Mar 03 2019

COME SI DOVEVA LAVORARE PER MORIRE A MARGHERA (1917-2017)

 

 

Oggi l’ambientalismo è un argomento che coinvolge tutti. Le manifestazioni di inciviltà sono all’ordine del giorno: dalla scoperta di discariche abusive di rifiuti tossici alla discarica urbana lungo le strade con tutto ciò che riempiva cantine e soffitte.

Tra tutti quelli che parlano di salvaguardia dell’ambiente quanti sono quelli che conoscono i disastri che l’uomo ha fatto progettando gli insediamenti industriali, come quelli di Marghera, con lo sconvolgimento di un territorio delicato a cavallo tra laguna e terraferma, solo per il potere e per arricchimento in nome del progresso.

E’ vero che, alla fine del 1800, il futuro economico di Venezia si trovava ad un bivio. O rimanere in laguna e morire per mancanza di spazi e soccombere all’incalzante sviluppo tecnologico/industriale che avveniva nel nord Europa abbinato al tramonto degli scambi con il Medio Oriente, oppure lasciare la laguna per tentare la strada della terraferma (sarebbe stata la prima volta negli oltre mille anni della sua storia che Venezia usciva dall’isolamento garantito dall’acqua).

Senza entrare nel merito delle origini delle società finanziarie e delle componenti politiche che avviarono il processo di insediamento e di sviluppo, mi permetto raccontare quello che successe sulla base delle memorie familiari, delle cronache del tempo e delle notizie trovate in occasione del centenario della sua fondazione. Diventa fondamentale non perdere le memorie sulle condizioni di lavoro a cavallo delle due guerre mondiali.

 

Alla MONTECATINIFERTILIZZANTI  l’operazione di riempire i sacchi del concime veniva dato in appalto a ditte esterne essendo considerata pericolosa per i dipendenti.

 

Alla SAVA i forni che producevano alluminio e allumina erano disposti nei capannoni su quattro file, in un ambiente in cui le temperature raggiungevano i 70-80°C, essendo il punto di fusione dell’alluminio a 1200 gradi. Gli addetti non avevano molte protezioni, la loro tutela era affidata al caso e all’ingegno personale.

Gli operai lavoravano direttamente sopra il forno essendo costretti, per prelevare il metallo, a rompere con delle barre la superficie solida che si formava. Questo procedimento provocava pericolosi schizzi di alluminio incandescente. I martelli pneumatici, al posto delle barre per spezzare la superficie solida, furono introdotti solo nel 1955. Comunque il calore e il carico di lavoro provocavano un elevato numero d’infortuni e malattie come pleuriti, bronchiti, polmoniti, eczemi e reumatismi.

 

Alla VETROCOKEAZOTATI il lavoro era particolarmente pericoloso a causa dell’uso del gas ad alta pressione in alcuni reparti; qui gli operai lamentavano continui dolori.

 

Le peggiori condizioni ambientali erano quelle del PETROLCHIMICOdove il lavoro veniva svolto senza alcuna protezione, in ambienti poco aerati, angusti, pieni di fumo e con temperature molto alte. Sempre con il rischio di fughe di gas. Mercurio e cloro allo stato gassoso venivano respirati non essendo previste maschere antigas o cappe aspiranti. Molti lavoratori soffrivano di eruzioni cutanee, dovevano operare in mezzo ai campi elettro-magnetici, inoltre il fumo dall’inconfondibile cattivo odore e dal colorito giallognolo che usciva dai camini provocava eritemi ed eruzioni cutanee anche a distanza di anni.

 

Il CVM (cloruro di vinile monomero), una delle produzioni principali del PETROLCHIMICO, è un gas incolore e dolciastro, i cui danni all’organismo andavano dal calo del desiderio sessuale al tumore al fegato, l’angiosarcoma epatico; se respirato a concentrazioni alte provocava alterazione dello stato psicofisico, tanto che esisteva, nel gergo operaio, la “sbronza” da Cvm. Ma la voce che fosse usato negli ospedali, per anestetizzare i pazienti, rassicurava i lavoratori. Il Cvm aveva anche la proprietà di raffreddare e d’estate non era raro che fosse utilizzato per tenere al fresco angurie e lattine di birra.

Negli anni ’50-‘60 non si parlava di concentrazioni limite di gas e vapori nel luogo di lavoro, e gli operai dovevano svolgere mansioni a diretto contatto con il Cvm/Pvc nelle diverse fasi del ciclo produttivo: nei reparti di produzione del Cvme del suo stoccaggio; nei reparti di polimerizzazione del Cvme di essiccamento del Pvc; nella trasformazione del Pvc; nello stoccaggio, insaccamento e spedizione del Pvc.

Le condizioni del reparto di polimerizzazione in emulsione, il Cv6, dove il cloruro di vinile veniva trasformato in Pvc, (la plastica più comune) erano estremamente dure. Gli operai avevano pure il compito di eseguire la pulizia interna delle autoclavi e quando gli addetti vi si calavano dicevano che “andavano nel ventre perfido di queste balene per grattargli la pancia”.

Lavoravano per ore a temperature elevate tra polvere e gas, armati di mazza e scalpello per scrostarne le pareti, sospesi come burattini alle funi di sicurezza. Quando uscivano dalle autoclavi o dai reparti erano ricoperti di una finissima polvere bianca che provocava irritazioni agli occhi e alle vie respiratorie.

Negli anni sessanta nei reparti dove veniva lavorato il Cvminiziò a diffondersi il “morbo di Reynaud”(sclerosi precoce detta delle ‘mani bianche’, che rende fredde le estremità delle articolazioni).

Usando un linguaggio tecnico, quella petrolchimica era un’industria ad “alta intensità di capitale” e a “bassa intensità di lavoro” in quanto a fronte di elevati investimenti per avviarla serviva un ridotto numero di personale rispetto ad altre aziende meccaniche o tessili.

I livelli di concentrazione di Cvm negli anni ’80 calavano, non certo per la volontà del nuovo management attraverso la manutenzione o l’ammodernamento degli impianti ma per la riduzione del personale o per il ricorso alla cassa integrazione.

Fin dai primi anni settanta le cronache locali raccontavano di ricorrenti esplosioni di serbatoi adibiti allo stoccaggio di Pvc, fughe ed emissioni di Cvm, ammoniaca, fosgene (prodotto asfissiante altamente pericoloso) ed altre sostanze chimiche ma col passare del tempo lo stato degli impianti e dei luoghi di lavoro peggiorava giorno dopo giorno per la mancanza di manutenzione.

Paradossalmente, in fabbrica tutto continuava come prima, mentre miglioravano le conoscenze sulle patologie causate da Cvm/Pvc.  Il crollo degli standard di sicurezza e ambientali, rispetto alle nuove tecnologie che arrivavano sul mercato, fu provocato dalle scelte di non fare manutenzioni.

 

SMALTIMENTO DEI RIFIUTI CHIMICILo smaltimento dei rifiuti chimici, da sempre bruciati nelle centrali termoelettriche del petrolchimico e poi scaricati nelle aree interne o nelle discariche in terraferma, assunse aspetti drammatici anche perché i rifiuti liquidi, circa 20.000 tonnellate all’anno, venivano direttamente riversati in laguna.

Il dossier “Morte a Venezia”, pubblicato nel 1995 da Greenpeace e realizzato con la collaborazione con l’Ist. Sup. di Sanità, denunciò per la prima volta il rischio diossina nella laguna di Venezia, la cui concentrazione nel canale vicino al petrolchimico era doppia rispetto quella del fiume Reno (prov.BO-FE).

 

CLIMA DI LAVOROFino al 1925, anno in cui vennero soppresse a seguito del patto Vidoni, le Commissioni interne rappresentavano gli operai, un organismo unitario elettivo nato nei primi anni del Novecento. Dal 1943 il loro ruolo fu quello di vigilare sul rispetto dei contratti di lavoro e sulla salvaguardia dei diritti acquisiti, ma senza alcun potere nelle contrattazioni. Nel 1945 arrivano le prime rivendicazioni, con uno sciopero generale che bloccò quasi tutte le aziende di Marghera, ed ebbero come principale obiettivo l’aumento salariale e l’adeguamento al costo della vita.

Per tutti gli anni Cinquanta, al Petrolchimico vigeva un clima di intimidazione volto a limitare ogni forma di rivendicazione e di lotta e le libertà sindacali erano assai ridotte. Testimoni raccontano che ex poliziotti ed ex guardie carcerarie, chiamati “capo bastone”, controllavano i reparti, oltre che il perimetro degli stabilimenti. L’azienda utilizzava modi un po’ particolari di vigilare sulla condotta dei dipendenti: ai lavoratori zelanti toccavano “omaggi” che il sindacato della Cgil definiva “premi antisciopero”; a coloro che invece avevano lavorato in modo “inferiore al normale” venivano inviate lettere di ammonizione.

 

Nel marzo 1950 ai CANTIERI BREDA si aprì una lunga e drammatica fase di scioperi e occupazioni per protestare contro i licenziamenti realizzati dall’azienda a seguito della crisi dovuta alla fine delle commesse belliche. In quell’occasione la polizia sparò sui lavoratori, avvenimento raccontato con ricchezza di particolari da <Il Gazzettino> e da <L’Unità>.

 

All’ILVA, nel 1953 ad esempio, alcuni operai vennero licenziati perché avevano fatto entrare dei rappresentanti sindacali, ai quali, tra l’altro, era vietato affiggere volantini o manifesti negli ambienti di lavoro o circolare liberamente tra i reparti. Inoltre gli attivisti sindacali erano emarginati e isolati all’interno della fabbrica e in alcune situazioni potevano essere licenziati.

Nel complesso gli anni Cinquanta vanno considerati come anni di debolezza delle lotte operaie e del movimento sindacale; i risultati ottenuti non sono stati di grande rilievo, sia sotto il profilo della difesa dell’occupazione (i licenziamenti furono particolarmente pesanti a causa delle ristrutturazioni tecnologiche) sia del miglioramento delle condizioni lavorative (orari, salari).

 

ORARI LAVOROalla VETROCOKE. Per tutti gli anni ‘50 si lavorò 42 ore settimanali (con 4 ore di recupero), con un riposo settimanale di 24 h. Il meccanismo dei turni fu elaborato in modo che il giorno di riposo cadesse solo ogni due mesi lavorativi.

 

PROTEZIONI USATE, peggio che in miniera.Gli operai usavano per controllare le fughe di gas delle gabbiette contenenti dei cardellini e se questi morivano era il segnale che dovevano scappare all’aperto. Il calore prodotto dai forni della SAVA, dove si produceva l’alluminio, era tale da obbligare gli operai a spalmarsi sul viso la vaselina per proteggersi dalle ustioni.

 

 

Fonte da Facebook di GIANNI CECCHINATO·VENERDÌ 1 MARZO 2019

 

 

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