Apr 06 2016

STORIA DELLA CHIESA: (8) PERIODO POST-CALCEDONESE. LA CHIESA DI FRONTE AI BARBARI

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Giustiniano con la sua corte in un mosaico della chiesa ravennate di S. Vitale in Classe (consacrata nel 547 o 548)

 

TENTATIVI DI UNIONE CON I MONOFISITI

 

Con l’ascesa al trono imperiale di Giustiniano, l’Impero bizantino vide nuovi tempi di gloria. Di fatto il nuovo imperatore si ripropose di restaurare l’Impero romano mondiale su base dell’unità cristiana. Intraprese quindi una serie di campagne belliche prima contro i Vandali del nord Africa e poi contro gli Ostrogoti d’Italia (1)

(1 Fu un periodo assai funesto per tutta l’Italia, contrassegnato da una ventennale belligeranza attiva, tra l’esercito ostrogoto e l’esercito bizantino. Fu denominata “guerra gotica” (535-553). In questi vent’anni la popolazione romana italica subì quasi un dimezzamento causato dalle carestie e dalle epidemie che la guerra produceva. È sempre in questo tempo che Roma, per ben quattro volte ceduta e rioccupata dai Goti, perse in gran parte il suo patrimonio basilicale e statuario. È da questo periodo che la grande capitale dell’Impero romano si ridurrà progressivamente ad un paese che nell’altro medioevo toccherà i suoi minimi storici di quindici-ventimila abitanti, quasi tutti concentrati in quello che era stato il grande quartiere di Campo Marzio, dove appunto era ancora attivo l’unico acquedotto che lì sboccava (nella futura fontana di Trevi) in quanto sotterraneo e per questo risparmiato dalle distruzioni da parte dei Goti. L’Italia terribilmente depressa a causa di questo conflitto inizierà risollevarsi solo nel periodo carolingio (IX sec.). La sua crescita giungerà al suo apice al tempo della rinascita comunale nel centro nord (XII sec.) e nel sud con la fondazione del regno normanno, prima, e svevo, poi.)

e i Visigoti della provincia Betica in Spagna. Riportò tutti i territori occupati da questi barbari (orami sedentarizzati e grossomodo romanizzati) all’obbedienza imperiale.

 

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L’impero sotto  Giustiniano    

 

Ma condotte in porto le sue campagne di riconquista, Giustiniano si trovò di frante una Cristianità divisa: in nord Africa dopo un secolo di occupazione vandalica ricomparvero i donatisti i quali erano causa di numerosi grattacapi alle autorità ecclesiastiche e civili. Per il resto rimanevano invece tutte le difficoltà emerso nel periodo successivo a Calcedonia: l’attrito forte con i monofisiti che imperversavano in buona parte dell’Oriente, dall’Egitto alla Siria.

 

Appare indiscutibile l’attività (architettonica [p. es. l’erezione di Santa Sofia e di altre basiliche in tutto l’Impero] e legislativa [codificazione e ordinamento definitivo del Corpus Iuris Civilis]) di Giustiniano in favore della Cristianità ed è impossibile non riconoscere quello che egli fece per la Chiesa nel suo impero.

Ma nonostante tale comportamento, che nasceva dalla comprensione di un’unione di fatto tra Chiesa e Stato subordinati entrambi al volere di Dio, egli alla fine dominava la Chiesa quasi completamente e l’assioma da lui coniato «Regis voluntas suprema lex» valeva anche per essa e per il papa, del quale l’imperatore riconobbe, certamente a livello teorico, il primato sulla Chiesa universale, ma poi nella pratica lo rese più di una volta inefficace. (2(2: Vedi sotto: la questione con papa Vigilio I († 556) costretto a firmare la condanna dei Tre Capitoli.)

 

Quindi si potrebbe considerare il periodo aureo del suo governo come l’epoca classica del cesaropapismo bizantino: quale sovrano teocratico e protettore dell’ortodossia Giustiniano si riteneva autorizzato e addirittura obbligato a determinare fin nei minimi particolari il dogma e la disciplina ecclesiastica, facendoli servire a scopi politici.

Vivamente interessato alle questioni dogmatiche, esercitò nei suoi proclami la parte di scrittore di cose teologiche e partecipò personalmente alle discussioni di argomento religioso. Però la sua ingerenza nelle controversie dogmatiche precipitò l’Impero in nuove lotte funeste e il programma che si era proposto di riconciliare i monofisiti con la Chiesa rimase insoluto.

 

Di fatto, l’imperatore sentendosi investito di un potere tale da poter ingerirsi delle cose ecclesiastiche, non ebbe scrupoli di sorta a tentare tutto il possibile per risolvere, anche mediante cogenti determinazioni, la questione dello scisma monofisita che si era sviluppata dopo la recuperata unità con la Chiesa di Roma mediante la soluzione dello scisma acaciano (vedi sopra: Libellus Hormisdae del 519).

 

Quindi, per cercare di riavvicinare i monofisiti fece un tentativo degno di nota: si dimostra antinestoriano e fa condannare i “Tre Capitoli” al Concilio di Costantinopolitano II (an. 553).

Con il titolo di “Tre Capitoli” si designavano gli scritti di coloro che erano ritenute le “tre teste” della concezione nestoriana, e quindi della scuola antiochena: le opere di Teodoro di Mopsuestia (3) (3: L’odierna Yakapinar, una contrada di quattro case una quindicina di chilometri distante da Nallihan, in Turchia.) († 428), maestro e amico di Nestorio; alcuni scritti di Teodoreto di Ciro († 457), ed una lettera del maggiore rappresentante della scuola antiochena-nestoriana in Persia, Ibas (o Iba o Hibas) vescovo di Edessa († 457), scritta ancora al tempo del suo presbiterato in difesa di Teodoro di Mopsuestia e contro gli Anatematismi di Cirillo di Alessandria, quest’ultimo.

 

Con la condanna dei Tre Capitoli pubblicata dal II concilio costantinopolitano Giustiniano intende porre la prima pietra per poter condannare indirettamente il concilio di Calcedonia togliendo di mezzo così quell’ostacolo che i monofisiti additavano in primis per il loro ricongiungimento alla Chiesa imperiale.

A questo scopo l’Imperatore costringerà papa Vigilio I a sottoscrivere il provvedimento conciliare, nonostante la sua aperta contrarietà all’atto. Ciò gli costò sette anni di domicilio coatto in Costantinopoli e un duro trattamento usato nei suoi confronti.

 

La condanna dei Tre Capitoli ebbe a sollevare molte opposizioni specialmente in ambito cattolico. Degno di nota è la contrarietà delle chiese dell’Africa Proconsolare che disapprovarono la sottoscrizione della condanna, sebbene coatta, da parte di Roma. Per es., il vescovo africano Facondo di Ermiane, contrario alla condanna, pubblicò la Difesa dei Tre Capitoli esponendo in modo circostanziato i motivi della sua contrarietà.

 

Di per sè i provvedimenti nei confronti dei Tre Capitoli non erano del tutto ingiustificati. Infatti quegli scritti, in parte falsificati, erano realmente di tendenza nestoriana poiché negavano valore al termine Theotokos e sembravano eccessivi nella difesa della duplice natura del Cristo, senza riuscire a spiegare, in maniera soddisfacente, come potessero coesistere nella stessa persona; per non dimenticare poi che Teodoro era stato il maestro di Nestorio. Ma allo stesso tempo, molti cattolici vedevano nella condanna dei Tre Capitoli una violazione del quarto concilio ecumenico, considerato con gli altri concili ecumenici precedenti una colonna dell’ortodossia.

Oltre a ciò, l’anatema esteso anche a una persona morta in pace con la Chiesa e ormai giudicata da Dio (Teodoro di Mopsuestia), ed esteso ad agli scritti di altre due, pure defunte, appariva loro come un atto eccedente la competenza umana. Inoltre in Occidente si credeva, sia pure erroneamente, che la lettera di Iba fosse stata formalmente approvata a Calcedonia.

 

Tutto ciò diede origine a quello scisma che sarà poi chiamato “tricapitolino” e al quale aderiranno sin dall’inizio i vescovi delle grandi province ecclesiastiche di Milano e di Aquileia (che diventerà patriarcato autonomo dal 568, in piena crisi tricapitolina, per evidenziare la sua indipendenza – autocefalia – sia da Roma che da Costantinopoli) (4).

(4: La chiesa di Aquileia si era elevata a patriarcato per sottolineare l’indipendenza gerarchica da Roma e Costantinopoli, ma nel 606, il patriarcato si divise in due, con un patriarca ad Aquileia (tricapitolino) e uno a Grado (cattolico). Questa divisione fu dovuta essenzialmente alla mutata situazione politica della zona: l’entroterra friulano, inclusa Aquileia, sotto la dominazione longobarda e tutto il litorale adriatico della Venetia maritima sotto l’influenza bizantina. Con la cessazione dello scisma dei Tre Capitoli fu definitivamente ricomposta l’unione nel 699 al concilio di Pavia con il ritorno di Aquileia nell’ortodossia cattolica, (la chiesa di Milano era già da tempo ritornata in comunione con Roma). Anche dopo la riconciliazione tra tricapitolini e cattolici, la diocesi di Aquileia continuava ad essere divisa, finché nel 731 venne stabilita la separazione canonica tra il Patriarcato di Aquileia (con suffraganee le diocesi del Friuli) e il Patriarcato di Grado (con suffraganee le diocesi del Ducato di Venezia), in seguito divenuto Patriarcato di Venezia e, nel 1105 de facto con il trasferimento della sede patriarcale e, nel 1451 de jure con l’istituzione del nuovo titolo).

 

Il monotelismo

 

La successiva evoluzione della crisi monofisita portò i successori di Giustiniano, Eraclio in particolare († 641), ad unire i monofisiti, di Egitto e Siria, alla Chiesa dell’Impero.

Un aiuto opportuno a questo scopo sembrava offrirlo il monoenergismo e il monotelismo.

La questione di fondo verteva infatti a definire se il Redentore possedesse una doppia energia (ἔνέργεια = modo di operare della volontà) e una doppia volontà (θέλημα = facoltà del volere), oppure una sola energia e una sola volontà.

 

Il dogma calcedonese dell’integrità delle due nature in Cristo richiedeva evidentemente una risposta affermativa nel primo senso. Tuttavia dal 619 il patriarca Sergio di Costantinopoli († 638) basandosi sull’unione ipostatica, riteneva di dover ammettere una sola energia divino-umana. Egli trovò un consenziente nel metropolita Ciro di Fasi (della Colchide, l’attuale Georgia, † 644), il quale, nominato dall’imperatore Eraclio, patriarca di Alessandria (631), con l’aiuto della formula monenergetica, riuscì di fatto a realizzare l’unione della corrente dei monofisiti moderati d’Egitto (severiani) con la Chiesa imperiale.

 

Nello stesso tempo la dottrina monotelita incontrava una decisa resistenza. Il dotto monaco palestinese Sofronio la condannò, giudicandola una rinnovazione del monofisismo, oppure dell’apollinarismo, e quando poco dopo divenne patriarca di Gerusalemme (634), nella lettera scritta in occasione della sua presa di possesso, espose ampiamente la dottrina ortodossa delle due energie. In seguito a questa opposizione il patriarca di Costantinopoli, Sergio, abbandonò l’espressione “una energia”, ma per il resto perseverò nel suo atteggiamento troppo favorevole ai monofisiti.

 

Dopo una parentesi di dubbio favore al monotelismo da parte di papa Onorio I (625-638), l’imperatore Eraclio scese in campo pubblicando l’ Ecthesis, documento composto da Sergio, dove veniva tralasciato il monoenergismo, ma in suo luogo veniva affermata decisamente la dottrina molto più pericolosa del monotelismo, che del resto era già stata insegnata dal patriarca monofisita Dioscoro di Alessandria. I vescovi orientali accettarono l’Ecthesis quasi all’unanimità. Al contrario in Occidente, in modo speciale a Roma, esso apparve ai successori di papa Onorio (Severino, Giovanni V, Teodoro I ) come gravemente nociva.

 

In questo contesto si ebbe la testimonianza martiriale di papa Martino I (649-653) che, oppostosi al successore di Eraclio, Costante II (641-668), con la convocazione di un concilio latino al Laterano nel 649, dichiarò che in Cristo c’erano due volontà naturali e due modi d’operare e colpì di scomunica gli autori della nuova eresia; in pratica: Sergio di Costantinopoli, morto già da dieci anni, Paolo di Costantinopoli, il nuovo patriarca, e Ciro di Fasi, l’ex partriarca di Alessandria, già passato a miglior vita nel 644.

L’imperatore indignato per la posizione del Papa, anche perché si era fatto consacrare senza la sua approvazione, fece ricorso alla forza. Martino fu prelevato a forza, tradotto a Costantinopoli (653), condannato per presunto “alto tradimento”, ingiuriato, picchiato ed in fine esiliato nel Chersoneso (in Crimea) dove nel 655 o nel 656 soccombette alle sofferenze patite.

Sorte simile toccò pure ad altri fedeli seguaci della dottrina ditelita in Oriente. Ad esempio al vecchio abate Massimo il Confesore , il più importante teologo greco del suo tempo, assieme ad altri suoi compagni di disavventura, dopo essere stato flagellato, gli fu strappata la lingua e recisa la mano destra, dopo di che vennero inviati in esilio nella Colchide, ove Massimo morì nel 662.

 

Morto tragicamente Costante II, gli successe il figlio Costantino IV Pogonato († 685), il quale intraprese un’altra strada: al fine di ristabilire l’unità della Chiesa decise di celebrare un concilio ecumenico. Di fatto a causa del fermento suscitato dalla questione telita di Cristo, si profilava il pericolo per l’Impero di perdere anche l’Italia (già in buona parte in mano ai Longobardi).

Il papa Agatone (678-681) aderì alla proposta dell’Imperatore e, dopo aver celebrato dei sinodi particolari in Occidente, inviò una lettera dogmatica sulla dottrina delle due naturali volontà di Cristo.

 

Il nuovo concilio di tutto l’Impero fu celebrato con 170 partecipanti tra il novembre del 680 e il settembre del 681 nel palazzo imperiale di Costantinopoli nella sala a cupola (trullos) da cui ricevette il nome di concilio Trullano. Si qualificò fin da principio come concilio ecumenico, il sesto. Il concilio anatemizzò e depose i sostenitori del monotelismo (i patriarchi Sergio, Ciro, Paolo ed altri rappresentanti) e tra di loro anche Onorio I, vescovo di Roma, che a suo tempo aveva assecondato, sebbene genericamente, Sergio di Costantinopoli, confermandone le empie dottrine. Tutte le opere di costoro avrebbero dovuto essere date alle fiamme in quanto nocive alle anime.

Il simbolo redatto dal concilio era sostanzialmente quello di Calcedonia, con l’aggiunta seguente:

 

«Noi professiamo secondo la dottrina dei santi Padri due volontà naturali e due modi naturali, indivisi e immutati, inseparati e non mescolati, due volontà diverse, però non nel senso che l’una sia in opposizione all’altra, ma nel senso che la volontà umana segue e si subordina a quella divina».

 

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San Massimo il Confessore

 

OPPOSIZIONE PAGANA E POLITICA RELIGIOSA STATALE

 

Il riconoscimento del cristianesimo come religio licita sotto l’imperatore Costantino non eliminò per nulla i culti pagani, anche se il corso della politica religiosa si evolvette sensibilmente a vantaggio dei credenti. Alla legislazione favorevole per i cristiani, seguirono in breve tempo misure contro il paganesimo, le quali cancellarono sempre più l’impressione di una neutralità religiosa quale veniva espressa nel discorso della «divinità somma». I seguaci dei culti antichi, che non si trovavano solo nei collegi sacerdotali pagani e in circoli aristocratici, reagirono turbati.

Il paganesimo visse in seguito ancora a lungo in privati esercizi di culto, nella magia e nell’arte divinatoria, anche se i grandi templi si svuotavano. Solo sotto i figli di Costantino, nel 341, fu emanata una proibizione di sacrifici pagani, e più tardi venne ordinata la chiusura dei templi.

Cristiani fanatici distrussero con le proprie mani luoghi di culto pagani; l’intolleranza che i credenti avevano sperimentato personalmente per secoli ora si ritorceva sempre più violenta contro i seguaci della religione antica.

 

Autoaffermazione dei circoli pagani

 

Il trasferimento della residenza imperiale a Bisanzio (Costantinopoli), dove si era mirato a creare l’immagine di una città cristiana, ridiede ai circoli pagani dell’antica Roma libertà di movimento. L’erezione di un arco di trionfo (riciclato) in onore dell’imperatore Costantino nel 315, nella scelta delle figurazioni e nell’epigrafe, esprimeva sulla vittoria al ponte Milvio la valutazione tradizionale del senato. Proprio nei circoli senatoriali e nella categoria dei funzionari statali continuava ad affermarsi il conservatorismo religioso, e il sovrano, anche se incline al cristianesimo, come pontifex maximus rimaneva come sempre obbligato a sostenerne i culti. Un’applicazione liberale delle leggi rendeva inoltre possibile all’alta amministrazione di assicurare uno spazio per la religione degli dèi.

Nel quadro del sistema tradizionale aumentò il contrasto cristiano-pagano, e più di una volta ambizioni politiche vennero fatte passare come rinnovazione degli antichi culti, così per esempio sotto l’usurpatore Magnenzio († 353).

Allorché nel 357 l’imperatore Costanzo II visitò Roma, fece allontanare dalla curia l’altare della Vittoria, ma “cedette” tuttavia al fascino dei culti nazionali e contribuì al loro rinnovamento con la concessione di favori. Egli avrebbe contemplato quegli edifici, almeno secondo Simmaco (Rel. III,7), «con sguardo sereno», ammirandone la bellezza e la grandiosità (cfr. quanto narrato da Amiano Marcellino, Le Storie, lib. XVI,10,13), ma ormai – ai tempi di Costanzo II – i giochi erano fatti, permettendo evidentemente all’Augusto di distinguere la grandiosità degli edifici dai culti che vi erano praticati.

Comunque il mondo pagano poi trovò il suo sostegno in Vitrasio Orfito, prefetto della città di Roma in quegli anni, il quale, appartenendo a più collegi sacerdotali, ancora nel 357 inaugurò nell’antica capitale un tempio di Apollo, l’ultimo.

 

Restaurazione pagana sotto l’imperatore Giuliano

 

Un vero e proprio trattamento preferenziale del paganesimo ebbe inizio con la salita al potere di Giuliano nel 361. L’omicida crudeltà che macchia la figura di Costantino il Grande, era stata ereditata dai suoi tre figli. Spinti dalla paura dei concorrenti, come il loro padre, si sbarazzarono di tutti i loro parenti maschili eccettuati due giovanissimi cugini, Gallo e suo fratello Giuliano.

Costanzo, diventato sovrano assoluto, fece uccidere anche Gallo che egli stesso in un primo tempo aveva creato Cesare, mentre Giuliano, grazie alle preghiere dell’imperatrice, fu risparmiato e continuò la sua attività nel servizio monastico-ecclesiastico al quale era stato avviato.

È spiegabile che la professione impostagli gli rendesse antipatica, anzi odiosa la religione a questa connessa, quella religione che professava anche l’uccisore di suo padre e dei suoi fratelli e viceversa la civiltà pagana da lui oppressa dovette sembrargli più simpatica. Anche le mene dei vescovi di corte ariani, come in generale le divergenze dei cristiani, non fecero alcuna buona impressione su di lui.

Divenuto scolaro di filosofi e retori pagani (tra cui Libanio), abbracciò interiormente la religione misterica, abiurando così il cristianesimo all’età di 22 anni. Il suo temperamento ascetico di fondo lo portava a disprezzare non solo ogni pompa esterna, innanzitutto quella del cerimoniale di corte, ma anche le comodità personali sino alla trascuratezza ripugnante di ogni cura del corpo (egli stesso se ne ebbe a vantare nel Misopogon), preservandolo anche da ogni dissolutezza sessuale.

 

Nominato Cesare delle Gallie, lì, egli si distinse talmente che le sue truppe lo acclamarono Augusto. La lotta contro l’odiato Costanzo fu pertanto inevitabile. Allorché Costanzo II prima di un incombente scontro armato con suo nipote morì, Giuliano, l’ultimo erede della famiglia imperiale costantiniana, assunse il potere inaugurando una programmata, anche se breve, restaurazione pagana.

Pervaso di ascetica severità, egli “ripulì” la corte di tutte le presenze cristiane (ariane). Abolita ogni discriminazione, provvide all’uguale trattamento di tutti, cristiani e pagani.

Con una serie di scritti fu annunciato il suo programma di governo, di tipo religioso-neoplatonico, che, imitando le forme di organizzazione della Chiesa, si risolveva in una riforma del paganesimo come religione di Stato.

Persuaso che la colpa della decadenza dell’Impero fosse del cristianesimo, espose i credenti alla concorrenza di un sincretismo universale. La ricostruzione del tempio di Gerusalemme corrispondeva a questa intenzione. Nel suo libro Contro i Galilei riprese contro i cristiani l’accusa di apostasia dalla fede giudaica, arricchendo la polemica tradizionale con esperienze proprie.

Con la legge scolastica del 362, l’imperatore cercò di far regredire un fenomeno decisivo, vale a dire l’incontro del vangelo con la filosofia, in quanto faceva dipendere la nomina a maestro dal riconoscimento della religione ellenistica.

Con questa misura, che orientava la scuola alla religione degli dèi, il cristianesimo doveva restare escluso per principio dalla paideia classica e venire squalificato dal punto di vista della ragione. In effetti la Chiesa aveva rinunciato all’organizzazione di un sistema scolastico proprio diviso in grammatica e retorica. Maestri cristiani potevano sottrarsi al conflitto tra fede e miti pagani se facevano leva su elementi formali o spiegazioni allegoriche, una via che ora veniva loro preclusa.

Il filosofo Mario Vittorino († 365 c.) a Roma, come pure il retore Proairesio ad Atene († 367/68) rinunciarono volontariamente alla loro cattedra. I tentativi del presbitero Apollinare e di suo figlio del medesimo nome († 390 ca.) di trasfondere i testi biblici in un poema in esametri non ebbero successo, anche perché la lotta per la cultura di Giuliano l’Apostata, discussa anche presso l’opinione pubblica pagana, finì rapidamente con la sua morte (363) nella campagna contro i persiani.

 

La contesa intorno all’altare della Vittoria

 

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La vittoria alata del Campidoglio di Brescia

 

Il fallimento della politica religiosa di Giuliano non impedì che l’opposizione pagana continuasse ad affermarsi. Da Antiochia il famoso sofista Libanio († 393) elevò la sua voce contro l’espropriazione statale o la tumultuaria distruzione dei templi, e il retore Eunapio di Sardi († 420 c.) esaltò la resistenza contro i cristiani rappresentata da portavoce che si erano ritirati in un misticismo dalle tinte neoplatoniche.

 

Ad una discussione persino commovente aveva portato in Roma la lite intorno all’altare della Vittoria, che l’imperatore Graziano, come custode «della vera dottrina», aveva fatto riallontanare, e questa volta definitivamente, dalla curia del foro romano (380). Una deputazione guidata dal senatore Simmaco († 402), la quale pregava che questo provvedimento venisse ritirato, non fu nemmeno ammessa alla corte di Milano; solo due anni più tardi una legazione ebbe accesso al giovane regnante Valentiniano.

 

Con parole di supplica l’avvocato romano del paganesimo perorò la sua causa ricordando che al culto della dea Vittoria Roma doveva la sua potenza, insistette per il ripristino degli antichi diritti e privilegi, prospettando la via religiosa in una dimensione universale.

 

«Che importanza ha la dottrina secondo la quale ognuno cerca la verità? – domandò Simmaco –. Non si può arrivare per una sola via ad un così grande mistero» (SIMMACO, Relatio III, 10).

 

Il consiglio dell’Imperatore non poteva tanto facilmente sottrarsi all’impressione di queste parole; ma il vescovo milanese Ambrogio si oppose in nome del vero Dio contro qualunque cedimento ed impedì così una restaurazione degli antichi culti colorata di nazionalismo romano.

 

Il cristianesimo come religione di Stato

 

A dispetto delle oscillazioni della politica religiosa imperiale, la via del cristianesimo nel IV secolo condusse dalla condizione di parità di diritti al primato di “religione di Stato”.

Il favoreggiamento di gruppi ariani da parte di imperatori come Costanzo o Valente aveva certo da tempo reso i cristiani consapevoli della discutibilità di una protezione politica, ma proprio la controversia con l’opposizione pagana avveniva necessariamente per motivi di diritto all’interno dell’ordine statale.

Il carattere pubblico della religione romana imponeva ai credenti cristiani non solo la loro “collocazione” entro questo quadro, ma anche l’integrazione nell’antico Stato.

Allorché l’imperatore Graziano nel 379 depose sia la carica che il titolo di pontifex maximus, l’opinione pubblica non poté non vedere limpidamente la rinuncia del sovrano alla sua tradizionale responsabilità per il culto degli dèi.

Con questo naturalmente non venne imboccata la via della neutralità politico-religiosa, perché nonostante gli attacchi dei circoli pagani si profilava visibilmente il pieno inserimento del cristianesimo nello Stato.

 

Con la data del 27 febbraio 380 l’imperatore Teodosio emanò da Tessalonica un “editto di fede” diretto alla popolazione di Costantinopoli, ma riguardante tutti i sudditi dell’Impero. Esso incomincia con le parole seguenti:

 

«Tutti i popoli (cunctos populos) governati a norma della nostra clemenza debbono per nostra volontà perseverare nella religione che il divino apostolo Pietro ha trasmesso ai romani, come la religione da lui predicata dichiara fino ad oggi. Essa viene seguita notoriamente dal pontefice Damaso e da Petros, vescovo di Alessandria, un uomo di santità apostolica; il che vuol dire che noi, secondo l’ordine apostolico e l’insegnamento evangelico, crediamo ad una divinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo in uguale maestà e intima trinità. Noi ordiniamo che tutti coloro che osservano questa legge conservino il nome di cristiani cattolici, mentre gli altri, che a nostro giudizio sono pazzi e dementi, si addossano la vergogna di una dottrina eretica e i loro conventicoli non ricevono il nome di chiesa; essi debbono intanto essere colpiti dal giudizio divino, ma poi anche dalla pena che da noi sarà notificata secondo l’ispirazione da noi ricevuta dal cielo» (Cod. Theodos., XVI 1,2).

 

Questo editto di Teodosio prescrisse la fede nicena come legge; qualunque trasgressione contro la sua santità doveva essere punita come sacrilegio. Ben presto gli eretici ebbero a sentire gli effetti di questo procedimento. La tendenza all’universale legalizzazione portò a proibizioni di sacrifici pagani e di visita ai templi degli dèi.

Con la breve ascesa al potere dell’antimperatore Eugenio, che di nuovo puntò sulle forze ancora vegete del paganesimo, il conflitto raggiunse il culmine. La vittoria di Teodosio sul fiume Frigidus (l’attuale Vipacco, affluente dell’Isonzo) nell’autunno 394 assicurò a questi il potere, ed egli diede subito inizio allo scioglimento dell’opposizione pagana.

 

L’Editto della religione del 380 fece passare il cristianesimo nel rango di una “religione di Stato”.

 

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Curia Iulia, sede del Senato romano e ultima roccaforte del paganesimo in Italia.

 

Ciò che era cominciato sotto l’imperatore Costantino con il riconoscimento di religio licita e si era acuito in una progressiva integrazione tra Chiesa e Stato, riceveva ora la sua sanzione generale nell’atto legislativo di Teodosio.

Al posto dei culti pagani avanzava ora, certo con delle riserve, il cristianesimo nel ruolo di religione di Stato e si formava così sul modello tradizionale quell’unità di Chiesa e Impero (oserei dire “identificazione”: l’Impero diveniva in ambito politico un’estensione della Chiesa), che, nonostante tutti i conflitti, rimase stabile per secoli.

Come garanzia del successo politico, i sovrani promossero ora il cristianesimo, che di riscontro si presentava allo Stato come fattore stabilizzante. Tuttavia non era solo la comunione di interessi a dominare la consapevolezza clerico-imperiale, ma anche il principio dell’interazione. «Salvezza sicura esiste solo se ognuno onora sinceramente il vero Dio, che è il Dio dei cristiani, il quale regge ogni cosa», così Ambrogio concentrava il principio della salvezza religiosa nel Dio biblico. (AMBROGIO, Epistola 72,1).

 

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Interno della Cauria Iulia.   Si salvò  dalla distruzione per la sua conversione in chiesa, titolata a S.Adriano

 

Magnifiche basiliche sorsero come luoghi di adorazione di Dio. Al clero vennero concessi privilegi. Decisioni ecclesiastiche venivano sanzionate dal diritto statale e così si presentavano agli occhi del pubblico i christiana tempora. In connessione con le correnti umanitarie della filosofia antica non si invitavano solo i singoli alla realizzazione dell’etica cristiana, ma si cercò anche di eliminare i mali della società.

L’attività caritativa, accompagnata spesso dalla critica alla ricchezza, divenne una istituzione fissa, iniziative alleviarono la sorte degli schiavi, la possibilità di controllo da parte del clero pose un limite al brutale funzionamento delle prigioni, e i giochi gladiatori con le loro crudeltà persero l’antica attrazione.

A motivo della lealtà, si favorirono sempre più nell’esercito i cristiani che prima, per ragioni umanitarie e religiose insieme, rifiutavano generalmente il mestiere della armi. Investito di responsabilità politiche, l’Impero certo non si poteva più difendere e governare sul modello di Mosè orante (Es. 17,10-12); gli avvenimenti del tempo imponevano invece ai rappresentanti del potere statale il dovere di agire.

 

Anche se con cattiva coscienza, gli uomini di Chiesa tolleravano o persino propugnavano costrizione e intolleranza.

Contro l’esecuzione a Treviri di Priscilliano (il primo eretico condannato a morte; anno 385), quasi non si fece sentire una voce di opposizione; da tutte le parti fu salutata favorevolmente la legislazione statale avversa ai pagani e agli eretici.

 

Allorché estremisti cristiani distrussero la sinagoga di Callinico e l’imperatore Teodosio impose alla comunità locale la riparazione dei danni, lo stesso Ambrogio gli rifiutò la partecipazione al culto divino, anche a causa del fatto che aveva sterminato gli spettatori del locale teatro per l’uccisione di un ufficiale a Tessalonica.

L’incontro tra Chiesa e Stato romano, che nel corso del IV secolo più di una volta registrò proteste per motivi di fede, non si adattava facilmente ad una soluzione sul modello di quella sperimentata al tempo dell’antichità pagana.

 

Con la politica religiosa dell’imperatore Teodosio, l’integrazione del cristianesimo nell’Impero romano raggiunse il suo punto culminante. Nel contempo si raffinò la coscienza della discutibilità di una interdipendenza tra Chiesa e Stato, precisamente per le riserve poste dalla fede: avvocati del paganesimo potevano come sempre alzare la loro voce e non solo il celebre retore Libanio con la sua difesa Pro templis.

 

Quando però ad Alessandria la prima donna docente, di nome Ipazia († 415), fu linciata dai cristiani, si trattò di uno spaventoso fraintendimento del vangelo.

Locali a libera disposizione dell’antico paganesimo, come la scuola di Atene, che continuò ad esistere fin verso il 529, evidentemente non avevano più importanza in una società largamente cristianizzata, perché i credenti erano assorbiti dalle discussioni interne e dalle minacce che venivano dal di fuori: alia tempora, alia mores.

 

LA CHIESA DI FRONTE AI BARBARI

 

Situazione politica: la pressione sui confini (limes) dell’Impero inizia già a farsi sentire nella seconda metà del II secolo, sotto l’imperatore Marco Aurelio (121-180). Si farà più intensa lungo tutto il III sec. Al riguardo è assai significativo il fatto che in questo tempo siano appunto i generali dell’esercito (prevalentemente di origine illirica) a salire al soglio imperiale.

 

Nel IV secolo la situazione di fondo non cambia: la solidità dell’Impero è garantita dall’efficacia dell’esercito. Un contraccolpo assai grave però è accusato nella sconfitta ed annientamento dell’esercito romano ad Adrianopoli (an. 376) per opera dei Visigoti di Fritigerno.

 

Nel 406 le popolazioni barbare germaniche (franchi, vandali, burgundi) rompono i confini sul Reno ed esondano nelle Gallie.

 

Nel 410 Alarico, re dei Visigoti, saccheggia Roma per tre giorni. Il fatto determinerà il crollo di un’idea: l’intangibilità di Roma che dal 390 a. C. non era più stata lontanamente toccata; alla fine i Visigoti si stanzieranno in Spagna e nel sud della Francia.

I nostalgici del paganesimo pensano ad una vendetta degli dèi irritati per la crescente avanzata del cristianesimo. Nei loro confronti reagirà s. Agostino con la pubblicazione del De Civitate Dei, un’opera che impegnerà e caratterizzerà il pensiero politico della Chiesa.

 

Nel 429 i Vandali passano per la Spagna e trasmigrano nell’Africa Proconsolare (Algeria orientale, Tunisia e Libia occidentale); vi rimarranno fino alla riconquista di Giustiniano (533).

 

Nel 452, dopo aver tentato di entrare in Gallia, gli Unni di Attila cercano di invadere l’Italia, ma papa Leone il Grande con coraggio affronta Attila sul Mincio e lo persuade a desistere dal scendere in Italia. Attila morirà poco dopo e il suo impero si dissolverà.

 

Nel 455 Roma viene saccheggiata dai Vandali di Genserico. In seguito alle suppliche di papa Leone Magno, il re vandalo risparmia la folla romana e le chiese, sebbene faccia incetta di oro e argento (trafugamento della Menorah).

 

Alla fine del V secolo, due fenomeni analoghi: – Visigoti (goti occidentali) si stanziano in Spagna (fino al 711); Ostrogoti (goti orientali) si stanziano in Italia (fino al 560)

 

Nel Natale 496 il re dei Franchi, Clodoveo, si fa battezzare dal vescovo di Rems, san Remigio, e da pagano germanico diventa cattolico. Nasce la prima monarchia cattolica. Ciò comporterà la progressiva fusione della popolazione gallo romana (cattolica) con i neo-cattolici franchi derivandone il potenziamento della nazione franca e conseguente superiorità militare sui regni barbarici (ariani) confinanti (burgundi, visigoti, ostrogoti ed, in fine, Longobardi…).

 

clodoveo

 

(Due immagini del battesimo di re Clovis (Clodoveo) da parte di s. Remigio a Reims.

 

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In alto, un dipinto di autore anonimo tedesco eseguito nell’anno 1500; in basso, medesima scena riprodotta però in una miniatura medievale.)

 

Mentalità dei cristiani di fronte ai Barbari

 

Ambrogio di Milano († 397) identifica dell’Impero con la Chiesa e viceversa (effetto della Lex theodosiana del 380). Ambrogio si sente romano sin dal fondo del cuore e di conseguenza vede i Barbari con raccapriccio e profondo fastidio. Essi sono i nemici per antonomasia e sono per lui la personificazione del male: sono da combattere in ogni modo (= dovere della guerra). D’altronde la posta in gioco è troppo alta: la sopravvivenza della civiltà, per cui ogni mezzo diventa lecito pur di bloccare l’irrompere dei Barbari. Solo l’ipotesi della conversione dei Barbari al cristianesimo pone Ambrogio in una soluzione alternativa.

In pratica, Ambrogio identifica la romanità con la Chiesa. Non ha capito che la fine di Roma non era la fine dell’umanità e della Chiesa e che la storia poteva continuare anche senza l’Impero romano.

 

Girolamo († 420) è molto vicino ad Ambrogio. Per lui il mondo romano è l’unico possibile. Alla notizia del sacco di Roma del 410 (mentre dimora in Palestina) è completamente sbigottito, sospeso tra speranza e disperazione. In una sua lettera dice che «la voce si ferma, i singhiozzi soffocano la voce di chi sta dettando … È stata presa la Città che aveva conquistato tutto il mondo…».

 

Agostino d’Ippona († 430). Di fronte al sacco di Roma nel 410, interviene con la sua La Città di Dio reagendo alle accuse dei pagani nostalgici e ne ribalta il giudizio finale: “se Roma è stata violata non è perché essa non è più devota agli dèi, essendo come inscritto nella storia di Roma una nemesi per cui essa paga le conseguenze delle sue conquiste e malefatte”.

Emerge così l’idea che vede nelle disgrazie storiche una punizione permessa da Dio per le ingiustizie commesse.

 

Gli avvenimenti romani del 410 rientrano nel problema generale del male permesso da Dio per i suoi misteriosi fini che dobbiamo adorare anche se incomprensibili. Da ciò ne deriva che i disastri costituiscono un invito ad una conversione morale. La fine del mondo non è venuta, tant’è vero che la presenza dei Barbari ha manifestato che ci sono ancora molti popoli da evangelizzare.

Gli imperi umani sono transitori e prima o poi anche quello romano avrà fine… tutto ciò che è mondano passa e perisce per cui consegue la necessità di protendere alla patria celeste, ciò che permette di esaminare con un certo distacco le cose umane.

 

Paolo Orosio († molto dopo il 420). Romano di origine ispanica (forse galiziana). Dal 410 abbandona il paese natale e prende contatto con Agostino e poi Girolamo in Palestina. Stende le sue Storie contro i pagani (che dovevano servire da complemento storiografico a La Città di Dio di Agostino) con cui voleva dimostrare che il cristianesimo non era responsabile delle calamità di quei tempi, cioè le invasioni. Comunque tenta di provare che tali invasioni non sono poi così disastrose come appaiono a molti, in quanto i secoli passati hanno conosciuto tempi ben peggiori. Il secolo presente ha visto sì prove dure ma transitorie e si apre così alla speranza: allo sguardo fosco del passato si contrappone così una visione idilliaca (o quasi) del presente, per effetto anche di un’indiscussa fede nella Provvidenza che punisce il male (Sodoma, Gomorra, Babilonia ecc.) e premia il bene. Roma, dopotutto, riconosciuta la vera religione da parte dei nuovi arrivati, gode ancora della sua pace.

Egli è il primo tra i Padri che incominci a concepire una possibile fusione tra il mondo romano e i nuovi popoli irrompenti dall’Est. E così egli attribuisce al visigoto Ataulfo, successore di Alarico, il proposito di formare un impero gotico (Gothia) da quello che era stato prima l’Impero romano (lib. I, 43,5: «… essetque, ut vulgariter loquar, Gothia quod Romània fuisset …»).

Inoltre egli è convinto che «se anche i Barbari fossero stati immessi nel territorio romano al solo scopo che in Oriente ed Occidente le chiese di Cristo si riempissero di innumerevoli popolazioni di credenti, la misericordia di Dio sarebbe da lodare e da magnificare, sebbene a prezzo del cedimento nostro (dell’Impero romano), dal momento in cui così numerosi popoli ebbero conoscenza della Verità che senza dubbio non avrebbero mai potuto trovare se non in quest’occasione» (lib. I, 41,8).

Egli considera seriamente la possibilità della caduta di Roma e del sorgere di un altro impero, di un’altra civiltà, sebbene, questa sua idea, si limiti ancora ad elucubrare una realtà che per lui è astratta. Si potrebbe dire che, in un certo senso, con la ragione inclina ad ammettere questa evoluzione, ma con il cuore – sotto-sotto – la rifiuta.

 

Salviano di Marsiglia († ca 480). Al suo tempo i Barbari si sono installati in gran numero nei territori romani, sebbene si siano posti a servizio di Roma, anche se quest’ultima manifesta chiaramente l’incapacità di gestirli a causa della decadenza morale, tipica di ogni epoca di disordini.

Redige il suo Governo di Dio: è una requisitoria terribile contro la società cristiana decadente del V sec., che professa la fede nel Cristo, ma che in pratica con la vita lo rinnega (non è privo di esagerazioni) con i vizi e i peccati, l’esosità rapace dei burocrati e l’ingiustizia dilagante.

Per questo alla fine si nota che parecchi cittadini romani preferiscono trasferirsi a vivere presso i Barbari dove la vita è più sopportabile.

In particolare Salviano attribuisce alle nuove popolazioni maggior carità, giustizia e purezza. I Barbari sono uniti tra loro, non praticano quella pressione fiscale come tra i Romani, non hanno circhi, condannano la fornicazione, hanno orrore dell’omosessualità, obbligano le meretrici a sposarsi per abituarle ad abbandonare i loro vizi.

Emerge un’idea un po’ ingenua sui Barbari nei confronti del quale reagisce Vittore di Vita riportando la storia dell’invasione vandale del nord Africa, la persecuzione dei cattolici e l’abbandonarsi poi dei Vandali ad una lussuria che rimarrà proverbiale.

Ma comunque egli, nonostante il suo idealismo e moralismo, rappresenta il fatto che alla lunga finirà per imporsi: ha l’avvenire dalla propria parte. Egli non si lascia più sedurre dal ricordo di un passato che è irrimediabilmente scomparso, non vive nello sterile ricordo della grandezza romana. Accetta il fatto compiuto e passa risolutamente ai Barbari. Si prospetta pertanto la necessità di evangelizzare questi nuovi popoli in maniera da far sì che le loro nazioni divengano nazioni cristiane.

Siamo all’inizio del Medio Evo, l’evo cristiano per eccellenza.

 

Conclusione

 

Anno 728: re Liutprando († 744) cede a papa Gregorio II († 731) la città di Sutri, il quale la può governare come dominus. Mediante tale donazione si ha la fondazione di quello che da lì in avanti sarà chiamato potere temporale della Chiesa.

 

Il testimone per mezzo di coloro che avevano causato la caduta dell’Impero romano (d’Occidente) e lo sconquassamento di tutta l’Europa allora latinizzata dalle legioni e leggi romane, passava ora nelle mani della Chiesa.

Sarà essa ad essere la protagonista, mater et magistra, di tutti i fedeli.

E quell’impero che i Romani avevano fondato con il sangue di molti, continuerà adesso nel tempo a guidare le genti. Ma esso non sarà più un impero eretto e mantenuto col ferro e col fuoco, bensì un impero spirituale che prepara l’instaurazione definitiva del Regno dei Cieli.

 

(Fine settima e ultima parte)

 

Fonte: Lezioni di Fra Pacifico, Studio Teologico Interprovinciale S. Bernardino (STISB) dei Frati Minori, affiliato alla Pontifica Università  Antonianum di Roma

 

 

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