Apr 04 2014

CONTROVERSIE ED ABUSI

Category: Chiesa Veronese Storia Pighi,Libri e fontigiorgio @ 00:07

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Il  fonte battesimale della Chiesa di Santa Eufemia  che fu al centro di  una forte controversia tra i padri Agostiniani  di Santa Eufemia e i parroci della città

 

  

VOLUME  II –  EPOCA  IV – CAPO XIII

 

SOMMARIO. – Agostiniani di Sant’Eufemia e parrochi – Cassinesi di S. Nazaro e Olivetani di S. Maria in Organo – Giurisdizioni parrocchiali – Congregazione del Clero intrinseco e Frati Minori di S. Bernardino – Pretese dei Benedettini di S. Zeno – Vescovi di Verona e Capitolo per l’esenzione – Vescovi e canonici per la Scuola degli accoliti – Mancanza di residenza dei parrochi – Matrimonii clandestini – Vanità nel vestiario dei sacerdoti.

 

Nei due secoli XVII e XVIII troviamo essersi agitate parecchie controversie, ed introdotti alcuni abusi, massime in materie disciplinari.

Causa principale, non unica, delle controversie pare sia stata l’introduzione od intrusione di certi usi, tramutatisi poi sensim  sine sensu  in consuetudini, e quindi in legittimi o pretesi diritti: forse avrà contribuito anche il prestigio, che si cattivarono in quest’epoca alcune comunità religiose, sia anteriori che posteriori al Concilio di Trento. Causa principale degli abusi, che, grazie a Dio, non sono molti, fu l’indole propria del secolo XVII, propenso piuttosto alle cose profane e non poco all’indifferentismo religioso. Diremo brevemente delle controversie agitatesi nel secolo XVII, accennando in fine ad alcuni abusi più rilevabili. (a)

 

Una controversia gravissima e diuturna fu quella, che si agitò fra i padri Agostiniani di Sant’Eufemia e i parrochi della città.  Alberto Valier,  mentre era ancora vescovo di Famagosta e coadiutore perpetuo dello zio Agostino nel vescovado di Verona, con atto del 26 febbraio 1601 autorizzò gli Agostiniani ad erigere e benedire nella loro  chiesa il fonte battesimale(1): onde avvenne che il curato di quella chiesa si ritenne autorizzato a battezzare i bambini di quella parrocchia, e poi anche quelli che da altre parrocchie fossero portati spontaneamente al fonte di Sant’Eufemia. La cosa passò liscia per alcuni anni e specialmente durante l’episcopato di Alberto Valier (1606-1630); ma in seguito cominciarono gli arcipreti ed i parrochi a reclamare contro questa novità. Gli Agostiniani si appellavano a simile diritto competente agli arcipreti delle quattro pievi aventi il fonte, quali erano S. Stefano, SS. Apostoli, S. Giovanni in Valle, S. Procolo.  I parrochi appoggiavano i loro reclami ad una costituzione, certo non chiara, del vescovo Giberti, e più all’aggiunta, che vi avea fatto il vescovo Agostino Valier(2).

Più tardi si appellarono pure ad un decreto del vescovo Sebastiano Pisani (nipote), il quale nelle costituzioni sinodali pubblicate il giorno 9 maggio 1675 sanciva: «Nullus parochorum aut rector aut curator … ecclesiarum, quae Fontem habeant baptismalem, salubri hoc lavacro abluere audeat infantes alterius parceciae, sub poena suspensionis ipso facto incurrendae »(3).

Lo statuto parrebbe chiaro e decisivo: tuttavia ancor nel giorno 6 febbrario 1683 il P. Nicola Grassi curato di Sant’Eufemia presentò un protesto alla Curia, e questa non osò definire la questione: così tirò innanzi la consuetudine.

 

Gli stessi Agostiniani nel 1641 ebbero una lite con la comunità di Castelrotto, riguardo ad una chiesa di S. Maria della Valena costruita su un loro fondo nel secolo XIII. La lite in forma avogaresca fu portata ai magistrati di Venezia: fu composta nell’anno 1646.

 

Un litigio si agitò sul principio del secolo XVII tra i monaci Cassinesi di S. Nazaro e gli Olivetani di S. Maria in Organo sul diritto di precedenza nelle processioni. La vertenza fu trattata presso il vescovo Alberto Valier: ma essendo troppo complicata, fu di mestieri portarla a Roma. Quivi fu discussa a lungo e con solenne apparato dalla S. Congregazione dei Riti, e con udienza dei procuratori ed avvocati di ambe le parti: finalmente il card. Capponi, udito il parere di tutti i consultori della Congregazione, con decreto 23 maggio 1610 decise il litigio in favore dei Cassinesi di S. Nazaro(4).

 

Altra controversia grave e lunga fu quella delle giurisdizioni parrocchiali; nelle quali l’arciprete ed i parrochi, massime della città, si ritenevano lesi nei lori diritti dai regolari e dai cappellani di oratori, scuole e confraternite, sorte in gran parte nel secolo XVII.

I regolari vantavano il diritto di celebrare la messa in alcune circostanze nelle chiese parrocchiali: i cappellani pretendevano di poter celebrar la messa nei loro oratori prima della parrocchiale: si attribuivano il diritto di benedire le ceneri, le uova, le palme, ecc.; così pur quello di portare la stola ed aver la precedenza nei funerali della Confraternita, ecc.

Contro queste pretese reclamavano i parrochi. Su queste materie già il vescovo Giberti avea dato alcune prescrizioni: altre più precise avea dato il vescovo Sebastiano Pisani (zio) in un decreto dato il giorno 8 novembre 1658(5), ed ancor più precisa nel sinodo tenuto il giorno 3 settembre 1665(6): ma non si riuscì a stabilire la concordia.

A por fine alle controversie il doge di Venezia Domenico Contarini con atto  del 27 gennajo 1673 intimò al podestà ed al capitano di Verona, che, massime in materia di funerali (era il punto culminante) si osservasse il Rituale Veronese(7). Un qualche accomodamento si fece dal vescovo Sebastiano Pisani (nipote); il quale con atto del 22 aprile 1683, « col consenso delle parti» diede alcune norme determinate(8), Però su queste giurisdizioni parrochiali troviamo ancora altre liti nel secolo XVIII.

 

Di speciale importanza fu la controversia agitata tra la Congregazione del clero intrinseco ed i frati Minori Osservanti di S. Bernardino.

Pare che la controversia versasse intorno al diritto di stola in caso di sepoltura dei membri della Congregazione. Più che presso il vescovo, la questione fu agitata presso i rettori della città ed il doge di Venezia; il quale coi decreti 22 giugno 1672 e 21 gennajo 1673 ordinava che in materia di funerali fosse osservato anche dai regolari il Rituale Veronese(9): l’ordine era favorevole alla S. Congregazione, e fu comunicato ai venti conventi Francescani di Verona e della diocesi.

 

I monaci Benedettini di S. Zeno già al tempo della pubblicazione del Concilio di Trento, e forse anche prima, volevano che la loro abbazia e tutte le chiese da essa dipendenti fossero esenti dalla giurisdizione del vescovo di Verona (10).  Benche  la  S. Congregazione del Concilio nel 1579 abbia dichiarato non esistere tale esenzione, quei monaci continuarono a creare difficoltà ai nostri vescovi su questo punto.

Il più ardito fu Vincenzo Molin abbate dal 1665 al 1684. Questi, non solo attribuì a sè la giurisdizione di foro interno ed esterno, ma nel 1666 fece stampare una tabella di casi, dei quali riservava a se stesso l’assoluzione: pretendeva pure d’aver il diritto di conferire i benefici delle chiese abbaziali di trattare e definire le cause matrimoniali, e simili.

La controversia fu portata al Nunzio Pontificio a Venezia; il quale nel 1670, fissata la base che l’abbazia di S. Zeno era nella diocesi e della diocesi di Verona, diede una sentenza favorevole in alcuni punti al vescovo, in altri all’abate. Quest’ultimo fu poco soddisfatto di tale sentenza; cosicché il vescovo Sebastiano Pisani (nipote) pro bono pacis  credette bene venire ad una transazione, avente valore soltanto durante la vita di lui e dell’abbate Molin: transazione firmata il giorno 3 gennajo 1675, ed approvata poi a Venezia dal Consiglio in Pregadi(11).  La soluzione definitiva fu data a Roma nel 1713 da una Congregazione speciale nominata dal Papa Clemente XI: essa, attenendosi alle dottrine e norme del card. Prospero Lambertini, favorì in tutto i diritti del vescovo.

 

Almeno dal secolo XIV troviamo gravi discordie tra i vescovi di Verona e i canonici della cattedrale.

Questi, appoggiati ad un diploma del nostro vescovo Ratoldo dell’anno 813 e ad una sentenza del patriarca d’Aquileja Rodoaldo dell’anno 968 (12), pretendevano di essere esenti dalla giurisdizione del vescovo di Verona, ed anzi aver giurisdizioni sopra chiese e monasteri che essi dicevano indipendenti dal vescovo(13). I vescovi non voleano riconoscere tutte queste esenzioni, pure ammettendo che i canonici avessero alcuni privilegi. Di qui liti dal secolo XIV al secolo XVIII; nelle quali spesso i vescovi pro bono pacis si adattarono a transazioni. Così il vescovo Pietro Scaligero nel 1376 sottoscrisse ad una transazione, nella quale i canonici si professavano soggetti al patriarca d’Aquileja ed alla Santa Sede.

Il vescovo Giammatteo Giberti, avendo in mira il bene delle anime, si adattò egli pure ad una transazione nel 1530; benché Clemente VII in breve del 1527 l’avesse nominato « Legatus a latere » con giurisdizione anche super exemptos, e quindi anche sopra i canonici, fossero o non fossero esenti: la quale autorità gli fu poi rinnovata da Paolo III nel 1537(14).  Parrebbe che ogni dissidio dovesse poi cessare per le prescrizioni del Concilio di Trento relative alla giurisdizione dei vescovi: ma non fu così.

I canonici perseverarono nelle loro pretese con il vescovo Agostino Valier anche dopo che il pontefice Clemente VIII nel breve 11 aprile 1596 invocò contro di loro gli statuti tridentini, in forza dei quali « ab Episcopo Veronensi visitari, corrigi, et emendari valeant, super qui bus perpetuum  silentium imponimus »(15): cosicché il vescovo nell’anno seguente si adattò ad accettare una transazione, la quale, in seguito riformata, fu ratificata dal Pontefice il 22 maggio 1597. Così per evitare scandali maggiori vennero a transazioni anche i vescovi Marco Giustiniani nel 1634 (b) e 1635 e Sebastiano Pisani nel 1654(16).  Soltanto verso la metà del secolo XVIII cessarono le liti, quando la S. Sede, soppresso il patriarcato di Aquileja, sottomise intieramente il capitolo della nostra Cattedrale alla giurisdizione del Vescovo di Verona.

 

Altra causa di vertenze tra il vescovo ed i canonici fu la Scuola degli accoliti; la cui posizione giuridica era di fatto ambigua, dipendendo essa dal capitolo, e non potendo essere indipendente dal vescovo. Occasioni di tali vertenze furono varie. Ai tempi dei due vescovi Valier fu occasione il fatto che gli accoliti dimoravano generalmente nelle loro famiglie, ed inoltre facevano poco onore al loro ufficio: dopo lunghe contese Alberto Valier riuscì ad ottenere che vivessero vita comune in una casa vicina alla cattedrale.

Altra occasione fu la nomina del massaro, che i canonici volevano riservare a sè, senza che vi si ingerisse il vescovo: la vertenza fu portata a Venezia, dove il Nunzio Pontificio diede sentenza piuttosto favorevole ai canonici: però contro di essa reclamò il vescovo, e più tardi anche i canonici.

Altra occasione fu l’elezione degli accoliti, e più ancora la giurisdizione su di essi, massime nelle cause criminali, che, purtroppo, non erano rare. Un breve di Clemente X dato nel 1673 aggiustò in qualche modo la questione, ordinando che l’elezione degli accoliti si facesse alternativamente; quella del massaro di comune accordo tra il vescovo ed il capitolo; e così pure la soluzione delle cause civili: quanto alle cause criminali, se il delitto fu commesso dall’accolito nell’esercizio del suo ufficio entro la chiesa, la sentenza spetti al vescovo ed ai canonici; se fuori della chiesa, al vescovo.(17).

 

Omettiamo altre controversie, che per la esilità dei loro motivi si potrebbero dire pettegolezzi: quanto agli abusi accenniamo i tre più gravi.

 

Un abuso assai dannoso per il bene delle anime si introdusse lento lento sulla fine del secolo XVI e sui primordii del seguente nella città e più ancora nella diocesi: la mancanza di residenza dei parrochi, non ostanti le prescrizioni precettive e coercitive date dal vescovo Giberti(18). I nostri vescovi, che su questo punto erano veri modelli ai parrochi, insistettero reiteratamente su questo dovere della residenza; ma spesso inutilmente.

Il vescovo Marco Giustiniani nel suo decreto 28 luglio 1633 inveì fortemente contro tale abuso. Il vescovo Sebastiano Pisani nel sinodo tenuto il giorno 7 aprile 1655, non solo inculcò l’osservanza delle prescrizioni precedenti, ma vi aggiunse severe sanzioni: per la prima mancanza non giustificata impone una multa di troni due per ciascun giorno; per la seconda una multa di troni quattro, per la terza, oltre la multa precedente, aggiunse la sospensione a divinis ed  altre pene ad arbitrio del vescovo(19): alcune concessioni, se non identiche, erano in sostanza simili alle attuali. Atti posteriori dei nostri vescovi lasciano travedere che quelle sanzioni fruttarono ben poco.

 

Alcuni decreti emanati dai nostri vescovi e dai magistrati della Repubblica nella seconda metà del secolo XVII indicano che s’erano introdotti gravissimi abusi riguardo ai matrimonii;  cosicchè molti di essi venivano celebrati clandestinamente, contro gli statuti dei sacri canoni, e spesso con violenze e frodi.

A torre questi abusi il vescovo Sebastiano Pisani (nipote) con lettera del 3 settembre 1675 invocò l’intervento del doge di Venezia: da Venezia fu comunicata ai rettori della città di Verona la deliberazione già presa dal Senato il28 febbrajo 1662: il podestà Angelo Diedo nel giorno 5 novembre 1675 fece pubblicare a suono di trombe un proclama contro tali abusi; e nell’istesso giorno il vescovo ai parrochi, rettori e curati intimò severamente che dovessero adoperarsi per eliminarli, minacciando loro che in caso diverso li avrebbe « criminalmente processati e severamente castigati, quali complici, fautori e fomentatori di tali dannati matrimoni »(20).

 

La forma, con cui il vescovo Sebastiano Pisani nel suo sinodo del 7 aprile 1655 tratta de vita et honestate clericorum, lascia travedere che nel nostro clero era penetrata una gran dose di leggerezza, massime nel vestire.  Con troppa insistenza egli vieta le «lacernas manicatas vulgo pituite, le vesti alla romana, alla spagnola, le scarpe e pantofole alla francese, dette anche cerati: per il cordone del cappello proibisce le rosette o capoli, galani o nastri: proibisce i manicini.  « Cum arma clericorum sint orationes et lacrimae », proibisce loro di portar armi,  particolarmente « sclopetum vulgo dictum azzalino ». Proibisce l’uso dell’anello a quelli, che non ne hanno il diritto, ecc. ecc.(21).

 

Omettiamo altri abusi di minore importanza: siamo nel 1600. (c)

 

 

NOTE

 

 

1 – Il Decreto presso BIANCOLINI, Chiese di Verona, IV, pag. 582 seg.

 

2  – M. GIBERTI, Opera. Constit. Tit. IV, Cap. 25, pag. 65 (Veronae 1733).

 

3  – SEBASTIANUS  PISANI, Constitutiones et Decreta … , Num. 12, pag. 6 (Veronae 1675).

 

4 – Presso BIANCOLINI, Op. cit., V.P. II, pag. 110.

 

5 – Presso Rituale Ecclesiae Veronensis. Appendix, pag. 172 (Ed. 2 Veronae 1756)

 

6 – SEB. PISANI, Constit. et Decreta, pag. 33; Rituale, pag. 173.

 

7 – Presso Rituale Eccl. Veron., App., pag. 194.

 

8 – Presso Rituale Eccl. Veron., App., pag. 195.

 

9 – Presso Rituale Ecclesiae Veron., App., pag. 190-195. IO BIANCOLINI, Chiese I, pag. 62.

 

11 – BIANCOLINI, Chiese I. pag. 66-70.

 

12 – L’autenticità di questi documenti è sostenuta nei libri Notizie spettanti al Capitolo di Verona, autore GIR. LOMBARDI (Roma 1752); FRANC. FLORIO, Dei privilegi ed esenzione … , (Roma 1754) e Nuova difesa (Roma 1755); Apologetiche ritlcssioni.; (Verona 1755). – La combatte l’anonimo De privilegiis et exemptione … , del quale deve essere autore il sac. PIETRO BALLERINI (Venetiis 1753].

 

13 – Una lunga lista di chiese presso LOMBARDI, Notizie … , pag. 46-5A.

 

14 – Ne abbiamo trattato nel nostro Giammatteo Giberti, P. II. Capo III (Edizione sec.).

 

15 – Presso BALLERINI, De privilegiis Doc. IV, pag. 79.

 

16 – LOMBARDI, Notizie, pag. 59; BALLERINI, De privilegiis, pag. 23, 40-47.

 

17 – SPAGNOLO, Le scuole accolitali, pag.  113-115.

 

18 – I. M. GIBERTI, Opera, Constit., Tit. II. Cap. 65;  Monitiones, Cap. II, 12; Edictum 4 jan. 1536, pago 234.

 

19 – SEB. PISANI, Constit; Cap. XII. Pag. 14, 15.

 

20 – Presso Rituale Ecclesiae Veron.  App. pag. 183-188.

 

21 – SEB. PISANI, Constit., Cap. II, pag. 9-11.

 

 

ANNOTAZIONI AGGIUNTE AL CAP. XIII (a cura di Angelo Orlandi)

 

 

a) Non ci si deve meravigliare del sorgere di controversie e discussioni, sempre possibili dove si danno interferenze di diritti e di competenze; è disdicevole, peraltro, il puntiglio con cui si affrontavano. Ma si sa che il punto d’onore era una « malattia del secolo XVII » … e forse non solo di quello.

 

b) A proposito delle controversie fra vescovo e canonici si senta cosa ne scriveva il podestà di Verona nel 1641. « Monsignor Marco Giustiniano, vescovo di quella città, prelato per la integrità della vita e la rettitudine di mente uno dei più esemplari del Dominio, regge la chiesa con gran zelo e assiduità. Il Capitolo dei canonici riconosce per suo superiore monsignor Patriarca di Aquileia e da questa diversità di capi io credo che provenga l’origine di quelle controversie, che per causa di giurisdizioni bene spesso nascono tra il Vescovo e quel Capitolo di canonici, quali però nelle funzioni ecclesiastiche comuni non mancano di riverenti et ossequiose dimostrationi verso di monsignor Giustiniano».  V. ISTITUTO DI STORIA ECONOMICA: UNIV.  DI TRIESTE, Relazioni dei Rettori veneti di Terraferma.  IX: Podestaria e Capitanato di Verona, Milano 1977, p. 377.

 

c) Dopo la peste del 1630 si nota una crisi nell’opera formativa dei sacerdoti: il Seminario era caduto in dissesto e nel 1633 era praticamente senza alunni, come afferma nella « Relatio » per la visita ad limina il vescovo Giustiniani. Egli nel 1642 pubblicò un editto circa la promozione agli ordini sacri, per ovviare alla troppa faciloneria in materia.

 

 

 

Fonte:  srs di Giovanni Battista Pighi, da CENNI STORICI SULLA CHIESA VERONESE, volume II.

 

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