’uomo trovava ancora quella selvaggina che abitualmente cacciava. Esisteva solo una variante: l’abbondanza della marmotta fra i resti dei pasti dell’uomo di Neanderthal.  Il numeroso popolamento della marmotta ci fa pensare che la zona, dove l’uomo cacciava, era  prevalentemente prativa e di tipo montano.  Nel suo insieme possiamo dire che la flora in questo contesto non era molto variata rispetto alla precedente: dalle alte colline innevate per molti mesi all’anno, scendevano copiosi ruscelli. Vicino alle nevi vi era la prateria dove regnavano le marmotte; accanto ai ripari Zampieri e Mezzena cresceva una boscaglia arbustiva molto aperta, formata da diverse specie di ontani; più in basso nelle valli vivevano faggi, pini silvestri, mughi, ginepri e betulle; lungo le sponde dei ruscelli e del Lorì crescevano abbondanti salici nani.

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Planimetria dello strato del riparo Mezzena rilevato da Angelo Pasa.

 

I cacciatori-raccoglitori nomadi neandertaliani, abbandonarono definitivamente i ripari Mezzena e Zampieri verso i 43 mila anni fa.  Non si comprende il motivo di questo abbandono, anche perché i due ripari sono i più a  sud di tutti gli abitati, che oggi conosciamo, i più «caldi» in un periodo glaciale come questo.  Qui la possibilità di vita dell’uomo era ottima. Non possiamo sapere se questi ultimi rappresentanti della razza Neanderthalensis si siano trasferiti in basso nella pianura di Avesa, dove la caccia ai grandi mammiferi era più abbondante, perché sono troppo pochi gli strumenti silicei di questo periodo, raccolti nelle cave di Cà Rotta, per poter fare un confronto tipologico con quelli raccolti nel riparo Tagliente o delle Tesare presso Stallavena, la cui stratigrafia può essere presa come modello di riferimento per le industrie musteriane della Valle Padana.

Durante «l’assenza» dell’uomo nella valle di Avesa, il nostro ambiente naturalistico subisce enormi cambiamenti. Il clima verso i 40 mila anni da oggi, tornava a farsi più temperato; diminuiva la steppa e avanzava il bosco con querce, tigli, aceri, carpini ecc; attorno ai 37 mila anni il bosco aveva la sua massima espansione.  Due mila anni dopo (35 mila anni dal presente) le condizioni climatiche ritornavano più fredde e aride di tipo continentale, nella pianura si estendevano aree a foreste miste di conifere, faggi, betulle, ontani e salici; aumentavano anche le  zone palustri, in collina si estendevano praterie a steppa.

Un miglioramento climatico iniziava verso i 33 mila anni, e, a circa 28 mila anni dal presente, raggiungeva il massimo periodo caldo e piuttosto umido, che favoriva lo sviluppo di foreste a querce, carpini, tigli, aceri, olmi, frassini, noci ecc.  Si sviluppavano anche arbusti come: sambuco, corniolo, nocciolo, bosso ecc.; terminava così il primo Pleniglaciale.

Verso i 27 mila anni fa il clima tornava a farsi arido e freddo e nel nostro ambiente si formavano vere steppe.

Riguardo la zona di Avesa possediamo dei dati precisi circa l’ambiente floristico, che si sviluppava attorno ai 25 mila anni fa (44).  Il livello della valle presso la chiesa di San Martino  era più basso di 20 metri rispetto all’attuale piano di campagna.

Analizzando il campione torboso prelevato sotto terra a meno 20 metri,  presso la detta chiesa, si ha una datazione assoluta collocata a 24.000± 2.000 anni da oggi, e possiamo anche sapere come si presentava il paesaggio in questo momento preistorico: la flora era composta per circa il 25% da pini silvestri, pochi erano i faggi, gli ontani, i castagni; gli arbusti erano rappresentati solo dal ginepro. Il resto 75% del terreno era coperto da abbondanti Graminacee, Asteracee, Plantaginacee, Chenopodiacee, poche erano le igro-idrofite (Cyperaceae più Potamogeton),  inoltre vivevano anche numerose Zigospore di alghe verdi.  In base a questi dati, possiamo immaginare il paesaggio avesano: esso si presentava a praterie con zone umide e zone steppiche, intervallate da boschi a pini silvestri; più in basso vivevano anche faggi e castagni.

Mentre avvenivano questi cambiamenti nella flora e, di conseguenza, anche nella fauna, l’uomo non rimaneva estraneo ai mutamenti. Si estingueva l’Homo sapiens Neanderthalensis  e, all’incirca verso i 35 mila anni fa, apparivano i primi uomini attuali, l’Homo sapiens sapiens. Questo fenomeno naturale si evolveva lentamente, e a dimostrarlo è anche l’occipitale umano di morfologia moderna raccolto nelle cave di Cà Rotta, nonché un frammento di mandibola umana con forte sviluppo del mento, rinvenuto nel riparo Mezzena.

Il clima si faceva via via molto più freddo del precedente, con inverni rigidi e lunghi, mentre le estati erano fresche, distinguendosi perciò dal primo Pleniglaciale.

 

Sempre verso i 27 mila anni fa iniziava il secondo Pleniglaciale, i ghiacciai alpini avanzavano nuovamente, lingue glaciali si dirigevano sempre più verso la pianura padana, e i limiti nivali si abbassavano notevolmente.

Sul monte Baldo e sulla Lessinia si riformavano piccoli ghiacciai locali, dai quali scendevano lungo le valli brevi lingue glaciali.

Il paesaggio avesano prendeva l’aspetto dell’attuale tundra-steppa siberiana ghiacciata per parecchi mesi all’anno, con estese praterie dove dominavano le Graminacee.  Dalle colline innevate scendevano piccoli torrentelli, che giunti al piano, rallentavano la loro corsa, formando stagni e torbiere.  Vicino all’Adige iniziavano a crescere mughi, pini silvestri e salici nani; più in basso nella pianura si trovava una vera e propria steppa, con praterie a graminacee e rari boschi di betulle e faggi; nella pianura padana vi erano anche foreste con querce, castagni e cornioli.  Attorno alle nostre colline vivevano l’orso bruno e l’orso delle caverne, il leone delle caverne e rare iene, assieme alla marmotta, lo stambecco, il camoscio e l’alce;  nella foresta c’era ancora il cervo, mentre nelle, aree libere pascolavano bovidi e il mammout.

Secondo le datazioni eseguite con il radio carbonio, sappiamo che nel periodo di tempo compreso tra i 20 mila e i 19 mila anni fa, i ghiacciai, che per molti millenni avevano ricoperto una buona parte dell’Europa e dell’Asia,  raggiungevano la  loro massima espansione, ma le fronti glaciali, che scendevano dalle Alpi, non superarono mai quelle della precedente glaciazione rissiana. Il livello marino si abbassava enormemente – di circa 120 metri dal livello attuale – di conseguenza emergeva tutto l’alto Adriatico fino oltre Ancona.

 

Un miglioramento climatico si ebbe verso i 18 mila anni fa: incominciavano a fondersi i ghiacciai, il clima si faceva sempre più temperato, la steppa diminuiva e avanzavano le aree boschive. La deglaciazione della regione alpina rinvigoriva i fiumi, immense masse d’acqua trasportavano e depositavano sulla pianura padana grandi quantità di alluvioni.

L’Adige veniva sbarrato dalla dura roccia della Chiusa di Ceraino (nonostante l’incisione prodotta dalla glaciazione precedente) e dall’anfiteatro morenico del Garda. Il fiume formava così un grande e lungo lago nella bassa val Lagarina, fino oltre la conca di Rovereto (45). Alla Chiusa di Ceraino l’acqua del grande lago raggiungeva sicuramente parecchi metri sopra l’attuale letto del fiume; l’Adige irrompeva nella Valpolicella trasportando ghiaie e sabbie, causando il lento ma continuo innalzamento della pianura.

I fiumi, per loro natura, scavano il loro alveo verso il monte, e depositano il materiale trasportato verso la valle; questo meccanismo naturale, portava l’Adige alla sua uscita dalla Valpolicella a seguire la linea delle colline veronesi, erodendo così i primi depositi terrosi e ghiaiosi trasportati dai torrenti nelle valli lessinee, che si affacciano sulla pianura.  L’Adige giungeva impetuoso all’imbocco della valle di Avesa, erodeva i sedimenti vallivi, formati dal Lorì e dai torrenti che scendevano dalle colline, fino alla roccia, posta alla profondità di circa 97 metri dal piano di campagna attuale (pozzo di via Cavalcaselle).  Riempiva successivamente l’erosione con grandi masse ghiaiose, formando un terrazzo alto circa 94 metri, riconoscibile oggi poco a nord delle vie  Ca’ di Cozzi, via Trento, via Mameli.

Le acque del fiume entravano in profondità nella valle di Avesa, e la inondavano sicuramente fino al centro abitato, perché troviamo le sabbie atesine in via Torrente Vecchio, a una profondità di circa 16 metri per uno spessore di 3 metri.  Il massimo innalzamento delle acque dell’Adige nella pianura padana – e di conseguenza l’inondazione di Avesa – probabilmente avvenne verso i 16 mila anni fa, quando il clima temperato raggiungeva il suo apice.

Sembrerebbe a questo punto che la glaciazione würmiana  sia al suo termine ma, poco dopo, il clima si faceva nuovamente rigido, arido e freddo.  Verso i 15 mila anni fa la pianura riprendeva nuovamente l’aspetto di una steppa.  Circa 1.000 anni dopo (14.000 anni fa) terminava il secondo Pleniglaciale.

 

Il tardiglaciale iniziava circa 14 mila anni fa, con un progressivo riscaldamento climatico. Attorno ad Avesa incominciavano a diminuire le aree a steppa e avanzavano quelle a prateria. Secondo una datazione assoluta eseguita mediante il radio carbonio, sappiamo che il clima temperato raggiungeva la sua massima espansione circa 13200 anni fa.

Mentre accadevano questi fenomeni naturali sulla terra, l’uomo preistorico era «assente» dalla zona avesana, ed era invece presente nella provincia di Verona, ma solo fino al periodo culturale chiamato Aurignaziano, compreso fra i 34 mila e i 29 mila anni fa.

Si perde ogni traccia umana nel Gravettiano (29 mila – 20 mila anni fa) e nell’Epigravettiano antico (20 mila – 15 mila anni fa).

 

Nel successivo periodo preistorico l’Epigravettiano evoluto-finale, iniziato circa 15 mila anni fa e terminato all’incirca 10 mila anni dal presente,  i cacciatori-raccoglitori nomadi erano presenti nuovamente nella valle di Avesa, come certamente lo erano nella Lessinia.

Ancora oggi, non conosciamo le cause dell’assenza dell’uomo dalla nostra provincia, per un così lungo periodo di tempo – circa 14 mila anni – o se veramente la sua mancanza c’è stata; probabilmente l’assenza è dovuta a cause naturali.  Il miglioramento climatico iniziato verso i 18 mila anni da oggi, comportava lo spostamento graduale della selvaggina abitudinariamente cacciata per millenni dall’uomo: stambecchi, alci, camosci ecc.  che si spostavano verso nord seguendo il ritiro dei ghiacci.  L’uomo, essendo essenzialmente cacciatore e nomade, naturalmente li seguiva e abbandonava le nostre aree.

Le successive tremende inondazioni causate dallo scioglimento dei ghiacci (17.000-15.500 anni fa),  limitavano il transito dei cacciatori attraverso la pianura padana. Il ritorno del clima freddo bloccava il disgelo delle masse glaciali: di conseguenza rallentava l’attività fluviale, e l’uomo aveva la possibilità di ritornare nella pianura padana. I ghiacci iniziavano nuovamente ad avanzare attorno ai 15 mila anni dal presente, e forse cancellavano le tracce lasciate dai cacciatori, che inseguivano le prede nel Trentino.

Queste sono ipotesi che hanno finora solo pochissime dimostrazioni: nel Veneto, l’uomo, in linea di massima, è presente durante tutto l’Aurignaziano; nel successivo periodo, il Gravettiano, pare che frequenti raramente solo la grotta del Broion nei colli Berici; poi durante l’Epigravettiano antico è presente nel Veneto in sole due vicinissime grotte nei colli Berici.  Gli uomini che abitavano saltuariamente queste due grotte cacciavano abbondanti orsi delle caverne e alci, raramente i lupi, le volpi, gli stambecchi, le marmotte, gli uri, i cervi e i cinghiali; (46) questi animali, indicavano che il clima non era ancora troppo freddo.  Dopo i  13 mila anni fa, il clima si faceva via via sempre più arido e freddo, la steppa riconquistava la nostra zona. In tale periodo, la vita nomade dei cacciatori epigravettiani li portava sicuramente nella valle di Avesa. Questi uomini facevano parte di una tribù composta, mediamente da 20 a 50 persone (secondo una recente stima, alla fine del Paleolitico superiore, la nostra penisola era abitata da circa duecentomila uomini; nella provincia di Verona vivevano circa trecentodieci persone, una ogni 10 Kmq).

Anche se non abbiamo finora trovato nessuna traccia di abitazioni di quel tempo nella valle di Avesa, in base alle conoscenze di cui disponiamo sulle abitudini dell’uomo in questo lontano periodo, possiamo fare  delle ipotesi abbastanza valide.  Seguendo gli spostamenti della selvaggina, questi uomini si costruivano un accampamento stagionale vicino alle rive del Lorì, con la possibilità di rioccuparlo la stagione seguente. Iniziavano col costruire un recinto di pietre o a scavare una fossa nel terreno, generalmente di forma ovale; vi piantavano una solida struttura di pali e la ricoprivano di pelli, sistemavano il pavimento per renderlo comodo e al centro collocavano il focolare. La capanna così costruita poteva ospitare una o più famiglie. Il paesaggio attorno all’accampamento era steppico, conseguenza di un clima arido e freddo in cui prevaleva una vegetazione erbacea di tipo montano con rari pini silvestri, mughi e ginepri. In tale ambiente, quasi simile a un deserto freddo, l’uomo trovava da cacciare lo stambecco, il camoscio, il Bos primigenius e un asino tipico delle steppe l’Equus hydruntinus.

Il clima glaciale perdurava fino a circa 12700 anni fa, poi iniziava nuovamente un progressivo miglioramento climatico, e dopo circa 700 anni (12 mila anni fa), il clima temperato raggiungeva il suo apice.  I ghiacciai nel frattempo si ritiravano ulteriormente, e si innalzavano i livelli marini.

Nella valle di Avesa le generazioni umane vedevano scomparire la steppa, e circa 11500 anni fa il nuovo clima raggiungeva il suo massimo periodo temperato e favoriva il formarsi di una prateria ricca di specie arboree ed erbacee, alternate da cespugli di mughi e ginepri, con boschi a pini silvestri, e nelle zone più temperate crescevano nuovamente le foreste del querceto misto. In questo ambiente l’uomo, nella valle di Avesa, non trovava più da cacciare la fauna glaciale (vi era rimasto solo lo stambecco e limitato nelle aree montane) ma cacciava prevalentemente il cervo, il capriolo e il cinghiale.

La glaciazione würmiana tuttavia non era ancora terminata, perché il clima ritornava via via sempre più freddo e arido; circa 10.500 anni fa nella nostra zona riapparve la steppa.  I ghiacciai si erano ritirati quasi alle quote attuali; a causa dell’aridità del clima l’attività nivale non era sufficiente per farli scendere nuovamente lungo le valli alpine. L’Adige non era più alimentato notevolmente dalle acque che scendevano dalle montagne, e si inaridiva, lasciando libera quasi tutta la sua valle con quella serie di laghi e laghetti che lui stesso aveva formato fra la Chiusa di Ceraino e Bolzano.  Il letto dell’Adige alla Chiusa di Ceraino, era allora ad una quota più elevata dell’attuale, perché poco a nord di essa, nel riparo roccioso del Soman,  posto a circa 17 metri dall’alveo attuale, si sono rinvenuti depositi di sabbie e limi atesini sui quali avevano dimorato gli ultimi uomini del Paleolitico superiore.

 

Circa 11000 anni dal presente, i cacciatori-raccoglitori mesolitici del lontano Medio Oriente (Mesopotamia ed Egitto), facevano i primi tentativi di addomesticamento degli animali: capre, gazzelle, maiali, buoi selvatici ecc.; mentre le donne si occupavano della coltivazione di piccoli orti.

La glaciazione del Würm terminava circa 10.000 anni fa, e iniziava il postglaciale o Olocene (l’epoca attuale),   che si annunciava con un progressivo aumento della temperatura.

I ghiacciai, già notevolmente ridotti, si ritiravano definitivamente e si attestavano ai limiti attuali; il mare si innalzava e il limite di costa era a meno 50-60 metri dall’attuale.  La vegetazione, che era riuscita. a sopravvivere alla glaciazione würrniana, si espandeva e assumeva la sua attuale fisionomia; le foreste, generalmente costituite da pini silvestri, raggiungevano le altitudini attuali. L’aumento della temperatura non veniva però compensato dalla piovosità: si creava così un clima di grande aridità.

Nella nostra provincia, all’inizio del Postglaciale, compreso fra i 10.000 e i 9.000 anni fa,  il clima era di tipo preboreale: ancora temperato arido in pianura, mentre in montagna era arido di tipo steppico.  Nella bassa valle di Avesa il terreno diventava argilloso e sabbioso, e crescevano praterie simili alle attuali savane, a Graminacee e arbusti, assieme a cespugli di noccioli; più a sud prosperavano i boschi di pino silvestre e del querceto misto; sulla collina arida e secca crescevano le Graminacee, tra le quali primeggiava la stipa pennata o stipa delle fate.  Questa pianta oggi cresce nelle zone tropicali aride a steppe e savane, su terreni notevolmente permeabili, poco ospitali alla flora, dove quest’erba  può essere considerata una specie pioniera.  Le faune si impoverivano: dei grandi mammiferi restavano principalmente cervi, caprioli, cinghiali e orsi bruni (l’orso delle caverne si era estinto, forse a causa dell’intensa caccia esercitata dall’uomo),  stambecchi e camosci vivevano ancora in alta montagna.

La fine della glaciazione portava dei mutamenti anche nella vita quotidiana dell’uomo: nasceva anche da noi, seppure in ritardo, la nuova civiltà detta Mesolitico. Durante questa cultura, sembra che anche per il nostro uomo ci fossero state delle difficoltà nel reperire il cibo, perché analizzando i resti dei suoi pasti, lasciatici nelle dimore, si nota un cambiamento abbastanza radicale nella alimentazione: non cacciavano più solo i   grandi mammiferi ma anche i piccoli, inoltre intensificavano l’uccellagione e la pesca; l’attività della raccolta, sia dei molluschi che dei vegetali, aumentava di molto in rapporto alle epoche precedenti.

L’inizio del Postglaciale agiva gradatamente in modo assai negativo sulla flora e la fauna che vivevano sulla nostra collina, e in particolare sulla bassa Lessinia, perché l’aumento della temperatura seguita dalla scarsa piovosità, su un terreno geologicamente carsico, dove la poca pioggia veniva subito assorbita limitando così l’attività idrografica di superficie, rese il nostro ambiente collinare di tipo subdesertico.  Questi fenomeni naturali spiegherebbero, forse, il perché dello spopolamento graduale dell’uomo nella Lessinia: infatti, finora, abbiamo la sua presenza al riparo Tagliente in Valpantena solo all’inizio del Mesolitico. Nella vicina valle dell’Adige il clima era caldo e arido, e il fiume, sia pure scarso d’acqua, si «comportava» come oggi il Nilo nella sua valle: rendeva cioè la Val Lagarina un luogo ricco di fauna e flora, e l’uomo, di conseguenza, vi trovava un luogo adatto al suo insediamento.  Questo lo si deduce dal fatto che nel riparo Soman all’imbocco della Valle Lagarina, troviamo sopra i depositi terrosi del Paleolitico superiore (Epigravettiano evoluto finale), quelli del Mesolitico antico (Sauveterriano) simili a quelli rinvenuti nel già citato riparo Tagliente in Val Pantena.

 

La valle dell’Adige, all’inizio del Preboreale, si presentava ricca di foreste in prevalenza a pino silvestre, dove le tribù dei cacciatori-raccoglitori, provenienti in parte dalla Lessinia, trovavano ancora un ambiente simile a quello precedente, nel quale erano abituati a vivere. Conducevano una vita relativamente stabile in insediamenti permanenti lungo le sponde dei fiumi o dei laghi, dove l’ambiente offriva loro varie risorse alimentari: la pesca, la raccolta di vegetali e la caccia a grandi e piccoli mammiferi e agli uccelli. L’uomo cacciava caprioli, cervi, cinghiali, orsi, lupi, volpi, gatti, scoiattoli, tassi, martore, lontre, castori, tartarughe e uccelli; a volte risaliva le pendici del monte Baldo e dell’alta Lessinia per cacciare stambecchi e camosci, e ne approfittava per rifornirsi di selce.

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Strumenti silicei: 1) lama a dorso; 2) grattatoio.  Attribuiti forse al Paleolitico superiore dal prof. Piero Leonardi, che studiò i materiali silicei raccolti durante gli scavi regolari eseguiti nelle cave di Ca’ Rotta sotto la direzione del prof. Raffaello Battaglia nel 1939. (Da Leonardi P. op. cit. 1942, dimensioni 1:1.  – Incisione pettiniforme sul cortice della selce n° 3, attribuita dal prof. Graziosi [op. cit. 1939] e dal prof. Leonardi al Paleolitico superiore [Epigravettiano finale]).

 

Nella stessa epoca l’uomo che viveva nel Medio Oriente, compiva un passo avanti importante verso una nuova civiltà. La semisedentarietà, l’addomesticamento e l’orticultura portarono in breve tempo alla prima delle grandi «rivoluzioni» della storia dell’umanità, quella neolitica.

Con il Neolitico, l’uomo non dipendeva più del tutto dagli eventi naturali, ma diventava, in parte, produttore di risorse. Ciò portava ad un incremento della popolazione umana, obbligandola a creare nuovi insediamenti e ad occupare nuove aree da coltivare, mentre il pastore si dedicava al nomadismo neolitico. La necessità di grandi zone da coltivare, e il bisogno di ampie praterie per il pascolo delle mandrie diedero origine sicura alle prime guerre (la prima «guerra», narrata nella Bibbia, è quella fra Abele pastore e Caino agricoltore) e anche alle «professioni» degli artigiani, dei commercianti e dei razziatori.

Circa 9 mila anni dal presente, iniziava la fase climatica boreale ed il clima era sempre di tipo caldo arido; in pianura esistevano ancora aree a steppa con scarsa vegetazione. Il mare Adriatico si allargava ulteriormente nella pianura padana, il suo limite di costa era allora 30-40 metri più basso dell’attuale.  L’influenza dell’umidità marina e il clima caldo, facevano avanzare lentamente le praterie e le foreste a latifoglie che sostituivano le steppe e i boschi di conifere.

Nella valle dell’Adige, il bosco a conifere lasciava il posto a quello del querceto misto e a sud della Chiusa di Ceraino esistevano aree non più solo di tipo steppico.

In pieno clima boreale, circa 8 mila anni fa, il mare allagava maggiormente la pianura padana, il limite di costa risaliva, ed era inferiore all’attuale di circa 15-20  metri.  L’umidità aumentava e raggiungeva anche le prime colline, le foreste di caducifoglie si diffusero su tutta la pianura padana, mentre in montagna si creavano le praterie alpine e le foreste a conifere.

La foresta a caducifoglie e la relativa prateria, che sostituivano le atee a steppa, portavano con sè una associazione di fauna e flora più ricca della precedente, e pronta per essere sfruttata dall’uomo mesolitico che viveva nella pianura padana, come veniva sfruttata circa 3 mila anni prima, dalle popolazioni del Medio Oriente.

Nella valle di Avesa, il clima boreale aveva ristabilito l’ambiente ideale per la vita dell’uomo, favorendo il suo ritorno.

 

Fino al 1975 non si avevano notizie della presenza dell’uomo mesolitico nella provincia di Verona, poi si rintracciarono sul Monte Baldo i primi bivacchi alpini dei cacciatori mesolitici castelnoviani,  vissuti da circa 7800-7500 a 6500 anni  dal presente.  Se l’uomo frequentava il Monte Baldo in questo periodo, e il clima aveva ristabilito sulle prime colline che si affacciano sulla pianura, un ambiente adatto alla sua vita, egli doveva aver lasciato le sue tracce anche in Lessinia.  Bastava ripercorrere tutte le località preistoriche dove si rinvengono manufatti di tipologia mesolitica (nelle quali non si trovava l’utensile «guida», il trapezio) e ristudiarle alla luce delle nuove cognizioni per rendercene conto.  Infatti nel 1984 si rinvenivano quei trapezi silicei che servivano ai cacciatori mesolitici per costruire le armature delle frecce (47), e ai primi agricoltori per costruire anche coltelli-sega e falcetti.

Sulle colline di Avesa vi sono località, dove si raccolgono manufatti di tipologia mesolitica e quasi del tutto prive di ceramica (la ceramica indica la fine del Mesoliti co e l’inizio del Neolitico).  Questi villaggi preistorici si trovano principalmente sul dosso Ca’ Vecchia, sul Monte Solan, ai Tre Tempi, sul Monte Spigolo di Montecchio e a Case Antolini.  Solo nel 1986, (48) vicino a una di queste località (mi scuso con i lettori se non cito il nome della località, perché essendo importante questo luogo, non vorrei che ricerche compiute da abusivi, portino alla sua distruzione, come è già avvenuto per altre  stazioni preistoriche attorno ad Avesa), si raccolse un trapezio.  Questo rinvenimento, ci autorizza ad ipotizzare la presenza dell’uomo mesolitico in Avesa.

D’altronde dobbiamo pensare che l’uomo abbia avuto un incremento demografico (secondo una stima approssimativa, la popolazione era aumentata dal Paleolitico superiore al pieno Mesolitico di 10 volte) e che nella nostra provincia vivessero circa 3100 persone, una per ogni Kmq.  e con buone probabilità che esse frequentassero anche la zona attorno ad Avesa. Ci si augura che le prossime ricerche (proprietari del terreno permettendo) possano confermare questa ipotesi. La crescita delle popolazioni e la ricerca di nuove aree da coltivare o da pascolare, costringevano l’uomo alle prime grandi migrazioni. Dal Medio Oriente l’uomo iniziava a migrare sia per via terrestre che marina. In Italia i primi coloni agricoltori giunsero circa 7500 anni fa, e approdarono in Puglia, dove la  zona è ricchissima di selce, utile per la fabbricazione dei nuovi strumenti adatti all’agricoltura: i «tranchets» e i «pics», quegli scalpelli-picconi silicei che, immanicati nel bastone da scavo, formavano le prime zappe, primi veri e propri strumenti dell’agricoltura.

 

Verso la fine del Boreale, circa 7 mila anni dal presente, il mare si innalzava ancora e il suo livello si trovava a meno di 15-20 metri dall’attuale; la foresta era sempre più in espansione; e la nuova civiltà neolitica risaliva lentamente la penisola italiana.

All’inizio del clima atlantico, circa 6500 anni fa, l’ambiente diventava caldo umido; il mare risaliva ulteriormente, e il suo limite di costa saliva a meno 5-8 metri dall’odierno; la foresta a caducifoglie si espandeva sulle colline e si portava a ben 200-300 m al di sopra del livello attuale; la valle di Avesa diventava così un ambiente ideale per la vita dell’uomo.

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Microliti in selce di forma geometrica (Trapezi), riferibili al Mesolitico recente o al primo Neolitico.  Venivano inseriti come armature di arpioni in legno in osso, erano usati anche per ottenere coltelli-sega e falcetti.  Il n° 1  è stato raccolto sulle colline a nord di Avesa, gli altri nella valle di Mezzane.  Sono stati disegnati al naturale da G. Chelidonio, L. Brunetto e A. Solinas.

 

L’avvento del Neolitico nella pianura padana iniziava tra i 6500 e i 6000 anni fa. Non sappiamo ancora se i nostri abitanti mesolitici imparassero le nuove tecnologie agrarie dai portatori della cultura neolitica, oppure se i coloni neolitici fondassero direttamente nuovi villaggi nella nostra provincia.  Io propenderei a pensare che essendo la pianura coperta da una fitta foresta, rendesse difficile la risalita ai nuovi coloni, rallentando, perciò, la loro penetrazione verso nord, mentre i cacciatori-raccoglitori mesolitici locali, seguendo lo spostamento della selvaggina avevano più probabilità di incontrarsi e avviare così fra di loro un’attività di scambi culturali e materiali.  Gli agricoltori  offrivano granaglie e bestiame addomesticato, e insegnavano ai cacciatori-raccoglitori come coltivare e  allevare;  mentre quelli davano in cambio dell’ottima selce lessinica, estremamente necessaria alla vita degli agricoltori (rammentiamo che i primi agricoltori sbarcarono proprio in Puglia dove la selce, che era materiale indispensabile all’agricoltura, è abbondantissima come in Lessinia) perché la selce alluvionale, che si rinviene in  pianura, è di formato ridotto e spesso fratturata, perciò non adatta alla costruzione di efficienti strumenti litici.  Questa ipotesi potrebbe essere forse avvalorata mediante lo studio degli abitati che esistono sull’altopiano lessinico, dove sono presenti manufatti litici dell’antico Neolitico (la Cultura di Fiorano) ma dove è assente totalmente la ceramica, come in alcuni villaggi precedentemente citati. Se i coloni neolitici si fossero inseriti nel veronese, noi avremmo dovuto trovare, ovviamente, nei villaggi in questione, anche la ceramica che invece è assente. Gli abitanti di questi primi villaggi oltre a praticare la caccia coltivavano piccoli orti e allevavano bestiame; ma questi abitati erano situati appositamente vicini alle miniere selcifere per poter sfruttare e commerciare la selce.

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Uomini delle isole Figi con il bastone da scavo corredato da una pietra levigata.  Il bastone da scavo è costruito con due pezzi di legno tenuti assieme da una legatura di vimini. La pietra levigata (nel nostro caso un tranchet, disegnato al naturale), essendo cuneiforme, viene fissata a pressione fra i due legni del bastone, in modo da poter essere sostituiti con facilità.

 

Il commercio di questo materiale può essere confermato dal fatto che la selce lessinica è notevolmente diffusa nella pianura padana, in particolare a sud del Po. Ciò è confermato dal prof. Bernardino Bagolini: «Tali fatti implicano l’esistenza di traffici sistematici e ben organizzati lungo le vie fluviali padane in grado di porre in contatto l’area alpina con quella appenninica e la padana interna con gli ambienti costieri» (49).

In pieno clima atlantico, circa 6 mila anni fa, l’area di Avesa aveva assunto l’aspetto naturalistico simile all’attuale.  Nella pianura a sud dell’Adige vi era un interrotto mosaico boschivo di latifoglie costituito prevalentemente da querce, carpini, ontani e frassini; nelle zone palustri crescevano rigogliosi i giunchi.  L’Adige scorreva pressappoco nell’alveo attuale e aveva lasciato nel ritirarsi dalla valle di Avesa (più bassa di circa un metro e mezzo rispetto al livello attuale), ampie dune di sabbia e limi.  Si formarono così terreni altamente produttivi, sui quali crescevano boschi di olmi, frassini, querce e carpini; il Lorì e le sorgenti formarono nella bassa valle di Avesa ampie zone umide, libere dai boschi; le prime colline risentivano ancora del clima arido e secco, e su di essa crescevano le Graminacee e la stipa pennata, (penei) vera pianta pioniera dei terreni aridi, secchi e poveri, che prepara il substrato alle future praterie. Questa pianta tipica delle attuali savane e steppe tropicali, meridionali e mediterranee, vive tuttora sulle pendici sassose delle colline di Avesa.  La presenza di questa pianta costituisce un fatto molto importante, perché  indica un clima particolarmente mite del periodo invernale.

Sull’altopiano della Lessinia si era ricreato un ambiente biologicamente attivo: querce, olmi, frassini e carpini, crescevano dove oggi esistono pini e faggi, formando così un’ampia foresta di piante termofile.

 

La valle di Avesa aveva assunto un aspetto ideale per la vita dell’uomo neolitico. In un luogo della valle, non ancora ben individuato, circa 6 mila anni fa, sul finire della Cultura di Fiorano, una tribù neolitica aveva fondato, vicino alla riva del Lorì, un villaggio: nasceva la futura Avesa.  L’uomo era ritornato nella nostra area dopo  ben cinquemila anni di assenza.  I resti ceramici e litici neo-eneolitici, si rinvennero sparsi su tutta la vasta zona delle cave di Ca’ Rotta, ma specialmente nei pressi della necropoli, posta ai piedi dello sperone collinare del monte Ongarine e orientata a sud verso l’attuale corso dell’Adige.

Questi uomini avevano scelto come loro sede, una zona elevata rispetto all’alveo dell’Adige, con terreno argilloso e fortemente sabbioso misto a ciottoli o blocchi calcarei e alpini dei depositi würmiani atesini.  Il villaggio era sorto tra il limite del bosco e la riva del Lorì, dove il terreno era più fertile e comodo da coltivare e irrigare. Le capanne erano costruite con una semplice struttura autoportante a pianta generalmente rettangolare, formata da una o più file di robusti pali d’albero probabilmente di ontano o frassino, del diametro medio di circa 10 cm. Questi erano infissi verticalmente nel terreno e intervallati uno dall’altro a sostegno del tetto. Gli interspazi tra un palo e l’altro, che formavano le pareti, erano poi riempiti da graticcio costruito da un intreccio di rami, forse di nocciolo e canne. Tutta la struttura verticale era poi intonacata con argilla; il tetto era sostenuto da una intelaiatura di pali e ricoperto da mazzette di giunchi; nel mezzo vi era un foro che permetteva la fuoriuscita del fumo del camino; il pavimento era spesso ricoperto di tavole rozzamente tagliate; al centro della capanna veniva creato un camino di forma quadrata o circolare. All’interno di questo unico locale, come struttura fissa, oltre al camino esisteva, forse, anche un telaio per la tessitura. La capanna così costruita durava pochi anni e serviva a un solo nucleo famigliare. All’esterno venivano costruiti poi, attorno alla capanna, dei pozzetti regolari del diametro di poco più di un metro e profondi altrettanto; a volte erano foderati con argilla. La loro funzione era forse quella di piccoli silos, che quando si rovinavano venivano usati come piccoli letamai.

Nelle vicinanze del villaggio gli abitanti costruivano anche una necropoli (la necropoli di Ca’ Rotta è finora la più consistente numericamente a nord del Po, con tredici sepolture). Gli inumati venivano deposti in fosse profonde da cinquanta centimetri a un metro, distanziate da cinque a dieci metri l’una dall’altra.  I cadaveri venivano adagiati sulla nuda terra in posizione rannicchiata e su un fianco, con corredo di arco e frecce, asce di pietre levigate, strumenti in osso e vasi; alcuni venivano poi coperti da grossi sassi, «intorno ad essi stavano grossi grumi e frammenti lastiformi di argilla mal cotta, che fanno pensare a fuochi accesi presso il cadavere sul suolo argilloso» (50).

Purtroppo, non abbiamo notizie sull’orientamento delle sepolture e la divisione dei corredi per sesso della necropoli di Ca’ Rotta. Ma vedendo la posizione dell’inumato n° 8 di sesso maschile, ricostruito ed esposto in una vetrina nel nostro Museo cittadino di Storia Naturale, possiamo dire che il rito della sepoltura non si differenzia dagli altri di quel periodo: gli inumati venivano generalmente deposti rannicchiati sul fianco sinistro, il volto orientato verso il, sorgere del sole (Est); erano di solito più ricchi i corredi delle sepolture maschili, con punte di frecce, asce in pietra verde levigata e vasi; mentre nei corredi femminili si trovavano aghi in osso e collane, raramente vasi.

I sassi con resti di argilla attaccata, che coprivano le inumazioni, possono essere paragonati ai ciottoli che racchiudevano i focolari accesi per i banchetti funebri, in onore del defunto, come vennero interpretati dallo Zorzi.

Il professor Cleto Corrain che aveva studiato i resti scheletrici di questi inumati, ci fornisce (51) delle notizie sulle caratteristiche fisiche degli abitanti del villaggio. Le 13 sepolture erano in prevalenza maschili, con 9 individui.  Di uno di essi abbiamo dei dati più precisi (la sepoltura n° 8); esso era un adulto  dell’età di 20-22 anni ed alto, da vivo, cm 164,7; di un’ altro individuo sappiamo che era un adulto dell’altezza di cm 161,3;  un terzo era un giovane di 18-20 anni; era stato sepolto anche un bambino di 6-7 anni. Degli altri cinque  uomini sappiamo solo che erano deceduti in età adulta.

Le femmine inumate erano 4: una era morta quando aveva meno di 20 anni, e misurava cm 155,0 da viva; una seconda era deceduta forse verso i 18-20 anni, e misurava cm 148,1; della terza sappiamo solo che aveva anch’essa 18-20 anni; dell’ultima sappiamo solamente che era deceduta in età adulta.

Dai raffronti eseguiti, sempre dall’antropologo prof. Corrain con altri resti ossei umani dell’età neo-eneolitica,  risulta abbastanza chiaramente la somiglianza morfologica tra gli inumati di Ca’ Rotta e i neolitici liguri delle Arene Candide (Savona) e di alcuni «stranieri» della Bassa Austria, della Boemia, della Moravia, della Slesia, della Franconia e della Turingia. Non concordano invece con quelli francesi e svizzeri.

I tratti somatici degli abitanti del villaggio erano di tipo mediterraneo, con statura medio-bassa; la faccia era relativamente lunga e stretta: con orbite ben proporzionate; naso stretto, ma non molto alto; mandibola gracile, ma ben disegnata e con forte mento. Da uno studio del 1970, fatto dall’antropologo R. Riquet su un’area estesa all’intera Europa, al bacino mediterraneo e all’Asia anteriore, gli studiosi Alciati, Marcolin e Rippa Bonati (52) traggono le conclusioni che gli inumati di Ca’ Rotta appartengono al gruppo che Riquet denomina piccoli dolicocrani, gracili mediterranei, forse legati alla più antica agricoltura del Vicino Oriente.

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La sepoltura dell’inumato n. 8 (esposta in una vetrina del Museo Civ. di St. Nat. di Verona), di sesso maschile presumibilmente di età adulta. La statura, nel vivente, di cm 164,7 è classificabile come media per quel periodo.

 

Da queste esposizioni sulle caratteristiche antropologiche degli uomini sepolti nella necropoli di Ca’ Rotta, forse possiamo dedurre che i primi «fondatori» di Avesa provenivano dal Medio Oriente, dove nacque  l’agricoltura.

L’economia di questa popolazione era basata sull’agricoltura e la pastorizia. Le attività tradizionali come la caccia, la pesca e la raccolta erano tuttavia ancora largamente praticate. Gli animali cacciati erano superiori quantitativamente a quelli di allevamento. Un ruolo importantissimo aveva anche il commercio della selce.

La vita stabile del villaggio e il maggior benessere avevano prodotto un forte aumento della natalità. Gli abitanti neolitici che vivevano nella valle di Avesa, si evolvettero gradualmente; il possesso di grandi armenti li obbligavano a spostarsi e così occuparono tutta la valle fino alla riva dell’Adige; il commercio della selce era continuamente in aumento, e li costringeva a recarsi sempre più a nord sulle colline verso le miniere selcifere del ponte di Veia.

All’apice del Neolitico, circa 5500 anni fa, il territorio veronese diventava una terra ambita e ricca: per questo, i villaggi dovevano essere spesso presi d’assalto dai razziatori.  Questo motivo, probabilmente, costrinse alcune tribù, che vivevano nella pianura, a dirigersi verso la collina, dove le possibilità difensive erano maggiori; il fatto possiamo dedurlo dal sorgere di numerosi villaggi lungo le dorsali collinari, in posizione strategica e in vista uno dell’altro, difesi anche da mura a secco e palizzate.

 

Nel triangolo geologico che ha come base, a occidente, il paese di Parona, a oriente la città di Verona, e al vertice il monte Comun (a nord di Montecchio) esistono alcuni cordoni collinari, limitati dalle due ampie  valli di Negrar e di Valpantena.  Nell’interno di questo triangolo si sono formate cinque valli minori: dei Ronchi, di Quinzano, la val Borago, la val Galina e Valdonega.  Questa zona, ideale per l’uomo, si popolava «enormemente» rispetto alle altre della Lessinia, ed A vesa, con la sua ampia valle, ne era la «capitale».

Sorgevano villaggi sui monti Longo-Sassine di Arbizzano, Triarcole, Cavro, Faldé, Mattei e il Pigno; al Pavaglio e al Tramanal; sui monti Sarte e Tondo; a quota 668, alle Colombare, sul Castelletto, a quota 745 e alle Cee; ai Patrizi, ai Tre Tempi, al  Ca’ del Gabi; sui monti Cossa, Tosato; al Maso e sul monte Ròccolo, alla Calzarega; sui monti Spigolo di Avesa e di Montecchio, alla Cola, alla prima torre massimilianea; al Casalecchio, al Còstolo, al dosso di Ca’ Vecchia; sui monti Arzan, Croson-San Vincenzo, Solan-Costraga, sulla Crucola, sul Castejon, ai Gaspari, sulle collinette della Crosara-Case Vecie,  Basalovo e le Balzare.

 

I villaggi principali sorsero in prossimità di sorgenti e in luoghi strategici, sulla sommità delle prime colline che si affacciano verso la pianura, per avere la possibilità di difendersi da possibili incursioni ladresche, sempre più frequenti nelle valli, e controllare gli eventuali commerci.  Villaggi importanti si formavano sul monte Longo-Sassine, da dove si dominava la pianura padana e l’accesso alla Valpolicella; essi attingevano l’acqua lungo i tre ruscelli che scendono nella valle dei Ronchi. Un altro importante abitato sorgeva sul monte Faldé, da dove si potevano controllare le valli dei Ronchi e di Quinzano, in prossimità della fonte delle Anguane (streghe).   Un villaggio, sia pur piccolo ma importante,  sorgeva in località Patrizi con la possibilità di bloccare l’accesso all’alta valle di Quinzano e di attingere l’acqua presso la fontana del Figarol;. sul vicino monte dei Tre Tempi, esisteva un insediamento dal quale si dominava la bassa valle di Quinzano e di Avesa, che usufruiva delle acque del Figarol.

 

Il villaggio, che era sorto sul monte  Spigolo di Avesa, era l’unico che aveva scarse possibilità di reperire l’acqua, ma la sua posizione altamente strategica rese necessaria la sua costruzione, perché controllava tutta la bassa valle di Avesa e l’accesso a quelle del Borago e della Galina. Sul monte Arzan e Dosso Ca’ Vecchia vennero fondati i villaggi dominanti la valle di Avesa: essi usavano la sorgente del Copo.

 

Sulla dorsale che si affaccia sulla Valpantena doveva esistere senza dubbio un grande abitato sito sullo sperone collinare di Castel San Pietro, ma gli eventi storici ne hanno forse cancellato ogni traccia. Da esso si poteva tenere sotto controllo il guado sull’Adige, nei pressi del Ponte Pietra, ed esercitare la sorveglianza sulla Valdonega e la Valpantena; gli abitanti del villaggio si servivano dell’acqua della fontana del Ferro. Alla chiusura della Valdonega, per garantirne la sicurezza e controllare la Valpantena, veniva fondato un piccolo abitato nel luogo dove oggi sorge la torre massimilianea n° 1  vicino alla fontana di Sommavalle.

 

Un grosso villaggio esisteva sul monte Croson-San VincenzoSolan-Costraga, posto a controllo del vajo della Galina e per vigilare sui due passi dello Squaranti e del Biciclin, che dalla Valpantena conducono sulla collina.  L’acqua l’attingevano dalle due vicine sorgenti dello Squaranti e del Biciclin. In fine, il villaggio costruito sul Castejon, sorvegliava sulla via principale che saliva dalla Valpantena, lungo il vajo del Molin; nelle vicinanze vi sono alcune sorgenti d’acqua.

 

L’economia di questi villaggi era prevalentemente pastorale e comprendeva capre, pecore, maiali e bovini. La caccia veniva ancora abbondantemente praticata, sia ai grossi mammiferi come il cervo, il capriolo il cinghiale e l’orso, sia ai piccoli mammiferi, martore, faine, volpi, tassi, lepri e gatti selvatici, e non erano esclusi gli uccelli. La poca agricoltura era praticata costruendo gradoni sul fianco delle colline, sostenuti da muri a secco: «le marogne». Il commercio della selce aveva una grandissima importanza per questi abitanti: ciò possiamo dedurre dall’elevato numero di speciali nuclei silicei di tipo Corbiac o trancianti – rinvenuti proprio nella nostra area – appositamente costruiti per il commercio (53).

 

Verso la fine del Neolitico, la popolazione veronese era in forte aumento: aveva raggiunto la considerevole cifra di oltre trentamila persone pari all’incirca a 10 individui ogni Kmq. L’aumento della popolazione nella pianura padana e l’importante ruolo svolto dalle vie di comunicazione terrestri e marittime, concorsero al moltiplicarsi dei contatti umani, e all’allargamento delle esperienze e delle conoscenze culturali tra i vari popoli, coinvolgendo anche i gruppi umani che vivevano nella nostra provincia.

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Nucleo di tipo «Corbiac» o tranciante. Nell’interpretazione corrente, questo rarissimo manufatto viene considerato come nucleo da trasporto, cioè l’uomo lo portava con sé nei suoi spostamenti e all’occorrenza ne staccava lame per farne strumenti sul posto. La rarità di questi nuclei ha permesso solo a pochissimi esemplari di giungere intatti fino a noi (3 in Lombardia e 3 nell’area vicentina); il «grande» numero di 6 trancianti (3 di grandi e 3 di piccole dimensioni) raccolti in superficie nella ristretta area attorno ad Avesa, fanno ritenere che questi particolari manufatti silicei venissero costruiti sulla Lessinia, portati poi nei villaggi che sorgevano vicino alla pianura e poi commerciati in tutta la pianura padana.  Il tranciante è stato disegnato al naturale ..

(Broglio A. Trancianti di industrie neo-eneolitiche del Veneto, Atti XI e XII riunione scientifica, Ist. Italiano di Preistoria e Protostoria, Firenze 1968; Solinas G.  Avesa dalla preistoria alla romanità 1979; Biagi P. – Coltorti M.  Tre nuovi «trancianti» in selce in Lombardia.  Annali Benacensi di Cavriana n. 7. 1981;  Chelidonio G. Appunti sulla predeterminazione nei nuclei da lame. La tecnica di «Corbiac», Preistoria Alpina n. 20 1984).

 

Circa 4500 anni fa comincia nel veronese l’età dei  metalli, con l’avvento della civiltà del Rame o Eneolitica. La diffusione del metallo stimolò anche nella nostra regione le innovazioni culturali, incentivò i rapporti commerciali e i contatti umani con risultati, sul piano economico e sociale, di grande rilievo.

 

Si accentuarono i centri di potere e di ricchezza,  e la rivalità tra villaggi ricchi e poveri; aumentarono la bellicosità e la tensione tra i vari gruppi.  Il nascere della violenza tra gli uomini lo si può dedurre in particolare dalle sepolture, dove l’uomo viene adagiato insieme alle sue armi da combattimento: il pugnale e l’alabarda, simboli di potenza e regalità.

 

La civiltà del Rame, molto probabilmente, venne portata da mercanti di origine iberica, impegnati nel commercio del rame con cui costruivano pugnali, alabarde e asce piatte.  Essi sceglievano per i loro traffici i luoghi ricchi di risorse naturali o i crocevia di strade importanti.  Un luogo ideale per il loro commercio doveva essere la nostra provincia, in particolare la Lessinia, già avviata nel commercio della selce, e soprattutto la valle di Avesa, dove l’Adige si poteva guadare facilmente e raggiungere così il Trentino. A conferma di questo, rammentiamo che solo nel bacino geologico  della valle di Avesa costituito dal grande triangolo Parona, monte Comun, Verona  furono trovate due asce piatte di rame, uniche di tutta la Lessinia: una nelle cave di Ca’ Rotta, e l’altra alle Colombare di Negrar poco a nord di Montecchio.

 

I commercianti erano bene accolti dagli abitanti dei villaggi, con i quali esplicavano vantaggiosamente la loro attività.  Questi commercianti (da alcuni studiosi   paragonati agli attuali zingari) dovevano venire dalla Spagna attraverso la Francia, per via terra: ciò è provato dal fatto che l’ascia piatta in rame di Ca’ Rotta era stata forgiata con minerale spagnolo, e pure il vaso campaniforme, trovato nella necropoli, attesta la sua probabile origine dalla Spagna (il vaso o bicchiere campani forme, si rinviene in un’area vastissima: dalla penisola iberica alla Boemia, dall’Africa settentrionale alla Danimarca. Il popolo che costruì  il  vaso, pare fosse originario della penisola iberica, ma recenti ricerche avrebbero localizzato la sua nascita in Boemia. Alcuni studiosi, però, ritengono che la sua origine sia da ricercare in entrambe le regioni).

 

Nelle suppellettili della capanna  n° 1 delle Colombare,  venne trovata la ceramica decorata con motivi a metopa, affine a quella  proveniente da Fontbouisse nella Francia meridionale, assieme alle perline alate e a un pendaglio in selce lessinica a forma d’artiglio d’orso, probabilmente copiati da quelli di origine francese; inoltre, fra queste suppellettili, venne trovata anche la famosa ascia piatta in rame.

 

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Suppellettili rinvenute nel villaggio preistorico {delle Colombare di Negrar:

1) vaso decorato a motivi metopali di tipo Fontbouisse (riferibile alla cultura di Remedello);

2) dente d’orso bruno usato come pendaglio;

3) pendaglio in selce a forma d’artiglio d’orso;

4) perlina ad alette; 5)dente canino di cane, forato, usato come pendaglio;

6), 7), 8) cuspidi di freccia;

9) lama di pugnale in selce. Tutti gli oggetti, escluso il vaso, sono disegnati al naturale.

  

In questo periodo, l’industria della lavorazione della  selce conobbe il massimo della sua produzione, in modo particolare nella fabbricazione di armi. Tra queste armi, il pugnale triangolare era diventato un simbolo di potenza e ricchezza, specialmente se costruito in rame; ma essendo questo metallo particolarmente costoso per le nostre popolazioni, gli abilissimi artigiani della Lessinia pensarono bene di metterne in commercio delle imitazioni in selce, che si rivelarono infine, di migliore qualità.  I particolari pugnali silicei presero sfortunatamente il nome di pugnale della cultura di Remedello, perché vennero raccolti per la prima volta nel 1884 nella necropoli di Remedello (un paese bresciano), mentre oggi, più opportunamente, dovrebbero essere chiamati della cultura lessinica, essendo stati tutti costruiti in Lessinia da dove si diffusero in tutta la pianura padana.

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Pugnale in rame della cultura di Remedello e pugnale lessinico in selce imitato da quello in rame, rinvenuto nella tomba eneolitica di Soave.  I due pugnali sono disegnati al naturale. Disegno di A. Solinas.  Da Gecchele M., S. Giovanni Ilarione, val. 1° , Verona 1984.

 

Per la costruzione dei pugnali, gli artigiani litici preistorici usavano la selce di colore grigio o quella bionda, essendo le due varietà a grana molto fine, perciò ottimamente adatte; tali selci, dovevano trovarsi in arnioni di notevole grandezza e freschi di cava, perciò  non facilmente reperibili in superficie.

La selce con queste caratteristiche oggi la si trova in grande abbondanza inserita sia nei calcari a Pentacrinus, sia nel Biancone, sia in altri calcari dei Cretaceo. Certo, l’uomo non aveva la possibilità di  estrarla dalla roccia con facilità; perciò la cercava nei depositi di tera tònega (argilla), contenenti grandi’ quantità di selci fratturate. Però assieme alle selci fratturate l’argilla conteneva anche gli arnioni, più voluminosi e compatti, che resistettero alle azioni meccaniche del trasporto alluvionale e all’attività termoclastica per affioramento.

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Veduta aerea del villaggio capannicolo delle Colombare di Negrar, con la posizione delle varie capanne: la 1a e la 2a furono scavate completamente; la 3a e la 4a (nella quale fu scoperto in una nicchia naturale quasi intatto un focolare) furono scavate solo parzialmente; nella 5a, 6a e 7a fu eseguito solo un saggio di scavo; le rimanenti 8a – e 9a furono distrutte nel novembre del 1963. Solo nell’estate del 1967 fu recuperato, dal terreno smosso dalle pale meccaniche, poco materiale archeologico. Oggi si potrebbe riprendere lo scavo del villaggio e risolvere così tutti i problemi inerenti creati dagli scavi precedenti del 1953 e 1954. (Da Zorzi F. op. cit. 1960).

 

L’uomo preistorico estraeva gli arnioni con zappe e picconi (tranchets e pics): ciò spiegherebbe perché si rinvengono in abbondanza i «tranchets» e i «pics» Campignani, sparsi su tutto l’altopiano lessinico, anche a quote elevate (54), dove non vi era la possibilità di coltivare i campi, sebbene si era in pieno clima atlantico, ma dove esistevano gli affioramenti dei calcari cretacei e i depositi di argilla, gli uni e gli altri ricchi di noduli silicei. È da notare il particolare che le zappe e i picconi erano nati con l’agricoltura, per dissodare la terra, e da noi cominciano ad apparire sicuramente nei depositi antropici del Neolitico recente sulla Rocca  di Rivoli (55) circa 5000 anni fa.

 

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Pianta e sezione della capanna n° 1 alle Colombare di Negrar. Gli scavi regolari della capanna furono iniziati il 14-6-1953 tracciando sul terreno un quadrato di m 7,55 di lato, e suddividendolo in un reticolo di circa 57 metri  quadrati  e partendo, nel tracciarlo, da un metro dall’esterno del muro, che affiorava di pochi cm dal terreno, e ritenuto dal proprietario del fondo, sempre ‘esistito perché segna un confine di proprietà.  Lo scavo venne eseguito a «rebaltina», come si usava in quel tempo, cioè a trincee, scavando un metro cubo di terreno, rovesciandolo, e raccogliendo il materiale archeologico.  Nella mattina del 17 venne in luce una bella ascia in rame. Dopo 5 giorni si scavarono oltre 32 metri quadrati di terreno, mettendo in luce tutta la pianta della capanna, e si sospesero quindi gli scavi.  Vennero ripresi il 4-7-1953 e proseguirono per 12 giorni. Una nota curiosa è che sotto il muro del lato maggiore, alla base del primo strato, si rinvenne lo scheletro di un neonato non in connessione anatomica.

 

In Lessinia, presumibilmente essi esistevano già 500 anni prima, e il loro massimo fiorire lo abbiamo dal Neolitico recente all’inizio dell’età del Bronzo, quando era massima la richiesta di strumenti silicei. Perciò, il nostro uomo preistorico era costretto alla ricerca della selce scavando i terreni, come facevano i nostri folandieri nel 1700-1800, per la costruzione delle pietre focaie da acciarino per i fucili (56).

Luigi Venturi nel 1841 scrisse che « … i Folandieri col cavar sassi levando la verde cotenna dai  prati, fanno il mal maggiore perché questi,  scioperati a guisa dei topi, invece di seguire una traccia di quelle miniere, quasi ad unica malignità zappano in mille luoghi … ». 

Una popolazione così numerosa sulle nostre colline, doveva avere senz’altro un centro di culto; esso si   trovava forse sul monte Roccolo di Montecchio, (57) che domina su tutta la nostra area e si trova al centro di essa. Era la posizione ideale per una costruzione simile. Purtroppo il complesso di queste mura che ancor oggi si possono vedere non è ancora stato studiato ed è prematuro darne una giusta interpretazione e datazione: si sa solo che i pochi e frammentati cocci, assieme alle selci che si raccolgono, possono essere collocati nel periodo neo-eneolitico.

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Veduta parziale delle fondamenta sul Monte Roccolo in una fotografia di G. Solinas del giugno 1955.

 

La fine dell’età del Rame, verso i 4000 anni fa, con l’instaurazione di una nuova fase climatica e l’inizio dell’età del Bronzo, tradizionalmente collocata nel Veneto attorno ai 4000 anni fa, portarono lentamente, nel «breve» tempo di circa settecento anni, al disfacimento di quasi tutte le comunità umane che esistevano sulle nostre colline.

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Pianta delle fondamenta d’una costruzione presumibilmente preistorica, non ancora esplorata sulla sommità del Monte Roccolo di Montecchio.

 

 

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Una delle tre strade che convergono alla cima del Monte Roccolo, dove sorge la costruzione preistorica.

 

 

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Uno dei muri di recinzione della zona, su cui sorge la costruzione preistorica sulla cima del Monte Roccolo.

Le condizioni climatiche si facevano  via via sempre più fresche e umide di tipo  boreale,  e causarono una graduale diminuzione della temperatura.  Nella nostra area il lento mutare del clima avviava il declino del querceto misto (58) e favoriva lo  sviluppa di formazioni steppiche con grandi quantità di Graminacee e di Cicorioidee; era però sempre presente il faggio  e il castagno (59). Sui versanti collinari, la pioggia più abbondante dava origine a fenomeni erosivi e limitava le coltivazioni degli orti;  nella bassa valle di Avesa, i torrenti impetuosi e il Lorì trasportavano grandi quantità di detriti terrosi, innalzando  il fondovalle fina a due metri sotto al piano di campagna attuale, e creavano  anche delle zone paludose (60).

Con l’avventa dell’età del Bronzo diminuiva l’importanza della selce, e di conseguenza calava anche il sua commercio.  All’inizio dell’età Enea gli abitanti della nostra area riuscirono  a far fronte a questi due nuovi fenomeni (il clima e la diminuzione di richieste della selce),  e restarono  tuttavia ancora nelle loro sedi collinari, farse perché il fondovalle, resosi acquitrinoso era malsana e poco ospitale.

L’economia dei nostri villaggi era parecchio mutata.  Le ampie praterie causate dalle diverse condizioni climatiche favorivano la pastorizia a scapito dell’agricoltura; il commercio della selce era ancora abbastanza attivo; la caccia doveva avere ancora un peso determinante sulla vita di queste comunità.  Certa è, che la vita di questi villaggi, doveva essersi parecchio impoverita rispetto a quella che si svolgeva in pianura e specialmente lungo le spande del lago di Garda e del sua anfiteatro morenico.

Fortunatamente per i nastri abitanti, circa 3500 anni fa il clima evolveva lentamente versa un periodo più asciutto:  Si passava da quello di tipo  boreale a quello atlantica. Perciò, verso i 3300 anni da oggi, quando  armai le risorse alimentari sulla collina erano  in fase di esaurimento, la maggior parte delle popolazioni ivi stanziate si trasferirono  in pianura.

Di tutti i villaggi che si insediarono in Avesa, ne rimasero attivi salo pochissimi.

A soli 3 Km in linea d’aria dai villaggi avesani, si trovava quello delle Sassine di Arbizzano, che è l’unico abbastanza studiato.  Di questo villaggio, scriveva Francesco Zorzi: «Presso Quaro di Montericco, sorge una piccola altura,  arida e tormentata dall’intenso dilavamento e dall’azione erosiva del carsismo  che hanno messo a nudo molti tratti di roccia e provocato il franamento  di innumerevoli massi: da questo aspetto  di rovina venne al luogo la denominazione dialettale di  ‘Le Sassine’.

I reperti di questa zona mostrano che ivi esisteva una stazione la quale perdurò per tutta l’età del  Bronzo ed ebbe rapporto di parentela e di commercio con i palafitticoli (dell’area benacense n.d.r.).

L’industria litica è modesta,  ma sufficiente a documentare un’attività agricola che doveva svolgersi nei campi attigui, là dove anche oggi si estendano  le coltivazioni,  gli avanzi dei pasti danno un quadro significativo di una fauna in cui le specie domestiche prevalgono di  gran lunga su quelle selvatiche, la qualità scadente degli abbondantissimi resti della ceramica e la mancanza del metallo  denunciano condizioni di povertà.  Tuttavia il piccolo villaggio mostra l’alta grado  di evoluzione sociale dei suoi abitatori poiché ha la struttura di un castelliere, come è chiaramente indicato dalla sua posizione dominante, dalle spesse mura di pietrame scaglionate lungo i fianchi del monticciuolo  e dalle tracce di parecchi fondi di capanne, disposte alcune a semicerchio  sul versante S.W.  e altre su gradinate sostenute da muri a secco.

Siamo dunque di fronte ad un insediamento  organizzato permanentemente in stato di difesa e cioè a un villaggio fortificato, che presuppone una società unitaria e indipendente, creata per condurre più efficacemente la lotta per la vita, oppure, in embrione, a una comunità statale, fondata su legami di stirpe, e diretta da un capo;  è palese un acutirsi dello spirito  bellicoso provocato da contrasti per l’occupazione di terre a da crisi economiche stagionali, come le carestie e le morie di bestiame, o da dissidi tribali, o da scorrerie di orde straniere» (61).

Da questo periodo la bellicosità degli uomini sarà sempre più agguerrita: ciò è dimostrato dal fatto che gli oggetti più «costosi» in metallo (in bronzo) erano  in  prevalenza armi. Questi aggetti da difesa o da offesa erano  costituiti da spade, alabarde, pugnali, punte di lancia, asce o accette; vi erano  pure oggetti di ornamento  come i diademi  finemente decorati, spilloni, spille (fibule),  pettini e  rasoi   che solo in parte erano costruiti in metallo;  pochissimi erano gli oggetti domestici in rame: ami e falcetti messori.

L’importanza assunta dal villaggio  sorta sul Castejon, aveva reso necessario il proseguimento della sua esistenza anche in questo periodo data la sua posizione strategica.  La piccola comunità umana che ci viveva costruì un recinto  di forma rettangolare con muretti a secca e lo rese pianeggiante per facilitare l’insediamento  delle abitazioni.  Altri muri vennero costruiti per cingere il monte con il duplice scopo di difesa del villaggio,  e della creazione di terrazzi adatti alla coltivazione di orticelli.  L’attività commerciale esercitata dai residenti di questo villaggio  era forse più intensa di quella svolta dagli abitanti delle Sassine.   Infatti nel villaggio del Castejon il prof. Giuseppe Perin (62) trovò nel 1951, fra l’altro, abbondanti ceramiche di influenza adriatica (62/63).  Questi manufatti non furano  trovati, invece, nel villaggio delle Sassine.

Del villaggio sorto più vicino ad Avesa conosciamo salo l’esistenza, ma niente della sua struttura, perché è andato completamente distrutto dalla costruzione della prima torre massimilianea.  Possiamo però dedurre, che esso era sorto  su una posizione della massima importanza strategica,  se in epoca moderna nello stesso sito venne costruita una fortificazione simile.  Ma il villaggio  di gran lunga il più importante, sorto nella vasta area di influenza avesana, doveva esistere, anche in questo periodo, sul Castello di S. Pietro.

 

 

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Classificazione dei castellieri dallo studio di Carlo  Marchesetti  ( I Castellieri preistorici di Trieste e della regione Giulia, Trieste 1903):  1) apicali: villaggi costruiti sulla sommità di un colle; laterali: se la cerchia muraria si svolgeva su un versante sotto la cima; 2) incompleti, quando uno dei versanti del monte cade ripido oppure l’abitato era costruito sul margine di un altopiano tagliato da pareti a picco;  3) gemini: sarebbero quei castellieri in cui due valli sono disposti sullo stesso piano l’uno unito all’altro; 4) doppi: quando i valli circondano due cime vicine e sono uniti da un muro comune esterno.

Raffaello Battaglia, che fu  il maggiore studioso dei castellieri istriani, scriveva nel 1958 (I  castellieri della Venezia Giulia, in «Le meraviglie del passato», vol. II ): «Il toponimo castellier (e varianti) corrisponde nella Venezia Giulia a località elevate sulle cui vette si conservano di solito tracce di antichissime costruzioni … per indicare villaggi murati costruiti … durante l’età dei metalli, nel corso dei due millenni che precedettero la nascita di Cristo … Il castelliere nel suo  aspetto attuale è caratterizzato da una o più cinte di detrito calcareo … il cosidetto vallo,  che può raggiungere la larghezza di oltre 20 m e un’ altezza di 8; e dai ripiani, spazi pianeggianti larghi da 5 fino a 50 m, racchiusi dai valli, e che rappresentano l’area abitativa …. Il Marchesetti segnala nei castellieri carsici mura dello spessore da m 1,40 a 3,10 … Sotto la comune etichetta «castelliere» si nascondono, dunque, costruzioni e abitati di tipo differente. Queste differenze potrebbero derivare da fattori cronologici ed etnici, ma anche da adattamenti delle costruzioni murarie e delle difese alla morfologia del suolo». Francesco Zorzi fu il massimo studioso dei castellieri veronesi e sull’argomento pubblicò l’opera: I castellieri dei monti Lessini in «Architettura nei monti Lessini» , Verona 1963. Per quanto riguarda Avesa scrisse: «Mura e terrazzature si notano pure sui Monti Tosato, Anamarole,  Cossa e Ongarine, sul Monte Arzan e sul Castejon sopra Marzana, sul dosso pianeggiante di Monte Faldà, sui Monti Triarcole e sulle Torricelle».

 

Per avere un’idea dell’aspetto antropologico della popolazione, che viveva sulle colline avesane durante   una parte dell’età del Bronzo (media e finale), dobbiamo spostarci verso la pianura, e  precisamente a Bovolone.  Nella necropoli scoperta in questa località (la più consistente di sepolcreti e la più vicina ad Avesa), appare evidente che l’uomo nell’età del Bronzo iniziava a cambiare il rito della sepoltura dei propri morti: li cremava, e gli inumati non venivano più deposti solo in posizione rannicchiata, ma generalmente anche in posizione supina.  Cleto Corrain, Gabriella Espamer e Mara Biasi, che studiarono i resti scheletrici della necropoli di Bovolone, così scrivevano: « … gli incinerati prevalgono sugli inumati: 36 contro 28. Gli incinerati possono ben rappresentare un campione qualunque di una popolazione, fatta di uomini, donne e bambini.  Infatti su 29 incinerati a noi consegnati 18 possono essere riferiti ad adulti (6 maschi e  12 femmine)  e 11   bambini. Altrettanto possiamo dire degli inumati: 5 uomini, 10 donne e 13 bambini di varie età.  Dopo di che procediamo ad una breve sintesi in merito alle caratteristiche antropologiche degli inumati adulti, …

La statura maschile a Bovolone si rivela bassa anche rispetto alle modeste stature di confronto (Franzine Nuove di Villabartolomea, Verona; Fiavè, Trento;  Solteri, Trento; loc. di Romagnano, Trento; San Vitale, Bologna; Monte Ursino non Orcino, in Istria; n.d.r.).   Queste sono modeste al medesimo grado, fatta eccezione per quella di Fiavè e di Monte Ursino.  

Va fatta  notare la difformità delle medie nelle vicine Bovolone e Franzine.

In conclusione, trattandosi degli inumati di Bovolone, è lecito parlare di quasi uniformi dolicocefalia e ortocefalia: crani stretti, moderatamente lunghi ed alti, con ossa frontali bene sviluppate in larghezza, di capacità discreta.  La faccia potrebbe essere stata di medie proporzioni, le orbite bassine, il naso larghetto e l’arcata alveolare corta e larga. La statura è bassa e non bene discriminata tra i sessi …. Parliamo anche della faccia, con i suoi particolari anatomici, raramente conservata in condizioni rilevabili metricamente: i confronti si riducono. Si noti il buon accordo delle medie, trattandosi delle due vicine stazioni di Bovolone e di Franzine.   Trattandosi delle altre stazioni le maggiori convergenze si riscontrano a Monte Ursino.  Qualche debole risonanza in Fiavè; ma la necropoli di S. Vitale sembra viaggiare per conto proprio» (64).  Architettonicamente le strutture dei villaggi, che sorgevano sul Castejon di Marzana, alla prima Torricella massimilianea e sul Castel di S. Pietro erano in questo periodo (3.500-2.800 anni fa) simili ai castellieri istriani.  I nostri abitanti non avevano in comune solo i caratteri antropologici con le popolazioni istriane (vedi M. Ursino) ma anche i contatti culturali come afferma il Cardarelli: (65)  « … i contatti (delle popolazioni castricole n.d.r.) con l’area veneta e con la facies subappenninica dell’Italia centrale sembrano piuttosto intensi (cfr. Leonardi, s.d.; Fasani-Salzani, 1975; Fasani 1973) … » (66). «Il primitivo ma efficace sistema dei castellieri, afferma Bernardini, che persistette fino alla romanità ed ebbe grande sviluppo durante l’età del Ferro, fu adottato in quasi tutto l’arco alpino, fino al versante esterno delle Alpi Marittime, e sembra corrispondere ad una risposta delle popolazioni agricolo pastorali nel periodo delle aggressioni esterne e delle scorrerie interne in una fase di grande irrequietezza …. Il ritrovamento di insediamenti analoghi nell’Italia centrale e in altre regioni della penisola suggerisce l’esistenza di un fenomeno culturale più ampio del previsto, meritevole di approfondimento» (67). In conclusione avevano ragione Grancelli, Solinas e Zorzi quando affermavano l’esistenza dei castellieri anche nel veronese.

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La torricella massimilianea n. 1 costruita sul preesistente villaggio preistorico, e il campo dove si rinveniva maggiormente il materiale archeologico, in una foto del 1957.

 

L’inizio dell’età del Ferro, tradizionalmente collocata a  circa 3000 anni fa, coincide con l’ultimo periodo della preistoria. In quest’epoca si hanno le prime civiltà protostoriche: quella della nostra regione prenderà il nome di Protoveneta, ma sarebbe più giusto chiamarla Euganea, nome dato dagli storici latini.  Il periodo di passaggio dall’età del Bronzo all’età del Ferro fu caratterizzato da grandi migrazioni di popoli in tutta l’Europa e di conseguenza l’attività di rapina andava assumendo un ruolo molto importante nell’economia, specialmente dell’ottavo secolo a.C.  Con le scorrerie i popoli vicini e le bande di briganti, non rapivano solo animali o provviste, ma anche uomini, donne e bambini per venderli poi sui mercati degli schiavi.  Queste scorrerie minacciavano soprattutto i piccoli villaggi solitari, sparsi nelle campagne e mal difesi (lo storico ateniese Tucidide, nato intorno al 460 a.C., ci fa notare che in quell’epoca l’attività di rapina non era considerata disonorevole, anzi procurava gloria).  Questi motivi portarono probabilmente le popolazioni che gravitavano attorno ad Avesa, a unirsi a quelle che vivevano sul Castel San Pietro, il colle che vide sicuramente l’insediamento umano fondatore della città di Verona, data la posizione del colle altamente strategica e sito ideale per controllare tutti i traffici che si svolgevano lungo il fiume e lungo la probabile strada che univa i vari castellieri affacciantisi alla pianura, via che successivamente prenderà il nome di Postumia (68).

Nel periodo di transizione fra l’età del Bronzo e l’età del Ferro, iniziava un nuovo deterioramento climatico: terminava il clima atlantico sostituito dal sub-boreale più umido e fresco.  Ad Avesa i boschi a querceto misto del clima mediterraneo andavano via via scomparendo, lasciando il posto alla prateria e ai boschi a faggi.  Quel clima causava anche l’impoverimento delle coltivazioni agricole. In pianura le elevate precipitazioni trasformarono molte zone in malsani acquitrini, e l’impaludamento di gran parte delle terre coltivabili costringeva alcune popolazioni ad abbandonare le zone depresse e a costruire i villaggi sulle dune sabbiose dell’ Adige (69).

Le nostre popolazioni, per la scarsità delle risorse alimentari, furono costrette a migrare in cerca di nuove terre coltivabili, lasciando così  liberi gran parte dei villaggi.  Questo fu un altro motivo che portò le poche popolazioni rimaste nel territorio avesano a ritirarsi in Castel San Pietro, dove le capacità di difesa erano maggiori, e dove vi era la possibilità di coltivare sul colle e lungo le valli laterali:  Valdonega e San. Giovanni in Valle.

Questo spopolamento sembra sia stato di breve durata, perché tra i 3000 e i 2900 anni fa, le popolazioni riconoscibili con il nome di Euganei, rioccuparono i villaggi collinari da poco abbandonati.

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Ricostruzione ideale del castelliere che sorgeva sul colle di San Pietro (Castel San Pietro o monte Gallo) di Verona, del probabile ponte in legno costruito sull’Adige e del villaggio che, forse, esisteva tra l’area del Duomo e il Ponte Pietra. (Da un disegno di Danilo Benacchio per la Storia di Verona di G. Solinas).

 

Dopo i 3000 anni fa – secondo Tito Livio – si erano insediate nel Veneto genti di origine indoeuropea. Queste popolazioni erano gli Èneti provenienti dall’Asia Minore che, cacciati in seguito ad una guerra , dalla loro terra, la Paflagonia si allearono ai troiani.

punta-giavellotto-veronaLe fotografie illustrano, in grandezza quasi naturale, il più antico manufatto finora trovato nel centro storico di Verona: una punta di giavellotto. E stata raccolta in uno strato sabbioso depositato dall’Adige ad una profondità di circa m 4,50 dal suolo dove oggi sorge il cortile del tribunale, al di sotto di una buca posta al lato sud-est, scavata per estrarre sabbia in periodo alto medievale. Lo stato fisico della punta silicea non presenta segni di rotolamento o di esposizione ai raggi solari, perciò, probabilmente, venne persa da un cacciatore neolitico abitante nei villaggi che gravitavano attorno all’area di Avesa.

  

Sconfitti dai greci furono costretti a migrare; trovarono in Antenore un condottiero, che li condusse verso nuove terre. Èneti e Troiani scacciarono gli Euganei dalle loro sedi tra le Alpi e il mare e ne occuparono il territorio: le nuove popolazioni vennero chiamate Veneti. (Lo storico e geografo greco Strabone nato verso il 62 a.c. e morto circa il 20 d.C. scrive che, con il nome generico di Veneto, si chiamavano allora tutte le terre della gran pianura adiacente alle lagune dell’Adriatico, dove scendono i fiumi Isonzo, Tagliamento, Livenza, Piave, Musone, Brenta, Sile e Adige).

Ma a tutt’oggi, il problema di come siano arrivati i Veneti nella nostra provincia, già occupata dagli Euganei, è sospeso. L’arrivo degli Èneti paflagonici, secondo gli scrittori latini, avviene dopo la guerra di Troia, datata tra il XIII e il XII secolo a.C., cioè all’inizio della grande migrazione.

Per quanto riguarda la nostra area, le fonti archeologiche ci indicano che parte degli abitati collinari occupati dagli Euganei, vengono nuovamente abbandonati per circa 200 anni; fra i 2800 e i 2500 anni fa (70). Forse ciò in parte coincide con la penetrazione dei Veneti nelle nostre terre, ma anche perché il clima in questo momento mutava nuovamente, in quanto oltre a rimanere fresco diventava anche abbastanza arido, permettendo il ripopolamento della pianura, dove la terra era molto più fertile.  Ma Castel san Pietro, per la sua posizione naturale e come massimo centro commerciale, doveva senz’altro essere ancora abitato, come dimostra una fibula veneta databile all’VIII sec. a.C., rinvenuta ai piedi del colle, a porta S. Giorgio (71).

Com’è logico pensare, all’invasione dei Veneti, gli Euganei vennero in parte «sottomessi» e in parte si ritirarono sulle Alpi dove si fusero con i Reti.

Nel frattempo, nella valle padana si sviluppa anche la colonizzazione degli Etruschi, i quali con i mezzi superiori di cui disponevano preparavano in Val Padana quell’ambiente idoneo all’agricoltura, che sarà poi sfruttato dai Galli.  Il predominio etrusco sull’Italia settentrionale venne ostacolato ad oriente dall’Adige e dai Veneti, a nord dai Reti e ad occidente dai, Liguri.

Non si sa ancora niente di preciso circa  le popolazioni retiche.  Gli studiosi le considerano popolazioni forse preindoeuropee o ariane fortemente  influenzate dalla superiorità della civiltà degli Etruschi.  A partire da circa 2450 anni fa si raggiunge l’apice dell’Età del Ferro e la nostra zona entra nella protostoria.

Circa 2500 anni fa, il clima da fresco  arido diventava lentamente arido caldo.  L’aridità permetteva alle popolazioni di rioccupare anche le zone depresse della valle padana, dove venivano costruiti nuovi villaggi e molte strade.  Nello stesso periodo i nostri villaggi collinari ritornavano ad essere abitati dai Reti; i Veneti, che vivevano nella pianura, non li ostacolarono ma strinsero invece buoni rapporti commerciali con loro.  Plinio attribuisce ai due popoli Reti e Euganei la fondazione  della città di Verona. Poco tempo dopo, iniziavano ad inserirsi nella pianura occidentale veronese le prime popolazioni galliche. Tra i 2500 e i 2400 anni fa si ebbe un incremento demografico e l’area sul colle di San Pietro non era più sufficiente a contenere la popolazione. Ed infatti troviamo oggetti e strutture abitative di tipo retico-alpino nella Valdonega, confinante con la Valle di Avesa.  Il riparo Mezzena veniva probabilmente frequentato da pastori dell’età del Ferro. L’incremento demografico è indice di un periodo tranquillo nella vita della popolazione, confermato anche dall’intensificarsi dei traffici commerciali  lungo le vie fluviali e terrestri con l’Etruria e in modo particolare con le popolazioni galliche provenienti dall’area lombarda.  All’inizio dei 2400 anni dal presente, viene conclusa l’invasione gallica nell’Italia settentrionale. Di conseguenza nella pianura occidentale veronese la presenza gallica è sempre più consistente.  I dati attuali raccolti attraverso l’archeologia, ci indicano che i Galli non si insediarono a Verona.

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Frammenti ceramici, disegnati al naturale, con sopra graffite lettere e sigle dell’alfabeto retico, rinvenute sul Castejon di Colognola ai Colli. Queste ceramiche graffite si rinvennero anche nelle seguenti località:  Archi di Castel Rotto, San Briccio di Lavagno, S. Anna d’Alfaedo, Velo Veronese ed altre.   Questi rinvenimenti archeologici fanno ritenere che i nomi antichissimi di Avesa e Verona siano di origine più retica che gallica, anche perché i Galli giunsero a Verona quando già esisteva la «citta», e non vi entrarono come conquistatori ma vi si insediarono pacificamente. Quindi rispettarono toponimi e tradizioni locali. (Disegno di A. Solinas).

  

Tito Livio scrive che la tribù dei Galli Cenòmani sarebbe giunta fino ai luoghi dove ora stanno Brescia e Verona. Poi Livio è ben preciso nel ribadire che tutta la valle del Po venne occupata dai Galli excepto Venetorum angulo.  

 Strabone indica come terra veneta l’area compresa tra l’Adige e l’alto Adriatico.

Polibio (nato nel 200 a.C. e morto prima del 120 a.C), dice che al suo tempo i Veneti avevano ancora una consistenza etnica propria, ma abitudini poco differenti dai Galli (l’antropologa Mariantonia Capitanio afferma che le tombe galliche di Valeggio appartenenti al II-I secolo a.C. hanno sì corredo gallico, ma gli inumati sono antropologicamente da ritenere veneti), e ci assicura che quando i Galli Senoni guidati da Brenna invasero Roma nel 390 a.C., i soli Veneti irruppero nell’agro gallico costringendo gli stessi Galli a scendere a patti con i Romani ed a farli ritirare nel loro territorio.

Qualche tempo dopo (283 a.c.) il Senato Romano strinse patti con i Veneti e i Cenomani per frenare l’infiltrazione gallica, in modo particolare nella zona compresa tra l’Adige e il Po, per rendere i Galli meno pericolosi.  E solo nella guerra contro i Galli Boi, Insubri e Cesati, culminata nella battaglia di Talamone (225 a.C.) i Veneti ed i Galli Cenòmani furono alleati di Roma. Le fonti archeologiche ci dicono che solo dopo questi avvenimenti si riscontra una forte presenza gallica nel veronese.

Il territorio veronese era passato definitivamente sotto il dominio cenòmano.  Il Salzani scrive che  «durante la tarda età del Ferro lo sviluppo colturale della pianura veronese diviene dunque strettamente collegabile con quello della Lombardia e diventano più rimarchevoli la differenza con l’area colturale della collina che si è sì celtizzata, ma che è soprattutto qualificata da una massiccia presenza di elementi retici … » (72). Solo in questo momento (circa 2200 anni fa) si può ritenere che i Galli giunsero a Verona, quando la città già esisteva. Tutto ciò spiega perché l’etimologia dei nomi di Verona e di Avesa sia contesa fra Euganei, Reti, Veneti, Etruschi e Galli.  Naturalmente l’abitato sul colle di San Pietro, essendo situato in posizione strategica, fu senz’altro occupato dalle genti galliche.  Ciò può spiegare perché per secoli il colle di Castel San Pietro venne chiamato Monte Gallo (73). L’occupazione degli abitati collinari da parte dei Galli, secondo le notizie archeologiche, non fu violenta ma pacifica. Durante la seconda guerra punica (218-201 a.C.), i Cenòmani e i Veneti furono alleati dei Romani. Nel 194 a.C. vennero sconfitti definitivamente i Galli, e poi nel 176 a.C. i Liguri e due anni dopo gli Istri. A conclusione di queste operazioni militari i romani iniziarono la colonizzazione della valle Padana. La via Postumia verrà costruita nel 148 a.C. e con essa si instaurava la presenza romana nella nostra città e dintorni.

I romani sembra che si interessassero quasi subito alla Valle di Avesa, la quale assunse un certo interesse verso il 50 a.C., quando nella costruzione delle mura della città di Verona venne impiegato il «tufo» locale (74).

Verso l’anno 15 a.C. veniva costruita la grande via consolare Claudia Augusta, il suo tracciato attraversava la bassa valle di Avesa da est ad ovest, ed essa riacquistava vita e floridezza. Vi prosperavano l’agricoltura e le cave di calcare e venivano costruite anche ville lussuose (75). D’ora innanzi la vita di Avesa sarà sempre più legata alle vicende storiche della città di Verona.

 

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Tavola cronologica che rappresenta parte dell’ultima era geologica( il Quaternario, in cronologia convenzionale). Sono evidenziati i vari stati glaciali con i rispettivi cambiamenti climatici dell’Italia settentrionale; l’evoluzione fisica dell’uomo, le sue civiltà e la conoscenza attuale della sua presenza nella Valle di Avesa. (Disegno Alberto Solinas)

 

 

NOTE

 

(1) Goiran A., Catalogo degli oggetti presentati alla Esposizione Preistorica Veronese, inaugurata il 20 febbraio 1876, Verona.

 

(2) È la selce alterata dalla luce solare, che con il passare del tempo acquista sempre più quella caratteristica patina biancastra.

 

(3) Graziosi P., Un giacimento paleolitico a Quinzano presso Verona, Archivio per l’Antropologia e l’Etnografia, vol. LXIX, anno 1939.

 

(4) Battaglia R., L’uomo fossile nel Veneto, in «Il giacimento pleistocenico di Ca’ Rotta a Quinzano presso Verona». Atti del Reale Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, anno accademico 1938-39.

 

(5) Battaglia R., 1938-39, op. cit.

 

(6) Lenoardi P., Risultati paletnologici di uno scavo sistematico nel deposito pleistocenico di Quinzano presso Verona, «Pontificia Accademia Scientiarum», anno VI, vol. VI, 1942.

 

(7) Zorzi F. – Pasa A., Il deposito Quaternario di Villa di Quinzano, «Bollettino di Paletnologia Italiana», nuova serie, anno VIII, 1944-45.

 

(8) Dagli appunti inediti di Giovanni Solinas.

 

(9 Si noti che le zone più ricche di materiale si liceo in Italia si trovano sui Lessini e sul Gargano.

 

(10) Battaglia R., 1938-39, op. cit.

 

(11) Zorzi F. – Pasa A., 1944-45, op. cit.

 

(12) Graziosi P. 1939, op. cit.

 

(13) Graziosi P. 1939, op. cit.

 

(14) Zorzi F. – Pasa A., 1944-45, op. cit,

 

(15) Zorzi F. – Pasa A., 1944-45, op. cit.

 

(16) Leonardi P., La grotta del Broion nei colli Berici (Vicenza).   Nuova stazione preistorica con industria paleolitica gravettiana, «Rivista di Scienze Preistoriche», vol. VI, 1951.

 

(17) Broglio A. – Laplace G. – Zorzi F., I depositi quaternari del Ponte di Veja, le industrie, «Memorie del Museo Civ. St. Nat., Verona» vol. XI, 1963.

 

(18) Battaglia R., Osso occipitale umano rinvenuto nel giacimento pleistocenico di Quinzano nel Comune di Verona, «Palaeontographia Italica», vol. XLII, anno 1942-46, Pisa 1948.

 

(19) Battaglia R., L’uomo fossile di Quinzano e I Protofanerantropi Europei del Pleistocene antico «Memorie del Museo Civ. di St. Nat. di Verona», vol. I, anno 1947-48.

 

(20) Pasa A., Posizione e confini, storia geologica e aspetto fisico del territorio veronese, «Verona e il suo territorio», vol. I, 1960. Istituto per gli studi storici veronesi, Verona.

 

(21) Hebere G., Der «Quinzano Fund» (Oberitalien) und seine Bedentung fiir die Herkunftsfrage des heutigen Menschentypus, «Naturwiss. Rundschau», Stuttgart, 1951; Idem, Das Prdsäpiens  problemen «Moderne Biologie »  festschrift  fiir Hans Nachtsheim, Berlin 1950.

 

(22) Vallois H.V., Neandertals and Praesapiens, The HuxleyLecture «Journ. R. Anthropol. Inst.», LXXXIV, Londra, 1954.

 

(23) Sergi S., I tipi umani più antichi, in R. Biasutti, «Le razze e i popoli della terra», 2ª ed., Torino, 1953, vol. I. Idem, 3ª ed. UTET Torino 1958.

 

(24) Zorzi F., Insediamenti e stirpi, «Verona e il suo territorio», vol. I, 1960, Istituto per gli studi storici veronesi, Verona.

 

(25) Pasa A., Nuovi indici paleoclimatici nel deposito di Quinzano (Veronese), «Atti dell’Accademia di Agricoltura, Scienze e Lettere di Verona» Serie VI vol. VI, anno 1954-55.

 

(26) Vaso in cui la bocca circolare veniva modificata fino ad ottenerne una forma quadrata. È caratteristico del Neolitico medio in Italia settentrionale che è compreso fra circa 6.000 a 5.000 anni fa.

 

(27) Il nome di questo caratteristico vaso deriva dalla sua forma simile ad una campana, e veniva costruito durante tutta l’età del Rame, che è in genere datata convenzionalmente per l’Italia fra i 4.200 e i 3.800 anni da oggi.

 

(28) Corrain C., I resti scheletrici umani dei livelli superiori del deposito quaternario di Quinzano Veronese, «Memorie del Museo Civico di Storia Naturale di Verona», vol.  VIII, 1960.

 

(29) Corrain C. – Malgeri G., Le stazioni neo-eneolitiche dell’Italia nordappenninica le sepolture ed i resti scheletrici umani, «Quaderni di Antropologia e di Etnologia», I, Padova 1975.

 

(30) Biagi P., Il Neolitico di Quinzano Veronese, «Memorie del Museo Civico di Storia Naturale di Verona», vol. XX, 1972.

 

(31) Perin G., Scienza e poesia sui Lessini, Verona 1972.

 

(32) Fasani L., L’età del Bronzo, «Il Veneto nell’antichità, preistoria e protostoria», edizioni Banca Popolare di Verona, 1984.

 

(33) Fasani L., 1984, op. cit.

 

(34) Zorzi F., Contributo alla conoscenza della civiltà campignana nel Veronese, «Memorie del Museo Civ. di St. Nat., Verona», vol. I, 1947-48.

 

(35) Grancelli U., La difesa retica della Lessinia occidentale, «Mem. del Museo Civ. di St. Nat., Verona», vol. I, 1947-48; –  Grancelli U., Vestigia di abitati castricoli nella Lessinia, «Accademia di Agricoltura, Scienze e Lettere di Verona», serie VI, vol. IV, anno 1952-53.

 

(36) Solinas G., Storia di Verona, 1981. – Zorzi F., Il castelliere del monte Purga di Velo Veronese, «Accademia di Agricoltura, Scienze e Lettere di Verona», serie V, vol. XXVI, anno 1949-50.

 

(37) Zorzi F., Un ‘amigdala acheuleana scoperta a Lughezzano di Valpantena nel quadro del Paleolitico inferiore e medio veronese, «Memorie del Museo Civ. di St. Nat., Verona», Vol. VII, 1959. – Palma di Cesnola A., Gli scavi del Riparo Zampieri presso Verona «Memorie del Museo Civ. di St. Nat., Verona», vol. IX, 1961. – Bartolomei G. – Cattani L. – Cremaschi M. – Pasa A. – Peretto C. – Sartorelli A., Il Riparo Mezzena, «Memorie del Museo Civ. di St, Nat., Verona», (2ª serie), sezione dell’uomo N. 2, 1980. – Solinas G., Dalla preistoria alla romanità, in «Avesa» vol. I,  la Consortìa di Avesa, 1979.

 

(38) Solinas G., Lessinia, Quaderno primo, Verona 1975. – Solinas G., Dalla preistoria alla romanità, cit.

 

(39) Cremaschi M., I paleosuoli ed i depositi atriali delle cavità carsiche e dei ripari, «Il Veneto nell’antichità, preistoria e protostoria», edizioni Banca Popolare di Verona 1984.

 

(40) Spadoni F., Ponte Crencano, «Bollettino del Museo Civ. di St. Nat. di Verona», vol. IV, 1977.

 

(41) Peretto C.,  Il Veneto nell’antichità, op. cit., 1984.

 

(42) Bartolomei G. – Cattani L. – Cremaschi M. – Pasa A. – Peretto C. – Sartorelli A., Il Riparo Mezzena. «Memorie del Museo Civ. Se. Nat. Verona», II serie, sezione Scienze dell’Uomo, N. 2, 1980; – Palma di Cesnola A., Riparo Zampieri, «Riv, Sc. Preist.», XIV, 1959; – Palma di Cesnola A., Gli scavi del Riparo Zampieri presso Verona, «Mem. Mus. Civ. Sco Nat. Verona», IX 1961; – Corrain C., Resti scheletrici umani del Riparo Mezzena, «Mem. muso Civ. Sc. Nat. Verona», XVI 1968;  – Corrain c., Osservazione sui reperti umani del Riparo Mezzena, in «Avesa», vol. I, 1979; – Capitanio M., Neandertaliani ad Avesa, in «Avesa» vol. I, 1979; – Solinas G., Dalla preistoria alla romanità. in «Avesa» vol. I, 1979; – Solinas G., Storia di Verona, 1981.

 

(43) Zorzi F. – Pasa A., Il deposito quaternario di Villa di Quinzano presso Verona, «Boll. paletnologia italiana», anno IX, parte II,  1946.

 

(44) Sorbini L. – Accorsi C. A. – Bandini Mazzanti M. ; Forlani L. – Gandini F. – Meneghel A. – Rigoni A. – Sommaruga M., Geologia e geomorfologia di una porzione della pianura a sud-est di Verona, «Memorie del Museo Civ. di St. Nat. di Verona» (II serie), Sezione Scienze della Terra n. 2, 1984.

 

(45) Corrà G., Il ruolo delle glaciazioni quaternarie nelle vicende della idrografia atesina. «Natura Alpina», IV, 1974.

 

(46) Broglio A., Il Paleolitico superiore (Aurignaziano, Gravettiano, Epigravettiano antico). In «Il Veneto nell’antichità, preistoria e protostoria», edizioni Banca Popolare di Verona 1984.

 

(47) Solinas A., Primi manufatti certi del Mesolitico recente e dell’antico Neolitico rinvenuti in Lessinia, in «La Lessinia ieri oggi e domani», quaderno culturale 1985.

 

(48) Chelidonio G. – Farello L. – Partesotti R.,  Preistoria sulle Torricelle: nuove scoperte ed ipotesi per le più antiche frequentazioni della collina veronese, in «La Valpantena», primo quaderno culturale 1986.

 

(49) Bagolini B., Neolitico, in «Il Veneto nell’antichità, preistoria e protostoria», edizioni Banca Popolare di Verona, 1984.

 

(50) Zorzi F., Preistoria veronese. Insediamenti e stirpi, in «Verona e il suo territorio»,  Istituto per gli studi storici veronesi, 1960.

 

(51) Corrain C. I resti scheletrici umani dei livelli superiori del deposito quaternario di Quinzano veronese, «Memorie Museo Civ. St. Nat. Verona», vol. VIII, 1960.

 

(52) Alciati G. – Marcolin G. – Rippa Bonati M., Paleoantropologia, in «II Veneto nell’antichità, preistoria e protostoria», edizioni Banca Popolare di Verona, 1984.

 

(53) Solinas G., Avesa dalla preistoria alla romanità, in «Avesa» La Consortìa di Avesa, voI. I° 1979. –  Chelidonio G., Appunti sulla predeterminazione nei nuclei da lame. La tecnica di «Corbiac», in «Preistoria alpina» n. 20, 1984.

 

(54) Solinas G., 1981, op. cit. (55) Bagolini B., -1984, op. cit.

 

(56) Solinas G., Selci preistoriche o di. .. mezzo secolo fa? in «Rivista di scienze preistoriche», vol. VIII, 1953. – Solinas G., Selci lavorate per acciarino nell’Italia settentrionale e in Francia, «Studi trentini di scienze naturali», sezione B, vol. XLVIII n. 2, Trento 1971. – Benetti A. Manufatti di selce preistorici e storici a Camposilvano nei Lessini veronesi, in «Studi trentini di scienze naturali», vol. 54, Trento 1977.

 

(57) Solinas G., Avesa dalla preistoria alla romanità, vol 1° cit, 1979.

 

(58) Pasa A., op. cit., 1954-55.

 

(59) Sorbini L. – Accorsi C.A. – Bandini Mazzanti M. – Forlani L. ecc., op. cit., 1984.

 

(60) Bartolomei G. Evoluzione fisica e biologica dal Pliocene ai giorni nostri, in «Il Veneto nell’antichità, preistoria e protostoria», edizioni Banca Popolare di Verona, 1984.

 

(61) Zorzi F., op. cit., 1960.

 

(62) Perin G. op. cit. 1972.

 

(61) Salzani L., Colognola ai Colli, indagini archeologiche, Comune di Colognola ai Colli, 1983.

 

(64) Corrain C. – Espamer G. – Biasi M. Resti scheletrici umani di epoca enea da Bovolone (Verona).  Atti e memorie della Accademia di Agricoltura Scienze e Lettere di Verona; serie VI – vol. XXXV, anno accademico 1983-84. Verona 1985.

 

(65) Cardarelli A. Castellieri nel Carso e nell’lstria: cronologia degli insediamenti fra media età del Bronzo e prima età del Ferro. Preistoria del Caput Adriae. Trieste 1983.

 

(66) Leonardi G. Testimonianze preistoriche di Conegliano, s.d. – Fasani L., L’insediamento protoveneto di Mariconda, Melara, Rovigo, Padusa 1973. – Fasani L. – Salzani L. Nuovo insediamento dell’età del bronzo in località Fondo Paviani presso Legnago (VR). Bol. Mus. Civ. St. Nat. di Verona 1975.

 

(67)  Bernardini E. L’Italia Preistorica. Newton Compton editori.  Stampato nell’ottobre 1983.

 

(68) Solinas G. op. cit. 1981.

 

(69) Pasa A. op. cit. 1956.

 

(70) Salzani L., Colognola ai Colli, studi sul Territorio dalla formazione all’età romana. Parrocchia di Colognola ai Colli. 1983. – Salzani L., Colognola ai Colli, indagini archeologiche. Comune di Colognola ai Colli 1983. – Salzani L., Preistoria in Valpolicella. Centro di documentazione per la storia della Valpolicella. Verona 1981.

 

(71) Salzani L. Castel S. Pietro, le documentazioni protostoriche, Civiltà Veronese, n. 2, 1985.

 

(72)  Salzani L., Il territorio veronese durante il I millennio a.C. «Il Veneto nell’antichità, preistoria e protostoria», Edizioni Banca Popolare di Verona. 1984.

 

(73) Da Persico G. Descrizione di Verona e della sua provincia, 1820.

 

(74) Peroni G., Due mila anni di impiego del calcare. «Avesa» 1979.

 

(75) Franzoni L. Foglio 49 edizione archeologica, Firenze. 1975.

 

 

FONTE: srs di Alberto Solinas, da LA PREISTORIA NELLA VALLE DI AVESA, 1987

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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