Nov 12 2012

SCIPIO PARRICIDA E GLI ALTRI: LA VERA STORIA DELL’INNO ITALIANO

Category: Italia storia e dintornigiorgio @ 00:01

Goffredo Mameli

Studiamo Mameli? Allora, studiamolo.

Dall’anno prossimo bisognerà studiare a scuola l’inno nazionale. Sulle prime, alla notizia, mi venne da ridere, poi, fingendo di essere ancora un prof e non un pensionato, immaginai di insegnarlo, e di scoprire, io docente di italiano, quanto siano ignoranti i miei allievi in fatto di storia patria, cioè i loro insegnanti. Vorrei, infatti, toccare con mano i seguenti punti:

 

1. Scipio. A parte che è una licenza poetica per Scipione (le parole italiane derivano dall’accusativo e non dal nominativo), quanti sanno che è Publio Cornelio Scipione Africano Maggiore?  Dopo l’uccisione di padre e zio,  prese il comando delle truppe di Spagna appena venticinquenne e inaugurò così la degenerazione delle istituzioni repubblicane; con abilità e fortuna conquistò l’Iberia, e nessuno si accorse che si era lasciato passare sotto il naso Asbrubale; impose e realizzò la spedizione in Africa, e sconfisse Annibale a Zama; fu di fatto il vincitore di Magnesia contro Antioco III.  Aprì Roma alla cultura greca. Accusato di peculato dal tradizionalista Catone, morì esule.

2. Le gesta di Scipio e la sua fronte cinta di vittoria, come leggete, non sono per nulla pacifiste e nemmeno difensive della patria, bensì del più squisito imperialismo di conquista: spiegatelo, ai fanciulli!

 

3. Spiegate al professore di religione postconciliare che, secondo l’inno, le glorie scipioniche sono state concesse direttamente da Dio affinché la vittoria fosse schiava di Roma.

 

4. Peggio che peggio con la strofa seguente, che va avanti a colpi di cose ritengo ignote ai libri di testo, essendo questi palesemente scopiazzati da testi francesi e perciò privi di cose italiane:

Legnano (vittoria del 1176 dei Milanesi contro Federico I Barbarossa);

Ferruccio (Francesco Ferrucci, fiorentino, ma in verità battuto e ucciso dal capitano calabrese Fabrizio Maramaldo per vendicare l’assassinio del suo messo impiccato contro le leggi di guerra);

Balilla (un ragazzo genovese che nel 1746 avrebbe incitato alla rivolta contro truppe asburgiche e piemontesi;  e qui attenti: di Balilla era pieno il Fascismo, compresa l’utilitaria FIAT);

i Vespri (insurrezione ghibellina dei Siciliani nel 1282 contro Carlo d’Angiò, e guerra europea ventennale). Vuoi vedere che qualcuno dovrà ripassarsi – diciamo ripassarsi – l’intera storia nazionale?

 

Peggio mi sento con la strofa seguente, in cui l’inno se la piglia con l’Austria, e il prof dovrebbe spiegare, e aver prima chiaro, che la nemica in parola non è la piccola e pacifica repubblica federale di oggi, per altro nostra alleata e membro dell’U. E.,  bensì l’Impero d’Austria, esteso alle attuali Austria, R. Ceca, Veneto, Trentino, Lombardia, Slovacchia, Croazia, Slovenia, Ungheria, mezza Romania e una buona fetta di Polonia.  A questa l’inno accenna deprecando che i cosacchi assieme all’Austria abbiano bevuto il suo sangue, riferendosi niente di meno che a fatti del 1831.  Se poi bisogna studiare a scuola Mameli come poesia, allora il professore dovrà mostrare senso critico e dire che la lirica patriottica italiana dell’Ottocento è ricca forse di sentimento, ma sulla forma è meglio sorvolare. Vero che l’inno è solo un po’ meno peggio di “Me ne andavo un mattino a spigolare quando ho visto una barca in mezzo al mare”, ma non ci vuole molto. Se non si fa un’esegesi stilistica, i ragazzi escono convinti che queste cose sono poesia e letteratura, e scrivono pure loro prose e versi ugualmente orrendi. La poesia è altra cosa: mica è il contenuto, è la forma.

 

 

Fonte: srs di ULDERICO NISTICO’, da l’Indipendenza del  10 novembre 2012-11-10 Link:

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L’INNO DI MAMELI OBBLIGATORIO NELLE SCUOLE È UNA ROBA DA FASCISMO!

 

Giovani balilla

L’aver reso obbligatorio l’Inno di Mameli nelle scuole è parso anche a taluni professori di sinistra (Rusconi) un gesto esemplare e doveroso per riedificare il sentimento di patria notoriamente debole e lacunoso. Nessuno che abbia ricordato (ma forse non lo sapevano) come il voto del Senato ricalcasse, come un vizio di forma ricorrente, la medesima intenzione del fascismo di rendere obbligatori nelle scuole del regno la “Dottrina del fascismo”, scritta da Benito Mussolini, e l’Inno dei Balilla, allo scopo di trasmettere agli scolari “l’orgoglio e il vanto di appartenere a una simile Nazione e di ubbidire a un simile Uomo!” (tutti rigorosamente maiuscoli).

La spontaneità dei sentimenti è propria delle democrazie; l’imperativo e l’obbligo sono l’armamentario delle tirannie. I giovani sono i più indifesi e ambiti dalla propaganda che ne fa il simbolo più vigoroso e promettente della nazione. ”I bimbi d’Italia si chiaman Balilla”, si cantava nelle scuole del ventennio. Goffredo Mameli, senza intenzione, aveva fornito al fascismo lo slogan più azzeccato. Il nome veniva da Giovanni Battista Perasso, il ragazzo genovese che nel 1776, lanciando in Portoria un sasso contro gli austriaci, aveva dato inizio all’insurrezione popolare. Perasso divenne l’eroe protofascista in cui ogni ragazzo italiano doveva specchiarsi. Il pittore Mario Mafai, padre della giornalista Mirian, lo glorificò dipingendo una “Testa di Balilla”. Goffredo Mameli morì sugli spalti di Roma nel 1849. Lasciò l’inno che non fece spasimare, anzi pareva piuttosto sconclusionato, del quale la proclamata Repubblica del 1946 si ricordò per farne l’inno provvisorio della Nazione. Se ne cercava uno più bello. Non si trovò. Da provvisorio divenne definitivo. Nessuno lo cantava, nessuno sapeva cosa volesse dire “l’elmo di Scipio” e tanto meno: ”Dov’è la vittoria? Le porga la chioma che schiava di Roma Iddio la creò”. Si ebbe solo l’accortezza di emendare il testo della frase compromettente: ”I bimbi d’Italia si chiaman Balilla”. Tutti gli altri versi sanguinolenti rimasero benché di difficile digestione. Ai campionati del mondo di calcio, i giocatori italiani facevano scena muta. Solo ora qualcuno fa finta di biascicarlo.

 

Mameli compose l’inno nel 1847 su richiesta di Giuseppe Mazzini, sempre alla ricerca di un pretesto qualsiasi per stimolare la vena eroica degli italiani. Come cavare il sangue da una rapa! La musica era di un compositore genovese, Michele Novaro, autore anche di un’opera buffa in dialetto genovese. Il testo dell’inno parve ostico benché baldanzoso e funereo, con quel perplesso interrogativo: ”Dov’è la Vittoria?”, ed era bene saperlo per correre, in caso di bisogno, sul carro giusto. Nondimeno, quei versi strampalati e truculenti, senza aver nulla di marziale, sembrarono adatti a un popolo canoro e spensierato e il buon Mameli, componendoli, non era del tutto inconsapevole che agli italiani, guerrieri di tutto riposo, più che le “pugne” si addicessero le “pugnette”. ”Fratelli d’Italia”, questo il titolo dell’inno, venne eseguito per la prima volta a Pisa e a Genova nel 1849 e fu l’inno della Repubblica Romana. Il papa era fuggito a Gaeta. Roma senza il papa non era un evento da poco. Mameli era corso a “liberare” Roma, senza immaginare che i romani non volevano essere affatto “liberati”.  Ci arrivò con gli altri volontari mazziniani e garibaldini, quasi tutti padani, asserragliati sulle mura dove c’erano tutti, milanesi e bergamaschi, veneziani e trentini, ungheresi e ticinesi, tutti salvo i romani, che già allora spettavano gli italiani per accaparrarsi i posti all’Alitalia o nelle Ferrovie.

Mameli, pieno di dignità e di buone intenzioni, poco prima di cadere sul campo, aveva scritto alla madre: ”Qui ci prepariamo a resistere. Dio voglia che si salvi almeno l’onore, che gli stranieri non possano dire che gli italiani son vili…”. Non ci aveva azzeccato.

Dalla battaglia di Legnano del 1176 gli italiani non avevano mai vinto una battaglia da soli. E dire che aveva scritto l’inno per risvegliarli, se proprio non era possibile farne dei “cuor di leone”. Povero Mameli morto a Roma, e quel che è peggio, per Roma, a 22 anni. Se l’inno è l’espressione di un Paese, non c’è dubbio che egli non avrebbe potuto far di meglio, o di peggio. Non si può biasimare i giocatori che masticano la “cicca” invece di cantarlo. Ben diverso successo avrebbe riscosso “Vola colomba”.

 

 

Fonte: srs  di ROMANO BRACALINI, da l’Indipendenza del 10 novembre  2012

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