Nov 16 2009

La Grande Guerra l’infermo delle trincee al comando di ufficiali senza nessuna umanità

Category: Italia storia e dintornigiorgio @ 16:42

soldati

Un conflitto in cui i soldati erano considerati come semplice “carne da cannone”  e sacrificati dai capi senza nessuna autentica esigenza strategica.

La guerra si rivelò una lunga serie di inefficienze, menzogne e mosse senza alcun  costrutto  sui campi di battaglia che la storiografia ufficiale  nasconde o minimizza,  tutta basata com’è su una narrazione “alta” delle vicende,  all’insegna delle “grandi” battaglie e dei “grandi” numeri”.

Nemmeno i gironi dell’inferno potevano apparire più spaventosamente crudeli.

L’esercito austro-ungarico e quello italiano  presero  posizione e – uno di fronte all’altro – cominciarono a scavarsi dei rifugi che, passo dopo passo, si svilupparono per tutta la lunghezza del fronte.  Con quello che avevano a disposizione – anche con le unghie – si tuffarono in una prima linea di trincee che stavano fisicamente in faccia al nemico;  alle spalle una fortificazione  più attrezzata; e, ancora più indietro, un altro serpente interrato con protezioni solide e le piazzole per le artiglierie.

CATACOMBE  A  CIELO APERTO

Erano delle catacombe a cielo aperto che si rincorrevano per centinaia di chilometri: un labirinto dopo l’altro, collegati fra loro da  piccole gallerie, che sbucavano in anfratti naturali e che,  poi,  continuavano inseguendo l’ansa di un fiume o la gobba di una delle tante montagne carniche.

Per le pietraie riarse il caldo diventava torrido,  ma bastava  un po’ di pioggia per ridursi in un pantano

In quelle tane, sparpagliate per un territorio  sterminato, che gli slavi indicavano con la parola “krst”,  per noi impronunciabile, i soldati vissero quattro anni come gli uomini delle caverne. O, piuttosto, si lasciarono vivere.

Per le pietraie riarse, il caldo dell’estate diventava torrido ma bastava uno scroscio di pioggia perché la terra, asciutta e dura, si trasformasse in fango, molle e appiccicoso come la gelatina,  che sembrava impossibile togliersi dalla pelle.  L’inverno, invece; portava la desolazione del gelo con la neve che infradiciava gli uomini e il vento che tagliava loro la faccia.

ALPINI  COME  IN  TANTI  IGLOO

Sull’Adamello, a tremila metri d’altezza, dove osavano soltanto le aquile,  le trincee le scavarono nel ghiaccio e gli alpini si infilarono dentro come in un igloo.  Vita tremenda con il termometro che,  nell’inverno del 1917, toccò i trentacinque gradi sotto zero e con la neve che raggiunse i dodici metri.  Uno sparo di fucile poteva provocare una valanga devastante: eppure, occorreva montare la guardia e restare là, come statue di ghiaccio, con le mani incollate ai fucili, gli occhi chiusi perché l’umidore si solidificava sulle palpebre e la mente era stranita dal frastuono del vento. Le ombre, nel buio,  assumevano l’aspetto dei misteriosi fantasmi delle corrusche divinità di montagna.

Tutti dentro, uno addosso all’altro – come nelle Malebolge della Divina Commedia – diventando fisicamente intollerabili gli uni agli altri.

Ammassati, in  quei cunicoli artificiali, dove mangiavano e andavano al gabinetto, resistevano alla puzza che prendeva il cervello e si lasciavano vincere dalla nostalgia, tentavano di dormire quando era necessario riposare e si sforzavano di stare  svegli per montare la guardia.

FAME  E  SETE  SENZA  SOSTA

C’era la guerra contro i nemici che stavano lì  davanti, a tiro di voce e  di schioppo. Ma occorreva combattere anche la fame e la sete, la pioggia e la melma,  i  topi e gli scarafaggi, le cimici e la dissenteria, la febbre e la  cancrena ai piedi.  Il terrore – alla vigilia delle grandi offensive – prendeva alla gola e toglieva il respiro.

Tuttavia, la battaglia più faticosa si rivelò quella contro gli ufficiali che,  più  salivano di grado, più si comportavano come se avessero a che fare con dei  servi della gleba.

Per gli alti comandi, tormentare quei poveri fantaccini, con imposizioni vanamente disumane e colpevolmente inutili,  sembrava diventato un dovere cui dedicare impegno ed energie.  Forse,  si trattava di una sorta di inconsapevole sadismo ma, più probabilmente, dipendeva dalla prepotente imbecillità che li  informava.  Avrebbero vinto tutte le guerre, i soldati italiani,  se non avessero avuto generali e colonnelli a comandarli.  Non   sono in discussione ne il coraggio ne l’abnegazione degli uomini in divisa ma il modo criminale di volersene appropriare.

Semmai la questione riposa in una domanda:  perché, finita la guerra –  una delle tante che l’Italia ha malamente perduto – i responsabili di tante disgrazie non sono stati trascinati davanti a un giudice,  processati e,  se riconosciuti colpevoli, condannati a risarcire i danni.

QUEL  CHE  TACCIONO  I  LIBRI  DI  STORIA

Nella prima guerra mondiale,  gli stenti di centinaia di migliaia di arruolati, costretti alle fatiche degli animali da soma che lavoravano nei loro campi, restarono sconosciute,  a quel tempo, e non vengono registrate, oggi,  nei libri di storia.

La memoria ufficiale venne predisposta a una narrazione  “alta”, costruita sulle relazioni delle  “grandi”  manovre e con grandi numeri.  Le battaglie furono descritte da lontano,  dando conto dei movimenti di truppe che si inseguivano e si intersecavano, si scontravano e si annientavano.  Persino un bello spettacolo, dietro le lenti di ingrandimento di un binocolo.  Un racconto efficiente, asettico, addirittura rassicurante – se vogliamo – con quel generico riferirsi a “perdite” in forma statistica e,  dunque, con l’accortezza di tacere delle persone morte.

I soldati avevano un’altra storia da raccontare: indubbiamente parziale e frammentaria perché non riusciva ad alzare lo sguardo oltre i cinquanta metri quadrati dove ognuno di loro si sforzava di restare vivo, pur rischiando, ogni secondo, di non farcela.  Lì non esistevano visioni strategiche ne sguardi d’insieme ma non mancava il dolore,  quello vero – straziante – perché apparteneva al compagno di camerata che, giusto il giorno prima, aveva raccomandato: «Se non ce la faccio, manda questo alla mia famiglia…».

Non contavano i reparti, burocraticamente citati con il numero e le sigle che li identificavano,  perché  l’attenzione di chi combatteva in prima linea era piuttosto riservata al sanguinoso risvolto che,  singolarmente, li avrebbe toccati.   Non interessavano gli obiettivi strategici complessivi perché  il capitano Barbieri era andato in mille pezzi, e il tenente Quinterno si era trovato con le gambe spappolate: «Lo portavano a braccia e, dal bacino in giù, era come se fosse una poltiglia… lui, implorava che lo si uccidesse…».

TANTI DOLORI ANCORA “MUTI”

Anche per questo Piero Melograni ha dedicato un suo lavoro alle “bugie” della storia che conosce poco il passato e ignora del tutto il futuro.  Ma quante sono le vicende che attendono di essere raccontate per il verso giusto?  E chi si incaricherà di farlo?

A Palmanova, in una trattoria che sembrava una spelonca,  un ufficiale con la testa bendata, di ritorno dalla trincea di prima linea,  masticava piano-piano e, quasi, con pena.

«Novità?»    Salsa, Giuba e Onorato,   tenentini di prima nomina, in attesa di essere assegnati al loro reparto,  desideravano mettere in mostra il loro coraggio e parevano avidi di informazioni.  Ma, alla domanda,  prima rispose con un gesto vago – come se non sapesse cosa dire – e poi,  forse rendendosi conto che non poteva star proprio zitto, si risolse con un  «brutte!».

«Lo sappiamo…»  commentarono le reclute.

«Non sapete niente!».

«Immaginiamo…» tentarono di addomesticare un giudizio affrettato.

«Non si può immaginare!».  L’ufficiale era un giovanotto ma pochi mesi in prima linea l’avevano trasformato in un vecchio. Rughe di sofferenza si aggrappavano agli angoli della bocca e le spalle sembravano gravate dal peso di pensieri smisurati. Piastre di argilla stavano ancora rapprese alle maniche della divisa e pareva che il fango si fosse infilato anche nelle pieghe della pelle.

«Ho una ferita appena rimarginata ma mi rimanderanno al fronte fra qualche giorno. Non ho ne aderenze ne raccomandazioni. Qui non si scherza… L’offensiva continua ma si muore troppo: o per una pallottola o per il colera…».

Chi sapeva scrivere – soldati o ufficiali – tenne  un diario della propria guerra, cavando dalla memoria pagine che stringono il cuore e lasciano montare l’indignazione.

UN TIRO AL PICCIONE

Sulla parete dello Jeza, i soldati, scalpellando il dorso piatto della montagna, avevano ricavato una specie di scaletta. Quel percorso disagevole e pericoloso portava all’osservatorio di battaglione ma lassù era difficile starci. Si entrava in ginocchio e gli austriaci sparavano con fucili di precisione. Facevano il tiro al piccione. Chi andava lassù era per morire. Quando  il colonnello puniva qualcuno gli ordinava: «Và sull’osservatorio».  A volte, i nemici, lo inchiodavano quando era ancora per le scale e non aveva potuto raggiungere la casamatta sulla cima. Gli scalini erano bucati dai proiettili e macchiati di sangue.  In cima c’erano i pezzi del cervello di un soldato che era stato ammazzato la mattina prima, colpito in testa proprio in pieno.

Un massacro fatto di una sequela di morti che, giorno dopo giorno, allungavano la lista dei morti.  Morti inutilmente. Perché non smetterla di salire lassù?

Perché gli ufficiali superiori dicevano che bisognava presidiare quell’inutile posizione che non serviva a nulla e che in compenso, costava tanto sangue di povera gente.

«Gli ufficiali superiori… sono insopportabili».  Parola di Paolo Caccia Dominioni, testimone di come l’entusiasmo con cui era partito, si era andato raffreddando, fino a ridursi ai minimi termini. «Vengono giù e non capiscono niente (gli ufficiali superiori) distribuiscono ciecamente e senza una ragione, grane e cicchetti.  Mai una lode, mai un incoraggiamento e neppure una logica valutazione del lavoro svolto. Guai se non avessimo per conto nostro il senso del dovere»

Lo stesso senso del dovere che era radicato nei cuori dei soldati più umili che, dopo ogni scontro, dovevano fare i conti con troppi amici che non c’erano più.

La teleferica collegava il fronte dove si combatteva con l’immediata retrovia. Serviva per mandare materiale, il cibo, i bidoni dell’acqua. Il più delle volte i vagoncini tornavano vuoti ma se si era sparato erano pieni di gente che aveva avuto la peggio negli scontri. I feriti si sentivano gridare fin da metà tragitto. Alcuni avevano tali mutilazioni che morivano fra le braccia di chi cercava di scaricarli da dove erano. I soldati addetti a quel lavoro preferivano smistare i morti… almeno non parlavano. Ma, anche per questa incombenza, nascevano dei problemi perché, a volte, c’erano braccia e gambe che avanzavano e che non sapevano a chi attribuire.

CAROVANE DI FANTI

A Chiopris, i combattenti tornavano dal fronte, a piedi, per strade che il maltempo aveva ridotto a pantani. Interminabili carovane di fanti imbottiti di cenci, inzaccherati, sfiniti, come dinastie di zingari.  Marciavano in silenzio, strascicando il passo pesante nella fanghiglia, curvi sotto la desolazione della pioggia e sotto lo zaino sopraccarico, con un’espressione di stanchezza enorme. Passavano senza sollevare lo sguardo, come buoi stremati dal giogo.  Al tentativo di interrogarne  uno per sapere chi fosse, si sentì un nome che sembrava una bestemmia.

I feriti anche gravi  non trovavano nessuna assistenza e spesso tornavano in prima linea

Una fiumana di umanità  incolonnata anche a Sdraussina,  davanti alla porta dell’infermeria.  Da una parte, i malati con il carico dolente di rassegnazione inerte e, dall’altra, la spiccia ruvidità dei medici. Il tenente colonnello che comandava il reparto era – naturalmente – quello che, più di tutti, sfoggiava la burbanza da caserma. Aveva fatto sgorbiare la  baracchetta con croci rosse da ogni lato.  Era preoccupato di proteggere se stesso, più che i ricoverati dei quali, apparentemente, non doveva importargli gran che.

«Niente da fare»  disse senza abbassare il tono della voce e ripete «niente da fare» a quel ferito che sembrava implorare soltanto l’elemosina di una bugia. Per poi inveire con quel «tanghero» di aiutante che non gli aveva ancora tolto dai piedi il cadavere di un altro poveraccio che non ce la faceva più e, nell’attesa, era morto.

In attesa del proprio turno, un ragazzo con la faccia da vecchio… che parlava come un vecchio… «Mi devono tagliare i piedi per congelamento… tutti e due».  Un intervento che,  senza anestetici e senza disinfettanti, sembrava piuttosto la pratica di una tortura medievale.  Il suo tenente per due volte gli aveva fatto marcare visita ma i medici, per due volte, l’avevano rimandato indietro. Dicevano che, se fosse bastato così poco per  essere esentati dai servizi, avrebbero dovuto mandare all’ospedale tutto il  reggimento. Del resto – secondo loro – in trincea si poteva stare anche seduti. Quale miglior comodità?

Alla visita medica, arrivavano, ogni giorno, file di soldati che spesso denunciavano problemi seri di salute ma il dottore riservava a ciascuno una cura standard: olio di ricino.

VISITE  MEDICHE  SENZA  PIETÀ

«Respirate… la lingua… bene… servizio…».

Febbre?  «Benissimo. Occorre stare all’aria aperta… Servizio!»

E qualcuno, per aver cercato di farsi curare, rischiava anche di finire in cella di rigore.

Al bar (e al caldo) gli ufficiali della sanità erano nelle condizioni di dissertare (e banalizzare) sulle sofferenze degli altri.

Fece scandalo, subito dopo la guerra, la pubblicazione del diario di  Elena d’Aosta che era malata ai polmoni  ma pretese un posto di Crocerossina e non si risparmiò. Raccontò cosa significava stare «accanto agli eroi» moribondi. «I feriti – testimoniò – venivano trasportati con treni non attrezzati cioè con carri bestiame, in vagoni non disinfettati. Impossibile medicare gli ammalati». A Bologna, nell’asilo De Amicis, si trovavano ammassati come sardine quattrocento mutilati. «Non c’erano i bagni e, qualche volta, mancavano anche i viveri. I feriti portavano ancora i loro indumenti sporchi di terra e di sangue. Per i loro bisogni, dovevano andare nel cortile. La notte evacuavano nei secchi che, quando traboccavano, li versavano da un piano all’altro, attraverso le tavole disgiunte del pavimento».  Soldati con malattie alla pelle o con infezioni contagiose stavano tutti insieme e la loro igiene consisteva nel lavarsi in un’unica tinozza che, come risultato più evidente, consentiva di contagiarsi a vicenda. La pubblicazione sembrò eccessiva tanto che qualcuno osservò che la duchessa, probabilmente, era stata troppo severa.  Rispose:  «Come potevo rimanere silenziosa davanti a tante necessità urgenti e all’imbecillità di alcuni?»

I memorialisti che raccontarono cose viste con i propri occhi e udite con le proprie orecchie scrissero pagine raccapriccianti.

CONDIZIONI  DISUMANE

Soldati guazzanti come rospi nel viscidume o intrufolati in buchi luridi di paglia bagnata e di rifiuti assortiti.  Fucili e giberne come mobilio di queste tane cenciose. Tanfo di umanità assiepata e sudicia nella condensa della penombra e, sopra tutto, il disinfettante che avrebbe dovuto rimediare alla puzza e riusciva soltanto ad amplificarne l’effetto.  Al posto per riposare, arrivavano strisciando come rettili.

Poco da mangiare e niente da bere. «Se avessi potuto avere un sorso d’acqua – confessò Enrico Conti –  l’avrei pagato cinquanta centesimi».  Tradotto nel linguaggio del terzo millennio, significa che avrebbe speso anche cento euro per un bicchiere di minerale.

Una mattina, gli artiglieri non riuscirono a fare funzionare le mitragliatrici perché le batterie erano rimaste senza liquido. Per disperazione, l’avevano bevuto i soldati.

Occorreva convivere con l’idea stessa della morte che poteva arrivare da ogni lato e in qualunque momento.

Sul  San Michele,  i plotoni di prima linea si trovarono “insalsicciati” nei loro budelli profondi un metro.  Impossibile  muoversi di giorno perché anche un piccolo movimento poteva attirare l’attenzione dei cecchini  che, dall’altro lato, non sbagliavano un colpo.  Loro avevano pazienza, sempre con l’occhio sul mirino, in attesa di un gesto di nervosismo. Occorreva stare immobili come le mummie.

Quanti soldati si sono fatti accoppare per il desiderio di raddrizzare la schiena…

E quanti giovani ufficiali sono rimasti con le scarpe al sole per aver creduto di combattere come ingenui eroi… Arrivavano con idee garibaldine… Curvi? Macchè! E,  alla prima fucilata,  restavano stecchiti.

La prima lezione che veniva impartita alle reclute consisteva nello spingere una scatoletta   di carne vuota oltre il  bordo della trincea, in modo che il nemico ne intuisse il profilo.  Pochi centimetri di visuale e  una manciata di secondi:  una schioppettata la faceva ruzzolare via.  Se era una testa…

I veterani spiegavano che i nemici non lasciavano loro il tempo per soccorrere i feriti. Volevano che rimanessero lì ad agonizzare perché le urla di dolore e le richieste di aiuto trasformassero la paura in terrore e  il disgusto in ribellione.

Nemmeno i morti potevano essere sepolti.  Ne quelli italiani ne quelli nemici.

(16 bis – Continua)

Fonte: srs di Lorenzo Del Bocca; da La Padania di sabato   14  novembre   2009,  pag. 12- 13

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