Lug 02 2009

Alberto Solinas: come ho scoperto il sito archeologico di Isernia La pineta

Category: Archeologia e paleontologiagiorgio @ 15:22

Foto storica.   Lla prima immagine fotografica del sito archeologico de “La pineta”

 

 

Tra gli scritti di Alberto Solinas, rubacchiati, si fa per dire, dalla sua scrivania, questo è uno dei più interessanti  perché  riporta,  gli appunti, le impressioni e gli stati d’animo su una delle più importanti scoperte archeologiche, “La pineta  di Isernia”.  S’intravedono inoltre anche i primi dubbi su quelli che sono stati alcuni dei  risultati  finali  delle ricerche archeologiche.

 

LA SCOPERTA

È necessario ora illustrare la tecnica per l’individuazione dei siti archeologici. Si tratta di un metodo personale, ma già sperimentato nella nostra famiglia da oltre mezzo secolo, e ha permesso la scoperta di importantissimi siti preistorici, alcuni dei quali di importanza anche basilare per la Paletnologia mondiale (Isernia e la grotta “Solinas” nella valle di Fumane, Verona).

Purtroppo la metodologia di ricerca sul terreno non era mai stata ritenuta importante dagli “addetti ai lavori” dal momento che i manufatti raccolti, trovandosi in superficie, erano stati spostati rispetto alla loro posizione originaria, perciò non erano in grado di fornire indicazioni scientifiche sicure.

Solo negli anni ’70 ci si rese conto che la ricognizione a terra era importantissima, non meno dello scavo archeologico, ed anzi necessaria per individuare nuovi siti archeologici, anche in aree in cui si riteneva impossibile la presenza dell’uomo paleolitico e mesolitico.

La nostra tecnica per individuare gli accampamenti estivi dell’uomo del Paleolitico superiore e del Mesolitico in alta montagna (oltre i 1.500 metri d’altezza) può infatti consistere anche solo nell’analisi dei mucchietti di terra, opera delle talpe, poiché queste possono talvolta portare in superficie eventuali manufatti preistorici, consentendo così di individuare l’area da scavare.

Iniziammo ad applicare tale metodo di ricerca in alta quota nel 1967 ed i risultati portarono a rivoluzionare completamente la teoria secondo cui nessun uomo, prima dell’uomo neolitico, poteva aver abitato nelle Alpi, ad altezze simili. Tale metodo è stato ora adottato nella ricerca archeologica ufficiale.

Il  punto di partenza, per chi voglia condurre una fruttuosa ricerca sul territorio senza rischiare di perdere tempo prezioso, è una ricerca bibliografica sull’argomento che non trascuri gli aspetti folcloristici legati alla storia locale e alle leggende. È poi necessario dotarsi di una carta topografica dell’U.T.M. in scala 1:25.000 e segnare tutto ciò che può costituire oggetto di interesse archeologico, come ad esempio i toponimi legati alle fortificazioni (Rocca, Castello, ecc.): questi indicano infatti, in genere, villaggi dell’età del Bronzo o del Ferro. Ad esempio la ricerca di Colle Castellano, a sud di Montaquila, diede subito risultati positivi: si rinvennero manufatti ceramici del periodo medievale e abbondantissime scorie ferrose; si trattava probabilmente di reperti appartenuti al leggendario monastero, spesso ricordato nei racconti dei montaquilani.

Ai piedi di Colle Castellano, accanto ai reperti medievali e romani, ne furono rinvenuti anche di epoca preistorica, di tipologia Musteriana (Paleolitico medio) e genericamente Neolitici.

Questo ritrovamento costituì il punto di partenza per la ricerca successiva: poiché i reperti archeologici erano stati ritrovati ad una quota di 256 metri s.l.m., era opportuno indagare sui terrazzi fluviali del Volturno che presentassero all’incirca la stessa quota altimetrica, vale a dire la piana di Castelvecchio e Valle Porcina, a sud ed a est di Montaquila.  I risultati, dal punto di vista archeologico, furono subito eclatanti: la selce trasportata dalle antichissime alluvioni del Volturno era abbondantissima e i manufatti preistorici ad una prima analisi furono attribuiti, per tipologia, al Paleolitico inferiore e medio, poi al Neolitico e all’età del Rame. Non mancavano reperti di epoca romana e medievale; procedendo con le ricerche, potei constatare che parecchio materiale edile, tra cui embrici, coppi, ecc., proveniva dall’Abbazia di San Vincenzo al Volturno, il che lascia immaginare che questa, dopo la sua distruzione, sia diventata fonte di reimpiego del materiale da costruzione. Alla fine di ogni periodo di ricerca i manufatti archeologici venivano siglati con la data del rinvenimento e la località di provenienza e poi, naturalmente, consegnati all’Antiquarium di Isernia.

Rivestono notevole importanza, per la ricerca, anche le cime dei monti legati ai primi santi del Cristianesimo, quale ad esempio monte San Paolo, poco a nord di Montaquila; la posizione del paese, infatti, su una carta geografica del 1650 viene riportata proprio sulla cima di questo monte. Analizzando poi la carta topografica, la località apparve subito molto interessante: il monte domina infatti  sull’importantissima strada che collega la Campania, il Lazio e l’Abruzzo; in più (ed è un aspetto assai rilevante) permette di controllare la “chiusa” di Colli a Volturno: si tratta quindi di una località strategica.

Dalle prime case a sud di Colli a Volturno parte, passando il ponte sul Volturno, una strada che conduce alla località Castelloni; da questa si dirama una mulattiera che porta a un quadrivio posto alla quota di 630 metri, presso una sorgente (particolare importantissimo per un eventuale insediamento umano). Dal quadrivio parte una seconda mulattiera che costeggia ad ovest il monte chiamato Montetuoro, da una probabile alterazione di Montorio = Castro aureo, o Monte Toro. Si tratta di un toponimo che richiama sempre l’attenzione del ricercatore poiché, di frequente, in località con nomi consimili, si sono ritrovati, sul monte o nelle sue vicinanze, siti archeologici (basti pensare a Montorio Veronese, Montorio nei Frentani, ecc.); il legame di questo toponimo con la storia e la preistoria è confermato dal Gianicolo, uno dei colli di Roma, detto appunto anche Montorio. Qui, secondo una leggenda, re Giano avrebbe costruito la sua città sul lato che guarda il Campidoglio; su quel monte c’è la chiesa di S. Pietro, sorta nel luogo in cui si vuole che l’Apostolo abbia sofferto il martirio.

Tra il quadrivio cui si faceva cenno e la cima di Monte San Paolo si trova Piana Serra del Lago, area cintata da una corona di modesti rilievi: qui, dopo una prima ricognizione, rinvenni manufatti di epoca romana e forse sannitica e poderose mura a secco cingevano il monte. Alcuni anni più tardi il sacerdote Lucio Ragozzino, parroco di Montaquila, mi raccontò del ritrovamento, nelle vicinanze di Monte San Paolo, di una grossa pietra a forma di toro, forse proveniente proprio dal Montetuoro o dal Monte San Paolo.

Anche le sergenti sono sempre state legate alla vita dell’uomo: tanto più deve esserlo stata la sorgente del Volturno, il fiume più importante dell’Italia meridionale, che ha origine col nome di Fosso di Vigna Lunga. Quella fonte doveva quanto meno essere stata protetta in antichità dalle Ninfe.

Altri indizi della presenza umana sono costituiti dai toponimi: Rocchetta, Colle della torre, San Giorgio, Castel San Vincenzo e Castellone, per non parlare della principale conferma della presenza dell’uomo preistorico in zona: le otto punte di freccia citate nello studio di Luigi Pigorini. La zona sorgentifera del Volturno si presentava dunque come un’area assai indicata per una ricerca archeologica.

Da questo punto di vista l’altopiano di Rocchetta a Volturno fu una sorpresa: vi si rilevò una notevole concentrazione di strumenti litici Musteriani accanto a pochi altri riferibili al Paleolitico superiore in località Olmitoni-Vallocchie.

Il mancato ritrovamento, sull’altopiano, di strumenti dell’epoca successiva, il Mesolitico, giustificherebbe una ricerca più approfondita sul territorio: sembra infatti impossibile che un luogo tanto favorevole alla vita dell’uomo sia stato, in quel periodo, abbandonato. Va osservato che il Mesolitico in Italia è ancora assai poco conosciuto, eppure una delle prime, importantissime località risalenti a questo periodo, scoperte nella nostra penisola si trova a soli 50 chilometri in linea d’aria, presso Ortuccio, nella piana del Fucino, nelle grotte di La Punta, Maritza e San Nicola.  I manufatti neolitici sono concentrati ad est di Rocchetta Nuova, sul bordo del ciglione che domina le Cave Quercetelli.  Purtroppo in questo luogo non è stato rinvenuto alcun frammento di ceramica risalente a quel periodo, che avrebbe permesso una più precisa datazione degli strumenti litici in questione.

Anche attorno a Castel San Vincenzo vi sono oggetti  litici e ceramici  per lo più  appartenenti al Neolitico e all’età del Rame.

Durante l’età del Rame e del Bronzo l’uomo doveva essere stanziato nella piana di Rocchetta a Volturno o nei dintorni, come sembra dimostrare il ritrovamento di alcuni oggetti litici, di una piccola ascia in pietra verde levigata, usata come giocattolo, e di un frammento molto grande, sempre di ascia levigata, rinvenuto recentemente durante gli scavi nell’Abbazia di San Vincenzo al Volturno. La presenza umana nella piana di Rocchetta a Volturno durante l’età del Ferro doveva essere molto intensa, a giudicare dalle necropoli sannitiche scavate nel travertino: una si trovava lungo il ciglione a sud di Torretta Battiloro, nella zona denominata Campo Pagano; la seconda venne alla luce durante la sistemazione dell’area attorno all’Abbazia.

È sempre buona abitudine, per il ricercatore, dialogare con la gente del posto: gli abitanti sono infatti in grado di fornire notizie inaspettate e di grande utilità per le ricerche preistoriche.

Fu così che venni a sapere che i monti Curvale, Fosse e Santa Croce costituiscono la Montagna della focale (come viene chiamata la selce nell’alta valle del Volturno). Già salendo lungo la mulattiera che conduce sull’altopiano erano visibili sul terreno alcuni cocci neolitici; giunto sull’incantevole pianoro carsico, in località Acquaro, incontrai una copiosa sorgente attorniata da bellissimi noduli di selce; il mio informatore si era dimostrato attendibile: era davvero la Montagna della focale.

Da quell’area montuosa doveva provenire la selce usata dall’uomo preistorico per costruire gli strumenti più grandi, dal momento che la selce disponibile nella zona di fondo valle, essendo stata trasportata e frantumata dalle alluvioni, non permetteva di realizzare manufatti di particolari dimensioni.

L’altopiano, ricco di sorgenti, mi apparve come un luogo particolarmente adatto ad essere abitato dall’uomo in epoca preistorica; tra l’enorme quantità di selce fratturata naturalmente notai alcuni strumenti Musteriani e Neolitici ed osservai, non senza sorpresa, che in quei campicelli vive ancora una specie di grano neolitico: l’Aeghilopus o Aegilops. .

La zona fu certamente abitata dai Sanniti, come dimostrano alcuni frammenti di ceramica e le mura megalitiche che circondano il Monte Santa Croce e il Curvale. D’altronde queste due montagne, dominanti sulla valle del Volturno e sulla strada proveniente dalla Campania che si biforca proprio ai loro piedi  e conduce alle due importantissime città sannite di Alfedena e Castel di Sangro, dovevano essere usate come punto di guardia (dal monte Santa Croce si domina l’ingresso alla valle del Volturno e dal vicinissimo Curvale si controllano le due cittadine della pianura del Sangro). L’importanza strategica del sito e le mura megalitiche realizzate dai Sanniti sulla cima dei due rilievi tornarono utili ai soldati tedeschi durante l’ultima guerra mondiale.

In quei primi anni di ricerca sul territorio la città di Isernia stava vivendo un periodo di forte espansione edilizia nell’area a nord-est della stazione ferroviaria. Non c’è occasione più propizia e stimolante, per la ricerca archeologica, di una visita agli scavi edili, tanto più se questi si trovano ai margini della città, lungo una strada di probabile origine romana; inoltre, com’è noto, nella zona doveva esserci una necropoli: erano infatti frequenti i ritrovamenti di embrici, tegoloni e mattoni sesquipedali caratteristici della aree cimiteriali, assieme a vasellame frantumato appartenente probabilmente al corredo funebre. Per dimostrare la presenza della necropoli portai alcuni oggetti di questo genere all’Antiquarium di Isernia, spiegando ai dipendenti quanto stava accadendo nei pressi della stazione ferroviaria: mi fu risposto che non era una novità.

Pochi anni più tardi mi interessai invece della nuova strada in costruzione, destinata a congiungere Napoli all’Adriatico. Com’è noto a chi conduce ricerca archeologica in superficie, la costruzione delle nuove vie di comunicazione, al pari degli scavi edili, può offrire opportunità  interessanti  per la scoperta di aree archeologiche.

All’inizio il tratto più importante della superstrada in costruzione fu quello nelle vicinanze della stazione ferroviaria, da tempo dismessa, di Monteroduni/Macchia perchè  per la prima volta potei osservare un terrazzo fluviale sezionato per un’altezza di circa quattro metri, in cui erano chiaramente visibili gli strati geologici che lo componevano; al loro interno tuttavia non vi era traccia di materiale archeologico, se non nella parte superiore ove erano visibili alcuni frammenti di laterizi romani.

In seguito l’attenzione si spostò sui lavori di scavo e sbancamento per la realizzazione del tratto di superstrada tangenziale all’abitato di Isernia, particolarmente in prossimità del cimitero.

 

Veduta parziale della sezione geologica messa in luce dallo sbancamento per i lavori di costruzione della superstrada

 

Il 19 agosto 1978 mi recai con la mia famiglia a Isernia dove, come ogni sabato, si teneva il mercato settimanale; approfittando dell’occasione, andai anche a controllare la strada in costruzione già vista durante le feste del Natale precedente.

E’ buona regola, quando si analizza una sezione stratigrafica compiuta con mezzi meccanici, osservarla una seconda volta a distanza di alcuni mesi poiché le intemperie, avendo intaccato le superfici terrose, le rendono più nitide e meglio decifrabili. I lavori stradali non erano andati molto oltre, rispetto all’ultima osservazione, ma era in costruzione la struttura di cemento armato da inserire sotto i binari ferroviari. Riguardando la sezione terrosa mi accorsi che ai suoi piedi, tra la terra franata dagli strati superiori, c’erano alcune schegge di selce lavorate.

In un primo momento restai sorpreso e perplesso per la loro “freschezza”: la selce appariva chiaramente lavorata dall’uomo, ma strumenti silicei di tipologia tanto antica avrebbero dovuto, come minimo, presentare la caratteristica patina di alterazione chimico-fisica superficiale, tipica degli strumenti antichi, che assumono le selci col trascorrere dei millenni.

I manufatti inoltre si presentavano con spigoli vivi e in prossimità dei punti di percussione, si individuavano piccolissime sbrecciature e minuscole schegge, rimaste attaccate alla superfici dello strumento; sembravano, insomma, manufatti appena costruiti e mai utilizzati dall’uomo.

Per tutte queste caratteristiche fisiche mi sorse il dubbio che a realizzare gli strumenti fossero state le pale meccaniche con i loro cingoli, passando sui ciottoli di selce franati dagli strati superiori dello scavo stradale.

Mi sorprese, invece, un ciottolo in selce scheggiato: era un perfetto choppers della misura classica, grande cioè pressappoco quanto una patata di medie dimensioni; gli stacchi delle scheggiature, operate per realizzare il bordo tagliante del ciottolo, lo circondavano per circa tre quarti, lasciando liscia la parte inferiore per essere impugnata facilmente e senza tagliarsi la mano.

Ogni dubbio svanì ad una più minuta osservazione del suolo: fra la terra franata trovai infatti alcuni frammenti di ossa appartenenti ad animali di grossa taglia, ossa certamente fossili perché non si attaccavano alle labbra.

Per poter distinguere sul posto le ossa più antiche da quelle più recenti, abbiamo adottato in famiglia un sistema, empirico, semplice e sicuro: basta portare alla bocca l’osso da analizzare; se si ha la sensazione che questo si attacchi alle labbra umide si può concludere che l’animale è morto di recente, altrimenti no .  Le ossa, infatti, restando nel terreno, perdono col tempo tutte le sostanze organiche e tra queste il tessuto cartilagineo, responsabile di quella particolare sensazione al contatto labiale: le ossa più recenti hanno maggiore contenuto di tessuto cartilagineo, dunque si attaccano di più alle labbra.

Tra i frammenti di osso ve n’era uno che presentava evidenti segni di scarnificazione; questa operazione era stata senz’altro compiuta dall’uomo preistorico che, per staccare la carne dall’osso, aveva usato uno strumento siliceo. Il particolare dell’osso scalfito era dunque la prova che i manufatti in selce, sebbene di aspetto “fresco”, erano autentici.

Restava il problema di individuare lo strato geologico di provenienza dei reperti: se questi si trovavano nel terreno di natura limosa, bisognava per prima cosa indagare in quello strato.

A livello della  strada si notava in effetti proprio quel tipo di sedimento geologico e al suo interno faceva bella mostra di se una zanna d’elefante sezionata dal lavoro delle scavatrici.

Il livello paleolitico era stato individuato e al tempo stesso assumeva sempre maggiore interesse scientifico, anche dal punto di vista faunistico (da due anni il laboratorio di fisica geografica dell’Università di Amsterdam aveva una sede logistica a Montaquila e conduceva i suoi studi sul territorio. Non  intrattenevo rapporti idilliaci con quegli studiosi, dal momento che  mi tenevano all’oscuro delle loro ricerche, sebbene avessi, in passato,  fornito loro informazioni interessanti).

In quello stesso anno, tuttavia a Montaquila si seppe che quei ricercatori avevano trovato delle ossa: appresi in seguito che si trattava dello stesso deposito da me individuato lungo la strada in costruzione).

Il giorno successivo, domenica 20 agosto, tornai sul posto con maggiore calma. Nella sezione esposta lungo lo scavo della superstrada l’insieme degli strati sedimentologici era di una bellezza straordinaria: si riconoscevano chiaramente tutti gli strati geologici che si erano depositati nei millenni, terreni di origine fluviale con limi, sabbie e ghiaie e terreni argillosi. Questi ultimi hanno la particolarità di essersi formati dalla decomposizione chimica delle rocce, influenzata dal clima; pertanto la composizione e le conseguenti diverse colorazioni delle argille variano in funzione del clima presente al momento della loro formazione, la diversa colorazione permette di riconoscere, anche a occhio nudo, se al momento della formazione di quello strato argilloso il clima era caldo o freddo (si identificavano tre di questi strati).

Il susseguirsi degli strati era importantissimo per datare con maggiore precisione il suolo paleolitico che si trovava sotto di essi. Inoltre la netta distinzione degli strati geologici permetteva anche di ricostruire l’evoluzione dei movimenti terrestri: i terremoti e l’innalzamento o l’abbassamento del suolo nei  pressi di Isernia; si potevano acquisire  dati sull’attività vulcanica della cosiddetta “montagna di Roccamonfina”, estesa a ovest di Caianello fino alla foce del Garigliano, che è in realtà un vulcano spento originatosi nell’Eocene (40-50 milioni di anni fa) e rimasto attivo, a fasi alterne, fino a circa 36.000 anni fa.

Lo studio dei pollini fossilizzatisi all’interno degli strati poteva permettere la ricostruzione dell’ambiente vegetale e la definizione in maniera determinante del clima e dell’ambiente sviluppatosi nel corso dei millenni intorno ad Isernia, oltre a fornire un’infinità  di dati importanti per ricostruire un quadro cronologico della paleontologia e l’evoluzione del Quaternario dopo l’abbandono del suolo da parte dell’uomo preistorico.

Finora si conoscono infatti cinque periodi glaciali  freddi, e quattro interglaciali  caldi:

il più antico periodo glaciale, detto Donau (termina circa 1.700.000 anni fa);

l’interglaciale successivo, Donau-Gùnz (1.700.000-ca. 1.200.000);

il glaciale Gùnz (1.200.000-ca. 750.000);

l’interglaciale Gùnz-Minde (750.000-ca. 680.000);

il glaciale Mindel (680.000-ca. 300.000);

l’interglaciale Mindel-Riss (300.000-ca. 250.000);

il glaciale Riss (250.000-ca. 128.000);

l’interglaciale Riss-Wurm (128.000-ca. 90.000);

il glaciale Wurm (90.000-ca. 10.000) e

l’interglaciale Wurm (10.000-?).

Riconosciuta l’importanza dei depositi messi in luce dai lavori stradali, presi appunti e, ove fu possibile, anche misure stratigrafiche e campioni terrosi; infine scattai alcune fotografie.

Questi rilievi sarebbero serviti come documentazione se, disgraziatamente, la sezione geologica fosse stata coperta da un muro o  se non fossi riuscito a veicolare   ed  interessare  gli ambienti scientifici in modo da attivare  il più presto possibile  l’avvio dello  scavo archeologico.

Restava da risolvere un ultimo problema: rintracciare la terra tolta dallo strato paleolitico, nella quale avrei certamente trovato altri reperti di interesse paletnologico. Fortunatamente, la terra era stata impiegata per pianeggiare  un vicino  spazio, sul lato orientale della superstrada di fronte allo scavo archeologico attuale.

Nella terra ivi ammucchiata erano visibili strumenti silicei, choppers in calcare ed ossa. Ne presi alcune immagini fotografiche e li lasciai sul posto quale testimonianza per una eventuale ispezione scientifica successiva (i mucchi di quella terra sono tuttora, in parte, da esaminare).

Per completare la ricerca mi occorreva conoscere il nome esatto dell’area del ritrovamento: il proprietario di casa Ciarlante, in via Vallesoda, mi disse che il nome della località era Ramiera Vecchia.

Alla  sua richiesta di spiegazioni sul mio interesse per quel luogo, gli risposi che erano apparse ossa di animali interessanti per eventuali studi di zoologia. Il sig. Ciarlante allora mi riferì che al tempo dei lavori per la costruzione della ferrovia si era parlato del ritrovamento di grosse ossa di cavallo.

I reperti preistorici esaminati (i choppers, gli strumenti litici su scheggia, come raschiatoi o grattatoi, denticoati ed incavi) erano, per tecnica di lavorazione e tipologia, simili a quelli dell’importantissimo giacimento paletnologico francese di Terra Amata, presso Nizza, risalente a circa 380.000 anni fa e appartenente alla cultura dell’Acheuleano antico.

In quel periodo depositi antropici, simili a quello francese, ma di minore entità, si trovavano  in Italia: a Visogliano, presso Trieste; a Madonna del Freddo, vicino a Chieti; a Marina di Camerota, nel salernitano; a Venosa, in Basilicata; nelle vicinanze di Roma a Torre in Pietra, Malagrotta e Castel di Guido ed infine in provincia di Frosinone a Ceprano e Pontecorvo, non troppo distanti da Isernia.

Il giacimento di Isernia, a prima vista, non si differenziava molto dagli altri ma presentava un particolare notevolissimo e nuovo per lo studio della paletnologia: i manufatti silicei erano fisicamente perfetti e “freschi” come se fossero stati costruiti in quel momento dall’uomo; questo particolare consenti di studiare le tracce dell’utilizzo degli strumenti litici e la sperimentazione per la loro costruzione (cfr. Le industrie litiche del giacimenco paleolicico di Isernia La Pineta, a cura di Carlo Peretto, Istituto regionale per gli studi storici del Molise “V. Cuoco”, Cosmo Iannone editore, 1994).

Quello di Isernia era inoltre, nel Molise, il primo deposito preistorico rinvenuto in uno strato geologico ben preciso e perciò adatto ad essere studiato in tutti i suoi particolari.

Riconosciuta l’importanza del giacimento, era necessario divulgare la notizia del suo ritrovamento negli ambienti scientifici e sollecitare l’avvio, il più presto possibile, dello scavo archeologico. Se fosse stato costruito il muro davanti alla sezione stratigrafica, infatti, sarebbe andato praticamente tutto perduto.

La legge impone che il materiale archeologico rinvenuto sia immediatamente consegnato nelle mani delle competenti autorità locali; ma se lo avessi fatto, l’insieme dei reperti avrebbe sicuramente seguito la sorte del materiale che inizialmente consegnavo all’Anciquarium di Isernia, cioè “dimenticato in un cassetto”, dal momento che gli oggetti da me consegnati venivano guardati con molta indifferenza, tanto da indurmi a proseguire le ricerche in superficie annotando solo le località sulla carta topografica.

Decisi pertanto che il materiale del giacimento di Isernia doveva essere consegnato a persone che ne avrebbero riconosciuto l’importanza per avviare una seria ricerca.

L’occasione propizia si  presentò all’inizio di ottobre. Come ogni anno, gli studiosi dell’Istituto di Geologia dell’Università di Ferrara partecipavano a uno scavo al riparo Tagliente in Valpantena (Verona). Mostrai loro gli oggetti preistorici ed illustrai la situazione precaria del giacimento di Isernia; purtroppo l’argomento non sollevò l’interesse sperato: nessuno aveva  mai  rinvenuto oggetti preistorici in Molise ed i manufatti silicei, per il loro aspetto troppo “fresco”, furono considerati solo l’opera dei cingoli delle scavatrici.


A sinistra, il vecchio “amico di mio padre Aldo Allegranzi che convinse Benedetto Sala e poi Carlo Peretto a seguirmi ad Isernia.

L’importanza del giacimento di Isernia era stata invece ben compresa dal più anziano tra i ricercatori presenti, l’amico di famiglia Aldo Allegranzi, che mi conosceva fin da bambino; fu lui, a convincere i giovani professori Benedetto Sala e Carlo Peretto, a seguire la mia segnalazione.

Quasi di nascosto ci recammo a Montaquila all’inizio del mese di novembre, approfittando delle festività.

Oggi così racconta l’episodio Benedetto Sala: «Noi in fondo non avevamo nulla da perdere, ma tutto da guadagnare nel credere a ciò che diceva e mostrava Solinas. Al massimo, assieme a Carlo Peretto, avremmo fatto un viaggio inutile, ma non fu così. Andammo sul posto a vedere quello strato di terreno che si estendeva per centinaia di metri lungo il tracciato della superstrada e sembrava contenere ossa e manufatti in pietra (durante il tempo trascorso tra la scoperta del giacimento e la nostra venuta, i lavori stradali erano proseguiti e la zanna d’elefante era stata distrutta); vedere lo strato ed intuirne l’importanza fu tutt’uno: Solinas aveva ragione e se la testardaggine di Aldo Allegranzi non ci avesse convinto, tutto sarebbe andato perduto».

A questo punto il problema era convincere il prof. Bruno d’Agostino, direttore della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Molise, a trovare i finanziamenti necessari per iniziare gli scavi: i professori Peretto e Sala lo condussero a visitare il giacimento ed egli comprese il valore culturale e scientifico della scoperta.

Lo scavo prese il via nel maggio del 1979.

Per comprendere appieno l’importanza di questo giacimento antropico è necessario fare brevemente cenno allo stato delle conoscenze sul periodo Acheuleano antico in Europa, prima della scoperta del giacimento di Isernia.

L’Homo erectus, comparso in Africa orientale circa 1.700.000 anni fa, lascia il continente africano dopo circa 1.500.000 anni per occupare le zone tropicali e temperate calde dell’Eurasia. Circa 400.000 anni fa l’Homo erectus costruisce i primi accampamenti organizzati all’aperto ed impara ad usare il fuoco: i focolari rinvenuti a Terra Amata, in Francia, rappresentano, con quelli di Vestessollos in Ungheria e con quelli italiani di Torre in Pietra, i più antichi focolari attualmente conosciuti. Inoltre questo uomo primitivo, sempre nello stesso periodo, utilizza per la prima volta le sostanze coloranti. La diversa organizzazione degli insediamenti, l’uso del fuoco e dei coloranti rappresentano l’inizio di una vera e propria rivoluzione per l’umanità e di un rapido sviluppo delle strutture sociali.

 

Zanna d’elefante tranciata nella sezione stradale, fotografata il 20 agosto 1978.

 

Convegno di Isernia (1979).

In questo quadro di conoscenze si inseriva la scoperta del giacimento di Isernia, il cui primo scavo si concluse nel 1979; i primi risultati furono presentati ufficialmente in un convegno su quello che da allora viene chiamato Homo aeserniensis, tenutosi ad Isernia il 12 luglio di quell’anno. Così il prof. Bruno d’Agostino, in alcuni passaggi del suo intervento si esprime:

«…Quanto al problema che ci interessa in questo momento, cioè il problema dell’insediamento della stazione paleolitica che gli amici Sala, Peretto e Cremaschi con tanta competenza, stanno indagando per noi qui ad Isernia, probabilmente le circostanze che hanno determinato la scoperta vi sono note…

La Soprintendenza, purtroppo, ne è venuta a conoscenza con notevole ritardo, perché il taglio è del 1977 ed il nostro intervento è di oggi. Questo lo dico per dovere di obiettività, non per far carico ad alcuno di alcuna cosa, poiché si tratta di presenze difficili a cogliere ad occhio non espertissimo…

Quando gli amici Peretto e Sala mi misero al corrente della situazione della quale a loro volta erano venuti a conoscenza attraverso il dott. Solinas, mi chiesero di predisporre la possibilità di un intervento di riconoscimento della strati grafia in corrispondenza dell’incisione provocata dalla strada. Un intervento che, nelle loro intenzioni di allora, doveva essere molto circoscritto e in questo senso io mi mossi…

Appena abbiamo cominciato, anzi, hanno cominciato ad indagare sul giacimento, d’intesa e per proposito comune, i nostri amici si sono immediatamente resi conto che la situazione travalicava di molto le previsioni. Per quel che concerne l’interesse, io vorrei che loro stessi vi illustrassero le caratteristiche di questo giacimento perché io non saprei farlo ma non credo di rubare loro il mestiere dicendo che si tratta di un giacimento quasi unico in Europa; perlomeno ha pochi confronti in Europa per complessità, per importanza e per ricchezza di dati.

Nel momento in cui questa realtà nuova ci è apparsa con chiarezza, si è posto il problema di ridimensionare l’intervento che ci proponevamo di fare che in un certo senso, forse, io ho usato violenza nei loro confronti dicendo, anzi sottolineando, l’urgenza che l’intervento si protraesse, si approfondisse e diventasse molto più oneroso anche di quanto non era stato previsto in principio…».

 

Foto: Frammento osseo raccolto sabato 19 agosto 1978, con evidenti segni di scarnificazione eseguita con strumenti silicei.Particolare del paleosuolo. In primo piano un molare di elefante

 

Lo scenario del giacimento e le fasi dello scavo vengono descritti, nel medesimo convegno, dal prof. Benedetto Sala:

«Vi è stato appena detto come siamo venuti a conoscenza del giacimento di Isernia: da una segnalazione del sig. Solinas di Verona. Appena questo signore ci ha portati nel posto, ci siamo resi conto che il giacimento preistorico era molto importante perché si trovava ricoperto da una grande quantità di livelli, di strati che potevano fornirci una innumerevole quantità di dati scientifici sulla climatologia, prima di tutto, del Quaternario medio-recente.

Questi strati sono formati da dei livelli alluvionali e sono fluvio-lacustri, formati da sabbia e da ghiaie e sono stati ammassati in quel posto, perché proprio lì scorreva un tempo un fiume di una certa portata. Anche questo fiume, sedimentando questi strati, ha permesso anche all’uomo preistorico di allora di vivere, perché lasciava uno spazio abbastanza ampio vicino alle sue rive dove l’uomo ha costruito o costruiva stagionalmente l’accampamento di caccia.

L’uomo del paleolitico inferiore era un uomo cacciatore e viveva normalmente, per quello che possiamo sapere da tanti altri scavi effettuati nelle varie parti del mondo, viveva abitualmente vicino a corsi d’acqua e laghi, perché questi posti sono più frequentati dagli animali che devono giornalmente andarsi ad abbeverare. Qui quest’uomo cacciava gli animali che vivevano in questa zona ed erano per lo più numerose mandrie di bisonti, erano elefanti, dentro e lungo le sponde viveva l’ippopotamo, erano numerosi i rinoceronti e vivevano anche molti altri animali, come cervi giganteschi, che noi chiamiamo megaceri, vivevano dei piccoli cervidi che assomigliavano ai daini; tra i carnivori fino adesso abbiamo riconosciuto solo l’orso, che è molto frequente; è un orso non troppo grande, che assomiglia un po’ all’orso bruno attuale.

Che cosa è successo? Quest’uomo viveva vicino alle sponde del fiume, probabilmente rimaneva lì solo per un certo periodo dell’anno poi si spostava allo spostamento delle mandrie, anche per ragioni proprio di pascolo (infatti le mandrie si spostano anche adesso, se noi facciamo un confronto con gli ambienti africani dove vivono le grandi mandrie selvagge e popoli cacciatori che le seguono), seguivano anche gli uomini. Gli spostamenti di queste mandrie e di questi animali erano ciclici annuali. Durante il periodo di piena, il fiume ha inondato l’accampamento di questi uomini; probabilmente gli uomini avevano già abbandonato la zona durante il momento di piena e questa inondazione ha favorito la copertura ed ha sigillato almeno buona parte del deposito del “villaggio” e dell’ “accampamento” dell’ ”uomo”.

Dopo questa alluvione ve ne sono state parecchie altre che hanno continuato ad accumulare strati su strati in modo da sigillarlo completamente. Per fortuna, per coincidenza e per ragioni tettoniche, cioè per movimenti della crosta terrestre, il fiume è stato catturato più verso Isernia e quindi non ha più eroso i sedimenti che aveva depositato, così questi si sono conservati. Oltre a sedimenti fluviali si sono rinvenuti, nella sede al di sopra del deposito antropico, anche dei livelli vulcanici che ci danno la possibilità di fare studi stratigrafici accurati; vi sono poi  dei livelli molto importanti, alla base della serie, che non si trovano proprio sotto il giacimento, che noi possiamo seguire lungo la sezione della strada più  a monte e la serie inizia proprio con delle piccole brocchelle carsiche e terreni acetosi, poi continua con dei sedimenti di ambienti fra i tipi glaciali con cistelle, pietre che si staccarono. Poi iniziano i depositi fluviali e proprio in questi si trova il giacimento.

 

Chopping-tools in selce, raccolto il giorno della scoperta. È impugnato da un bambino di nove  anni; “Homo erectus, alto forse m 1,60 e con un peso corporeo di circa 55 kg, poteva benissimo impugnare strumenti anche abbastanza voluminosi.

 

Noi abbiamo fatto fino adesso due saggi di scavo: uno a sud della ferrovia (che sarà indicato come settore II – n.d.r.) ed abbiamo trovato una situazione, probabilmente proprio le zone dove l’uomo abitava più frequentemente e vi ha abbandonato numerosissimi resti. Di questi vi parlerà il mio collega, ma anticipo che fra questi resti, cioè fra questi strumenti che lasciava l’uomo, vi sono anche dei reperti faunistici. Abbiamo un dente di elefante, abbiamo anche alcuni denti di bisonte e abbiamo molte schegge di ossa lunghe, che l’uomo aveva l’abitudine di utilizzare il più possibile; dell’animale cacciato, cioè, apriva anche le ossa per potersi cibare del midollo. Invece a nord della ferrovia (settore I – n.d.r.) abbiamo visto in sezione spuntare una zanna di elefante; abbiamo fatto un primo sondaggio e siamo arrivati fino alla superficie di questa “tana” che ha oltre tre metri di profondità dal piano della campagna e lì è venuta fuori invece una grande superficie che ci ha restituito una quantità veramente notevole di resti, associati, anche quelli, ai resti dell’industria dell’uomo. Questi resti sono per lo più cranici.

Abbiamo, adesso che questo scavo è stato ampliato, messo in luce quasi una ventina di crani, mezzi crani di bisonte, abbiamo denti di elefante, abbiamo quattro frammenti di zanne di elefante, abbiamo due mandibole quasi intere ed altre frammentate, di rinoceronte, un cranio di rinoceronte, una mandibola ed altri resti dentari di orso; abbiamo ancora alcuni frammenti di ossa lunghe di elefante. Tutte queste sembrano adagiate, anzi sono adagiate volutamente in questa superficie che noi abbiamo scoperto; e perché diciamo volutamente? Perché se fosse stata casuale la deposizione di questi resti, non ci sarebbe stata una selezione di resti cranici. Inoltre, questi resti sono tutti circondati da ciottoli in buona parte lavorati dall’uomo e quindi siamo di fronte ad una struttura veramente particolare.

La cosa più importante è che di strutture di questo tipo, nel Paleolitico inferiore ce ne sono in Europa due o tre, diciamo tre, e però al momento questa sembra che possa essere la più antica. Questo lo diciamo perché gli strati che ricoprono questa superficie, prima ancora di fare le analisi per bene sui sedimenti, che ci porteranno via parecchio tempo nei laboratori, hanno potuto già fornire alcuni dati; cioè noi sappiamo che questi sedimenti che coprono il suolo antropico sono stati intaccati da suoli di tipo molto caldo, cioè in momenti climatici di interglaciale di tipo africano e, di tutti questi suoli ce ne sono almeno tre. Ora, se noi risaliamo (sappiamo che nel Quaternario vi sono stati dei periodi glaciali, cioè dei momenti freddi e dei momenti caldi), seguendo i momenti caldi dobbiamo risalire almeno tre glaciazioni oltre a questa, il che ci dà nuovi dati per poter datare almeno lungo la ferrovia a sud, ma relativa a tutto il deposito, e possiamo dire che è molto antico per il tipo di associazione faunistica.

L’elefante non è il mammut, come molti dicono quando vengono a vedere il deposito, ma è un elefante diverso: è l’Elephas (paleoloxodonta) antiquus Falconer e Cautley; è un animale abbastanza arcaico, è vissuto a lungo, però quel tipo di elefante antico non è molto evoluto. Oltre a questo c’è il bisonte: Bison cfr. schoetensacki Freudenberg, che non è molto evoluto, ed anche questo bisonte è un bisonte arcaico, il bisonte che si trovava in giacimenti di tipo Cromeriano…».

Vale la pena di soffermarsi su alcune delle affermazioni del prof.  Sala: in primo luogo egli afferma che gli strati che ricoprono questa superficie – cioè quella preistorica- sono di tipo molto caldo, cioè in momenti climatici di interglaciale di tipo africano, e di tutti questi suoli ce ne sono almeno tre e aggiunge che seguendo i momenti caldi, dobbiamo risalire almeno tre glaciazioni.

In base ad un rapido calcolo è evidente che Sala si riferisce alla terza glaciazione, quella del Mindel, poi al precedente interglaciale, Günz-Mindel, avvenuto tra 750.000 e 680.000 anni fa. A ciò va aggiunta l’individuazione del bisonte che si trovava in giacimenti di tipo Cromeriano. Sappiamo che la fauna di tipo Cromeriano si evolve tra i 780.000 ed i 600.000 anni dal presente: con le sue affermazioni Sala lascia intendere che il giacimento preistorico di Isernia si può far risalire ad un’epoca compresa tra i 750.000 ed i 680.000 anni fa.

Perché il prof. Sala non avanza questa ipotesi di datazione in modo chiaro ed aperto? La risposta va cercata probabilmente nel fatto che una simile datazione è assai insolita per un paleosuolo italiano e gli studiosi considerano azzardato affermare in pubblico datazioni tanto innovative se non hanno il conforto di dati verificati in modo sufficientemente approfondito.

Nel 1981 è stata effettuata una datazione con il metodo del potassio-argon sui sedimenti della colata vulcanica che ingloba la paleosuperficie del taglio n. 3a del I  settore di scavo; abbiamo quindi una datazione certa del giacimento preistorico di Isernia: esso risale a 736.000 più o meno 40.000 anni fa, confermandosi così il più antico abitato dell’uomo in Italia.

Degli strumenti litici fornì una descrizione particolareggiata, in occasione dello stesso convegno sull’Homo aeserniensis, il prof. Carlo Peretto:

«… lo credo che la prima cosa da dire immediatamente sia questa, cioè specificare con poche parole cosa sono questi “strumenti”, come sono fatti e, tramite questi strumenti, riuscire a sapere più o meno anche l’età stessa in cui sono stati costruiti.

Questi strumenti si dividono praticamente in due grossi gruppi. Il primo gruppo di strumenti è fatto su ciottoli di calcare (ciottoli fluviali) che l’uomo raccoglieva lungo il fiume e sono stati lavorati, sono stati diciamo fratturati, rotti intenzionalmente secondo certe tecniche particolari in modo tale da ottenere da questo ciottolo qualcosa di più appuntito, tagliente, acuminato. Questi ciottoli venivano, in genere, scheggiati ad una estremità, in modo tale da formare un tagliente oppure, diciamo, una specie di punta.

Questi tipi di strumenti rappresentano i primi strumenti che l’uomo in assoluto, parlando proprio in senso generale, ha fatto, ha costruito. Questi tipi di strumenti sul ciottolo vengono chiamati col termine inglese “choppers” e “chopping-tools”. Sono stati datati in Africa anche due milioni di anni o tre da oggi con sistemi di datazione basati sull’uranio, torio o potassio-argon.

Questo non vuol dire che questi strumenti hanno un’età di due milioni di anni. Noi supponiamo che l’uomo ha continuato a fare questo tipo di strumento per centinaia di migliaia di anni, li ha fatti centomila anni fa, anche ottantamila anni fa, però in questi casi questo tipo di strumento si trova associato ad altri tipi di strumenti più evoluti che qui nel deposito di Isernia non abbiamo trovato. Questa è la prima conferma dell’antichità del deposito. Il fatto  che noi troviamo in questo gruppo strumenti di tipologia, di forma così arcaica, senza elementi recenti, ci induce a pensare che l’uomo che ha formato questo deposito sia un uomo piuttosto antico, vecchio.

Accanto a questo gruppo di strumenti che sono, come vi ho detto, su ciottoli di calcare piuttosto grandi di dimensioni, vi è un altro gruppo di strumenti ottenuti con la selce. La selce è appunto conosciuta come pietra focaia, quella pietra che in alcune parti d’Italia viene considerata come formata dai fulmini. In realtà la selce è una pietra dura, in parte anche trasparente, di notevole durezza come quella del diamante (incide tra l’altro anche l’acciaio) e diciamo che appunto questo secondo gruppo di strumenti è fatto in selce ed è rappresentato da strumenti di piccole dimensioni. In genere vengono classificati secondo le varie terminologie come “denticolati clactoniani”. In questo gruppo gli strumenti denticolati clactoniani sono appuntiti oppure a forma di raschiatoio e sono anch’essi tipologicamente arcaici. La loro età? Sono stati trovati in Europa in depositi che sono stati datati a un periodo antecedente di trecentocinquanta o quattrocentomila anni. Però sappiamo che si possono anche trovare in momenti cronologici più antichi, anche che risalgono a novecentomila anni, un milione di anni fa.

Tutto questo che cosa significa? Che lo strumentario litico che noi abbiamo trovato, per le sue caratteristiche tecniche, tipologiche, è uno strumentario arcaico e per il momento di quattrocentomila anni.

Industrie: col termine industrie noi intendiamo tutto l’insieme degli strumenti di questo tipo che sono stati rinvenuti in Europa soltanto in pochi depositi. Si ricorda quello in Ungheria.

Strumenti sono stati trovati a Roma in depositi ancora da pubblicare, in ricerche condotte dall’Istituto Italiano di Paleontologia Umana. Però mai in situazioni analoghe a questa di Isernia.

Io ho visto infatti i ritrovamenti vicino a Roma: si tratta di poche decine di reperti associati a rara fauna su un fronte di sezione di parecchie decine di metri; quindi il materiale è molto diluito; molto probabilmente si tratta anche in questo caso di abitati ma non in situazioni così favorevoli come queste industrie trovate a Isernia. Sono sempre state trovate in Italia e, molto probabilmente, nei livelli più bassi di un altro deposito, quello di Venosa che si trova in Basilicata; però a livello di strumenti sono stati trovati ciottoli, almeno nei livelli inferiori, e insieme a questi denticolati clactoniani compaiono altri strumenti tipo raschiatoi che sembrerebbero dare a Venosa, cronologicamente, un’età più recente del deposito di Isernia…».

Anche il prof. Carlo Peretto ha capito che il giacimento paleolitico di Isernia è antichissimo, più di quello di Venosa, poiché la località di Venosa-Loreto viene cronologicamente datata a 500.000 anni dal presente. Prosegue Peretto:

«C’è un’altra cosa molto interessante. Qui ad Isernia l’accampamento doveva avere, ed ha attualmente un’estensione notevole: dovrebbe aggirarsi su alcune migliaia di metri quadrati. Infatti i reperti non sono stati rinvenuti soltanto lungo la sezione che noi abbiamo di già visto su un fronte di alcune centinaia di metri, ma i reperti provengono anche, per esempio, dalla costruzione del ponte della ferrovia; si tratta di alcuni reperti di elefanti. Il ponte della ferrovia si trova vicino al cimitero di Isernia, quindi abbastanza distante da dove stiamo lavorando noi: quindi, presumibilmente, tutto il deposito ha un’estensione notevole  (successivamente l’estensione del deposito è stata calcolata su un’area di almeno trentamila metri quadrati, enorme per un simile abitato preistorico n.d.r.).

Altra cosa sempre interessante di questo deposito è che esiste una differenza sostanziale tra i due settori di scavo che noi abbiamo vagliato. Nel primo settore, che è a ridosso della ferrovia, vi è una grande quantità di reperti e di strumenti su scheggia, di strumenti di selce, quelli che abbiamo definito prima come “denti colati clactoniani”, e una scarsa quantità invece di “choppers” e “chopping-tools” e cioè il primo gruppo di strumenti, quelli piuttosto grandi e notevolmente arcaici dal punto di vista tipologico. In questa area, inoltre, erano presenti soltanto piccoli frammenti di ossa, qualche dente di rinoceronte e un dente di elefante sparsi su una superficie  piuttosto ampia.

Sempre su questo primo settore abbiamo trovato, inoltre, una chiazza di argilla cotta, arrossata e sicuramente arrossata dal fuoco: da ritenere, quindi, che almeno l’uomo che abitava in queste zone conoscesse sicuramente il fuoco.

Questo è un dato piuttosto interessante: in Europa documenti sicuri dell’utilizzo del fuoco, da parte dell’uomo, sono stati trovati in Francia, vicino a Nizza, dove tra l’altro è stata trovata una capanna che poi è stata ricostruita in un museo. Però su Terra Amata c’è da dire questo: ha come paleolitico una certa percentuale di bifacciali, cioè di strumenti che, noi dicevamo, compaiono un po’ dopo nell’insediamento di Isernia e Terra Amata e difatti viene datata a fine del Mindel, cioè addirittura, grosso modo, intorno ai trecentocinquantamila anni da oggi.

Sembrerebbe, quindi, questo di Isernia, se non il più vecchio sicuramente uno dei più vecchi dell’utilizzo del fuoco da parte dell’uomo preistorico.

C’è da dire, tornando al discorso di prima, che in quella prima area noi abbiamo trovato una chiazza di argilla cotta, abbiamo trovato questa serie di strumenti piuttosto piccoli, pochi “choppers” e “chopping-tools”, poca fauna.

Nella seconda area, a distanza di circa cento metri dalla ferrovia, abbiamo trovato una situazione completamente differente, sembra completamente ribaltata. Abbiamo una enorme quantità di “choppers” e “chopping-tools”, cioè di strumenti su calcare di notevoli dimensioni accompagnati a grossi frammenti di fauna, cioè di ossa, crani di bisonte, ossa lunghe di elefante, zanne, ecc.

E’ molto probabile che le due aree che noi abbiamo sondato dovessero essere due aree differenti adibite ad attività differenti. La presenza nella prima area del fuoco, di questa specie di focolare oltre questa quantità di strumenti piccoli ed anche la presenza di piccoli frammenti di fauna dovrebbero veramente trattarsi di un’area in cui l’uomo ha anche costruito delle capanne; non c’è da escludere, cioè, che nell’area c’era veramente una capanna. L’interpretazione che si può dare a questo settore, così un po’ a caldo, è che era un’area abitativa con capanne. La presenza del focolare lo dovrebbe documentare definitivamente. Anche se in questa prima area mancano chiari segni di fori di pali, per esempio, (e questo non perché abbiamo scavato male noi ma proprio perché il tipo di deposito in quell’area non ha permesso la conservazione di eventuali fori di palo), quindi strutture più dettagliate lasciate da eventuali capanne.

La seconda area, invece, ricca di reperti piuttosto grandi e ricca di strumenti “choppers” e “chopping-tools” di notevoli dimensioni, per il momento è un po’ anche per noi un interrogativo sapere esattamente cosa fosse. Si è sentito da parecchia gente che veniva a vedere il deposito che diceva: “può darsi che sia un macello, può darsi che sia una zona in cui l’uomo spaccava le ossa”. E’ altrettanto vero che noi troviamo, per esempio, dei bisonti, soltanto le due corna che si uniscono, non troviamo la parte anteriore del bisonte, per esempio il palato (ne esiste uno su venti-venticinque individui); non esistono neppure le mandibole del bisonte, esiste al momento soltanto il palco superfacciale. Dell’elefante non esistono il cranio ma soltanto le ossa e le zanne e le ossa lunghe del rinoceronte; esistono crani e mandibole dell’orso: cioè sembra che sia non soltanto una scelta di parti di animali ma addirittura una scelta di parti di crani di bisonte, addirittura il palco del bisonte.

Al momento attuale, ripeto, non è facile riuscire a capire esattamente di questa seconda area quale fosse la funzione e quale il significato di quest’area abitativa. Molto probabilmente, soltanto allargando il deposito e rendendo più ampio respiro alla superficie dell’abitato si riuscirà a dare un’interpretazione logica di quello che stiamo facendo.

 

Paleosuperficie del suolo d’abitato del I settore, taglio 3a, con i grosssi massi di travertino disposti a semicerchio.

 

Vorrei dire due cose sull’uomo. L’Homo aeserniensis: noi non abbiamo ancora trovato resti umani, però sapendo l’età in cui questo accampamento si è formato, sapendo quale era il tipo di uomo che viveva in quel periodo in altre parti d’Europa o anche in Africa e in Asia, possiamo già ipotizzare che tipo di resti umani potrebbero esserci nell’ipotesi di un ritrovamento…

Possiamo dire che l’Homo aeserniensis è un individuo che sicuramente viveva in comunità a Isernia e che doveva essere piuttosto notevole in quanto a numero. Impossibile dire quanti fossero: decine, centinaia di individui. Faceva quindi una vita sociale, di gruppo. Questa vita di gruppo l’uomo l’ha acquistata quando all’inizio ha sentito il bisogno di procurarsi il cibo e di difendersi. L’uomo ha conquistato la savana non camminando a quattro zampe, ma lo ha fatto camminando su due piedi e si è ritrovato quindi con le mani libere, il che segna sicuramente l’inizio di uno sviluppo psichico superiore.

Ma  quest’uomo, pur avendo assunto la posizione eretta simile alla nostra, aveva una capacità cranica inferiore alla nostra; tuttavia si era già organizzato in gruppi con delle strutture sociali ben coordinate. Sicuramente l’uomo ha cominciato a cacciare in gruppo, perché soltanto con la caccia organizzata si giustifica la caccia sistematica, come avveniva qui ad Isernia, di rinoceronti, bisonti, ecc., animali che certo non potevano prendere da soli con i mezzi che avevano.

Quindi vorrei sottolineare questo: che l’ Homo erectus aeserniensis ha un notevole sviluppo e lo notiamo sia nella struttura dell’accampamento, sia nell’utilizzo del fuoco; quindi era in equilibrio con l’ambiente in cui viveva. Non c’è da pensare che fossero individui disagiati o esposti a pericoli; anzi, si presume che vivessero abbastanza bene. Non era un uomo scimmia, mentre gli antenati dell’Homo erectus, quelli che sono chiamati Australopitechi, avevano un carattere scimmiesco, ma risalgono a cinque milioni di anni fa. Questo un approssimativo ritratto dell’ Homo aeserniensis».

 

Convegno di Firenze (1980).

Dopo questo primo convegno a carattere locale ne fu organizzato un secondo, l’anno successivo, in forma ufficiale e a carattere scientifico, dall’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, che ne ha pubblicato le relazioni negli Atti della XXIII riunione scientifica sul tema:  “Il Paleolitico inferiore in Italia”, Firenze 7-9 maggio 1980, (volume edito a Firenze nel 1982).

Trattandosi del primo studio a carattere scientifico sul paleosuolo di Isernia, è opportuno riportare alcuni stralci de L’accampamento preistorico di Isernia La Pineta, di M. Coltorti, M. Cremaschi, A. Guerreschi, C. Peretto e B. Sala (pagine 577 – 585, passim):

« … Sono stati così eseguiti due saggi di scavo, uno a sud del rilevato ferroviario (sett. II) ed uno a nord dello stesso (sett. I), per complessivi mq 120 circa …»

 

I depositi

 

I livelli antropici di Isernia La Pineta sono contenuti in sedimenti fluvio-lacustri e fluviali dell’unità morfologica più antica del bacino di Isernia…

Numerose coltri di tufo sono intercalate nel riempimento principale; già nella serie lacustre più profonda si trovano tufi grigi poveri in pomici e sanidino. Più in alto nella serie si trovano tufi, soprattutto bruni, in parte rimaneggiati, ma tutti ricchi in sanidino, contenente grandi cristalli di biotite e pomice di un centimetro di diametro. Si ritiene, sia pure in via preliminare, che l’attività vulcanica responsabile della messa in posto di tali tufi, abbia proceduto di pari passo con quella del vicino sistema di Roccamonfina.

 

Foto:  Rilievo del suolo d’abitato t. 3a. Verso S/W si nota un aumento della concentrazione dei reperti.

 

(Grafico tratto, per gentile concessione dall’Editore, da Le strutture d’abitato dell’accampamento paleolitico di Isernia La Pineta. Prime considerazioni, di Gianni Giusberti, Antonio Guerreschi, Carlo Peretto, in ISERNIA LA PINETA: un accampamento più antico di 700.000 anni, Calderini Editore, 1983).

Recenti studi indicherebbero che l’attività del vulcano di Roccamonfina si è ininterrottamente evoluta tra 1,54 m. a.  a  0,34 m. a. ca. …

“ il più antico livello archeologico esplorato, appoggia direttamente su un banco di travertino, pedogenizzato al tetto. Una coltre di limi  d’esondazione su cui appoggia la superficie d’abitato principale, ricopre il travertino. Segue una coltre colluviale di ciottoli, grossi massi e limo, molto arricchito di pirosseni, sanidino, ecc. Il deposito è poi suggellato da sedimenti fluviali sabbiosi poi ciottolosi, intercalati da livelli di tufi e paleosuoli.

Dal punto di vista geostratigrafico i livelli archeologici sembrano aver interessato un escursus cronologico piuttosto breve…”

 

 

Rilievo del suolo d’abitato t.3a.  ricostruito in Museo, relativo alla zona di maggiore concentrazione dei reperti, dopo l’asportazione di alcuni blocchi di travertino e di parte dei reperti più superficiali. Al di sotto, a diretto contatto con questi resti, lo scavo ha accertato la presenza di numerose altre ossa di grande dimensioni, strumenti e ciottoli in calcare e in travertino.

 

(Grafico tratto, per gentile concessione dall’Editore, da Le strutture d’abitato dell’accampamento paleolitico di Isernia La Pineta. Prime considerazioni, di Gianni Giusberti, Antonio Guerreschi, Carlo Peretto, in ISERNIA LA PINETA: un accampamento più antico di 700.000 anni, Calderini Editore, 1983).

 

Le faune

 

Il giacimento in esame ha restituito fino ad ora una grande quantità di resti faunistici. Il materiale attualmente in studio è rappresentato da resti di pasto, frutto della caccia a bisonti, orsi e pachidermi, ed è formato da frammenti di vertebre, costole, bacini e crani e da epifisi di ossa lunghe; gli unici reperti interi sono denti, seconde e terze falangi e ossa carpali e tarsali, quel materiale cioè privo di midollo…

Ad una grande quantità di resti venuti alla luce non corrisponde però un numero elevato di specie. L’animale più frequente è il bisonte (Bison cfr. schoetensacki Freudenberg) con circa il 40-45% dei reperti determinati, a cui fa seguito il rinoceronte (Dicerorhinus cfr. hemitoechus Falconer) con circa il 30%, l’orso (Ursus deningeri von Reichenau) e l’elefante (Elephas antiquus Falconer). Raro è l’ippopotamo (Hippopotamus sp. cfr. amphibius L.) e rarissimi sono i cervidi rappresentati per lo più da frammenti di palchi di cui almeno uno appartenente a un megacero…

 

I roditori presenti sono:

 

Clethrionomys sp.

Microtus arvalinus Hinton

Pitymys cfr. arvaloides Hinton

Arvicola cfr. mosbachensis Schmindtgen

Mentre i resti dei grossi mammiferi permettono l’attribuzione cronologica della fauna ad un generico Pleistocene medio, i micromammiferi, seppure scarsissimi fanno propendere per un momento avanzato del “Cromeriano”…

Si suppone perciò che a Isernia La Pineta sia rappresentato un momento climatico particolare a due stagioni, una umida di breve durata, e una molto più lunga, arida, tali da creare un ambiente aperto a steppa o steppa-prateria arborata, ottimale per la sopravvivenza di numerosi pachidermi e di branchi di bisonti.

 

I resti antropozoici

 

Nel II settore di scavo di circa 68 mq, è stato esplorato un livello antropico intaccato parzialmente dalla pedogenesi che aveva contribuito a decalcificare parzialmente i resti ossei. Sono state accertate zone di forte concentrazione di manufatti litici, per lo più di piccole dimensioni, gli strumenti sono rappresentati da denticolati e incavi a stacchi clactoniani, sono presenti punte di Tayac…, rari i raschiatoi, pressoché assenti i choppers. Con l’industria litica sono stati raccolti… resti dentari di bisonte, rinoceronte, elefante ed orsi.

Nel I settore di scavo di circa 53 mq, posto a nord del rilevato ferroviario, a circa 4 metri di profondità, è venuta alla luce una superficie in cui l’uomo preistorico aveva adagiato una ventina di crani di bisonte, crani, mandibole e denti di rinoceronte, ippopotamo, orso e zanne, molari e ossa lunghe di elefanti ed inoltre strumenti litici fra cui sono frequenti i choppers, ricavati quasi sempre da ciottoli calcarei, e manufatti in selce di piccole dimensioni; fra questi ultimi sono frequenti i denticolati a stacchi clactoniani; rari sono i raschiatoi…

Nel 1980, sempre nel I settore di scavo e al di sotto della paleosuperficie appena descritta e da questa separato da un livello sterile di circa 50 cm di spessore, è stato esplorato un altro livello antropico. Esso si presenta meno ricco del precedente, poggia su un banco di travertino ed è formato da industrie litiche e da resti faunistici del tutto simili a quelli della superficie superiore …».

Scoperta dell’ocra rossa.  Le ricerche e gli scavi sulla paleosuperficie del I settore del taglio n. 3 continuarono dopo il convegno di Firenze. Una novità di eccezionale rilievo fu il rinvenimento di alcuni ciottoli di calcare e frammenti di travertino, tinti con ocra rossa. Questa scoperta permette di affermare che l’uomo di Isernia fu il primo, in Europa, ad usare le sostanze coloranti; secondo il grande studioso francese A. Leroi-Gourhan  questi elementi sono sufficienti per aprire, in favore dei Paleantropi, l’accesso ad atti che oltrepassano la semplice attività di sopravvivenza naturale.

Con questa ulteriore scoperta si retrodata l’uso del colore di 350.000 anni: va ricordato infatti che le prime materie coloranti furono rinvenute nel paleosuolo di Terra Amata, risalente a circa 380.000 anni fa. Pertanto, nella cronologia dell’era Quaternaria, il paleosuolo di Isernia diventa un caposaldo nelle tappe principali dell’evoluzione umana e viene inserito nella terminologia scientifica mondiale il periodo noto come stadio di Isernia. .

 

L’importanza del sito.

 

Carlo Peretto e Marcello Piperno, nel catalogo della mostra veneziana del 1985 imperniata sul paleosuolo di Isernia, dal titolo Homo. Viaggio alle origini della storia, scrivono:

«Si può forse capire meglio l’importanza di un sito come quello di Isernia. Tutto ciò che poche decine di migliaia di anni prima appare estremamente confuso, indeterminato, frammentario nella cultura umana, ridotto a pochi sassi scheggiati e mal datati, è, alla soglia di 736.000 anni fa, improvvisamente condensato, con il massimo dell’evidenza e della precisione, in un enorme sito.

Strutture, articolazione complessa dell’area di insediamento, associazione faunistica di primaria imponenza, resti vegetali, possibilità di precise datazioni assolute, fortissime concentrazioni di manufatti in contesto originario, probabile presenza del fuoco e utilizzo dell’ocra.  Isernia non è che uno dei tanti siti che dovettero esistere nel continente europeo e in Italia in quell’epoca: campi-base di lunga durata frequentati da gruppi umani già socialmente complessi; ma è anche, finora, l’unico che sia pervenuto, praticamente intatto, fino a noi…

Nel periodo compreso tra i 700.000 e i 500.000 anni fa, età quest’ultima, lo ricordiamo, del più antico sito acheuleano datato finora noto nel nostro paese, non vi è nulla di paragonabile a Isernia per grandiosità di informazioni… .

Se si è proposta la denominazione di stadio di Isernia per l’epoca che in qualche modo si pone tra gli inizi del popolamento della penisola e la fase acheuleana, ciò è dipeso soprattutto da considerazioni di ordine tipologico…».

 

Riunioni di Venosa e Isernia (1991).

 

Dal 26 al 29 ottobre 1991 si svolge, a Venosa e ad Isernia, la XXX riunione scientifica dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, dal tema Paleosuperfici del Pleistocene e del primo Olocene in Italia. Processi di formazione e interpretazione.

Durante i lavori di questa riunione scientifica alla paleosuperficie di Isernia è dedicato uno spazio preminente, con ben tre comunicazioni di cui si riportano alcuni brani, tratti dalle pagine 197-208, passim, degli Atti pubblicati dall’Istituto stesso nel 1993. La prima comunicazione di cui riferiamo è quella presentata dai professori G. Gusberti, M. Ferrari e C. Peretto, con titolo Struttura della paleosuperficie t. 3a del I settore di scavo di Isernia La Pineta (Molise):

«1. Premessa. Una datazione assoluta (K/Ar) eseguita su cristalli di sanidino prelevati dal sedimento ricoprente la paleosuperficie t.3a del I settore di scavo … ha fornito un’età di 736.000 +/- 40.000 anni dal presente …

Fino ad oggi sono stati esplorati, in due settori di scavo, tre distinti suoli d’abitato.

La paleosuperficie t.3a del I settore è la più ricca di reperti paleontologici e paletnologici. Questa è stata fino ad ora esplorata su un’area complessiva di circa 150 mq … In relazione alla distribuzione generale dei materiali sulla paleosuperficie finora scavata sono state individuate le seguenti zone…

Zona1) I reperti ossei sono fortemente fratturati e piuttosto deformati a causa dei fenomeni neotettonici che hanno interessato il deposito; numerosi risultano i manufatti litici. Qui il suolo archeologico t.3a si trova, a differenza di quanto accade nelle altre zone, a diretto contatto con la paleosuperficie sottostante t.3c, formatasi su una bancata di travertino …

Zona 2) Questa zona si caratterizza per una forte concentrazione di ciottoli, più spesso di calcare, con diametri di circa 10-20 cm, posti a diretto contatto col limo lacustre … essi tendono a delimitare un’area subcircolare in cui sono raccolti numerosi resti faunistici.

Zona 3) I resti ossei e i ciottoli di calcare e di travertino ricoprono il limo lacustre sovrapponendosi talvolta gli uni agli altri.

Zona 4) Si caratterizza per la grande concentrazione dei resti faunistici che si sovrappongono gli uni agli altri per uno spessore dell’ordine di 10-40 cm. I ciottoli di calcare, e soprattutto i blocchi di travertino, si trovano non solo affiancati ai resti ossei, ma spesso tendono a ricoprirli. Alla base di questa zona si riscontrano tracce di resti vegetali di non chiarita tipologia (legni?) disposti orizzontalmente.

Zona 5) La concentrazione dei reperti diminuisce progressivamente, i reperti non si sovrappongono e talvolta sono leggermente distanziati gli uni dagli altri.

 

2. La porzione di paleosuperficie esaminata

 

Allo stato attuale delle ricerche è stata particolarmente approfondita l’indagine sulle quantità e sulla distribuzione spaziale dei reperti di un’area di circa 24 mq… Questi tendono ad aumentare, sia orizzontalmente che verticalmente, passando da est a ovest, con un massimo nella parte adiacente allo sbancamento stradale responsabile della distruzione della paleosuperficie verso SE…

 

3. Specie animali presenti

 

Sull’area presa in esame sono stati identificati resti di: Ursus cfr. deningeri von REICHENAU, Elephas (Paleoloxodonta) antiquus FALCONER E CAUTLEY, Dicerorhinus hemitoechus FALCONER, Hippopotamus amphibius L., Bison schoetensacki FREUDENBERG.

Sono stati riconosciuti inoltre resti di Megaceros sp. e di altri cervidi non meglio determinati. Si segnala la presenza di una placca ossea di un testudinato…».

Setacciando il terreno della paleosuperficie sono stati raccolti anche resti ossei di cinghiale Sus scrofa L., daino Dama sp., cervo Cervidae gen. et sp. indt., leone Panthera Leo fossilis von Reichenau, lepre Lepus sp., micromammiferi roditori Microtinae: Pliomys episcopalis Mèhely, Clethrionomys sp., Pliomys cfr. lenki Heller, Pliomys lenki Heller, Microtus gruppo arvalis-agrestis, Microtus arvalinus Hinton, Microtus brecciensis Giebel, Arvicola mosbachensis Schmindtgen; si raccolsero anche resti di uccelli acquatici, tra cui quelli del tuffetto Tachybaptus ruficollis e del germano reale Anas platyrhynchus; inoltre vertebre di rettili, anfibi e pesci. Destò sorpresa il ritrovamento ad Isernia di resti dentari del Tar Hemitragus sp. cfr. bonali Harlè e Stehlin, una specie di robusta capra selvatica scoperta per la prima volta in Italia e tanto a sud, poiché si riteneva che questa specie non avesse mai oltrepassato le Alpi.  Oggi il Tar,  in forma evoluta, vive nella regione himalayana, nelle montagne dell’India meridionale e sulla catena dei monti Oman in Arabia (per un ulteriore approfondimento sulla fauna si veda I reperti paleontologici del giacimento paleolitico di Isernia La Pineta, l’uomo e l’ambiente a cura di C. Peretto, Istituto per gli studi storici del Molise “V. Cuoco”, Cosmo Iannone editore, 1994).

 

La comunicazione dei tre studiosi alla riunione scientifica del 1981 così prosegue:

 

«4. Tipologia, distribuzione e frequenza dei reperti ossei …

Sulla paleosuperficie esaminata sono presenti 722 frammenti ossei … Di questi ne sono stati determinati a livello di singola specie 365. Altri 157 frammenti ossei sono stati conteggiati per categorie sistematiche raggruppate…

Numerosi sono i resti craniali (15%), mentre minore è la frequenza delle vertebre (10,7%)…

Orso: è presente con 15 reperti (2,1%) … in maggioranza mandibole e frammenti di ossa lunghe.

Elefante: è presente con 82 reperti (11,4%) … Il  32,9% dei frammenti ossei di elefante è costituito da resti dentari, per lo più frammenti di zanne. Relativamente frequenti sono anche i resti di coste (22,2%). Si sottolinea la totale assenza di ossa della scatola cranica … I resti di elefante si distribuiscono prevalentemente nel settore ovest della paleosuperficie esaminata con resti anche di grandi dimensioni.

Rinoceronte: è presente con 103 reperti (14,3%) … Sono particolarmente abbondanti i resti cranici … Frequenti sono anche i resti dentari e i frammenti mandibolari.

I frammenti cranici di questa specie sono distribuiti soprattutto nel settore Est.

Bisonte: è rappresentato da 162 frammenti ossei (22,4%) … numerosi sono soprattutto i resti cranici (20,4%) … Il bisonte, comunque, risulta ben rappresentato anche da altre porzioni anatomiche come, ad esempio, le ossa degli arti …

Per quanto riguarda la distribuzione spaziale, i resti del bisonte presentano una sostanziale omogeneità, si rileva comunque una maggior concentrazione di frammenti cranici nella zona di maggior accumulo centrale.

Cervidi: sono presenti 13 reperti 9 dei quali rappresentati da corna di megacero …

 

8. Blocchi, ciottoli e frammenti di travertino

Sono presenti con 1.256 reperti; si tratta di ciottoli di varie dimensioni e talora anche di grossi blocchi che presentano diversi gradi di alterazione e di fratturazione. Talora appoggiano direttamente sul limo lacustre (t.3b), che costituisce la base della paleosuperficie, più spesso invece sono mischiati alle ossa o le ricoprono.

I frammenti più grandi sono disposti in prevalenza lungo il margine ovest, a sud le dimensioni dei ciottoli sono più ridotte. Verso est la loro presenza tende a diminuire. Cinque grossi blocchi di travertino, che presentano un andamento subcircolare, sono posti al centro dell’area qui esaminata, due di questi sno a diretto contatto del limo (t.3b), tre invece poggiano su una grande quantità di frammenti ossei anche di grandi dimensioni.

 

Fig.1 – Isernia la Pineta. Paleosuolo taglio 3a i settore: Rappresentazione schematica della suddivisione in zone secondo la diversa concentrazione e qualità dei reperti della superficie scavata. ( Da Giusberti, Ferrari, Peretto, 1993)

 

9. Ciottoli di calcare e lastrine di selce non ritoccati

Sono presenti 70 lastrine, 66 in selce e 4 in calcare; si annoverano inoltre 214 ciottoli di cui 13 in selce e 201 in calcare. Ricordiamo, ancora, 15 frammenti di ciottoli in calcare.

Le dimensioni dei ciottoli risultano abbastanza varie con valori di lunghezza e larghezza compresi, rispettivamente, tra 20-120 mm e 20-80 mm. I reperti in calcare sono presenti in maggior quantità verso il limite sud, in questa parte si addensano anche numerosi ciottoli di travertino mentre sono molto scarsi i resti ossei. E’ possibile osservare che nella parte centrale della paleosuperficie presa in esame i ciottoli in calcare appaiono molto radi e di piccole dimensioni. In questa area frequenti sono invece le ossa e più numerosi i ciottoli in selce.

10. L’industria fitica in selce e calcare

Consta complessivamente di 130 reperti dei quali 72 in calcare e 58 in selce. Considerando la totalità dei reperti in calcare e selce lavorati non si osserva che la selce risulti più sfruttata del calcare per la scheggiatura.

Per quanto riguarda l’industria su ciottolo si ricorda la presenza di choppers, chopping-tools, rabots e numerosi nuclei; l’industria su scheggia, prevalentemente in selce, è, invece, nettamente dominata da strumenti denticolati, per lo più ottenuti con ritocco sopraelevato sommario…

Si rileva una sostanziale correlazione tra materia prima utilizzata e prodotto ottenuto: la selce, infatti, è maggiormente sfruttata per produrre strumenti su scheggia di piccole dimensioni, il calcare, invece, è utilizzato per ottenere strumenti su ciottolo di maggiori dimensioni. .

Gli elementi litici lavorati nel loro complesso sono distribuiti prevalentemente a semicerchio; ciò vale in particolare per i reperti in calcare. Essi si dispongono per lo più all’esterno dei grandi blocchi di travertino individuati al tetto della paleosuperficie (si veda paragrafo 8); nell’area centrale la presenza di reperti litici è sporadica.

11. Considerazioni conclusive

L’area analizzata in questo lavoro (circa 24 mq) pur rappresentando una piccola porzione della superficie fino ad ora messa in luce (circa 150 mq), ha restituito un elevato numero di reperti ossei appartenenti almeno ad una cinquantina di individui (M.N.I.) principalmente rappresentati da bisonti e rinoceronti (si veda paragrafo 4). Ciò difficilmente sembra armonizzarsi con una frequentazione di breve durata di un’ gruppo umano numericamente limitato.

D’altra parte non ci sono prove per ipotizzare l’attività di un gruppo umano numeroso. Non vi sono, poi, allo stato attuale delle ricerche, evidenze che consentano di avanzare la tesi di una frequentazione pluriennale del sito, magari con cadenze stagionali.

A nostro avviso è ancora prematuro avanzare precise ipotesi in relazione alla grande quantità di reperti ossei e litici, i quali evidentemente rappresentano una testimonianza di attività umane complesse. A tale proposito molti dati sembrano riconducibili ad una attività di macellazione; fra questi ricordiamo la presenza di ossa fratturate intenzionalmente, di elementi ossei in connessione anatomica, di un maggior numero di frammenti di arti anteriori rispetto ai posteriori, nel bisonte e nel rinoceronte e ancora la scarsità di vertebre in rapporto al Minimo Numero di Individui calcolato. Questi dati, Soprattutto quelli relativi agli arti e alle vertebre potrebbero indicare il trasporto di parti di carcasse di animali, ad esempio dal luogo dell’abbattimento al sito qui scavato (trasporto di quarti anteriori o posteriori, di porzioni craniche, ecc.), oppure dal sito ad altro luogo (ad esempio di porzioni toraciche).

Le particolari distribuzioni subcircolari dei travertini, dei ciottoli incalcare e degli elementi lavorati potrebbero accordarsi con la presenza di una qualche struttura abitativa edificata al di sopra della superficie e comunque non sembrerebbero poter contrastare con l’ipotesi di una intensa attività di macellazione».

La seconda comunicazione, presentata alla riunione scientifica del 1991 dagli studiosi P. Anconetani, G. Gusberti e C. Peretto, verteva Su alcuni nuovi reperti di bisonte (Bison schoetensacki Freudenberg)  con tracce di fratturazione intenzionale del giacimento paleolitico di Isernia La Pineta.

Ancora il prof. Carlo Peretto, assieme ai colleghi Ferrari e Vianello, era autore della terza comunicazione, intitolata L’industria litica del II  settore di scavo di Isernia La Pineta (Molise, Italia): caratteri tecnico-tipologici e distribuzione areale dei reperti (pag. 219). Qui sotto la presentazione dello studio.

«Il II  settore di scavo di Isernia La Pineta … esplorato su una superficie rettangolare di circa 19 x 5 m, ha restituito reperti osteologici (piccoli frammenti di diafisi e scarsi resti dentari) e forti concentrazioni di manufatti litici ricavati esclusivamente da selce (4.589 oggetti, così ripartiti: 1.296 strumenti, 100 nuclei, 1.529 schegge e 1.664 frammenti indeterminabili). In questa nota si presenta una sintesi delle osservazioni sulle principali caratteristiche tecniche e tipologiche dell’industria e sulla distribuzione plani metrica dei manufatti…».

Nel riassunto della comunicazione dei professori Peretto, Ferrari e Vianello si legge quanto segue (pag. 230).

«Fra le principali caratteristiche tecniche dei manufatti litici del II settore di Isernia, ricavati esclusivamente da selce per lo più di scadente qualità, si evidenziano: le ridotte dimensioni; i talloni lisci, estesi e fortemente inclinati, spesso interessati dal ritocco; l’elevata frequenza di schegge fratturate intenzionalmente, di oggetti a faccia ventrale diedra o triedra e di tracce dell’impiego di una tecnica bipolare; la fortissima affermazione di un ritocco sopraelevato sommario la cui localizzazione è indipendente dall’orientamento del supporto. Nel repertorio degli strumenti appaiono frequentissimi spine o becchi e denticolati, che insieme superano il 90%; ben rappresentati anche incavi, grattatoi frontali, grattatoi a muso dégagé e planes. Spesso gli apici di spine e becchi appaiono interessati da minuscoli stacchi lamellari sopraelevati, derivanti forse da un particolare uso, e tendono così a sfumare verso le morfologie dei grattatoi a muso dégagé.

La distribuzione planimetrica dei manufatti sulla superficie di scavo, di circa 19 x 5 m, indica una forte concentrazione degli elementi in un’area di circa 40 mq, in cui le frequenze relative dei reperti in rapporto alla loro tipologia appaiono del tutto simili a quelle riscontrate per la totalità degli oggetti. Le schegge si concentrano particolarmente in alcuni quadrati (qq. 51 e 61 e qq. 23 e 34) e sembrano disporsi per lo più lungo il perimetro dell’area di massima densità di tutti i reperti».

Di questa stessa comunicazione fanno parte anche gli studi: Orientamento dei reperti ossei e Segmenti ossei in posizione anatomica e resti combacianti.

 

RICOSTRUZIONE DELL’AMBIENTE

 

La città di Isernia si trova al centro di un bacino inframontano delimitato dalla catena montuosa delle Mainarde, a ovest, e dall’altopiano del Matese, a sud. Isernia ha alle sue spalle due vaste pianure: a est la piana attraversata dal fiume Carpino; a nord la piana da cui nasce il fiume Sordo. Questi due corsi d’acqua scendono verso sud incidendo profondamente la loro valle e creando così lo sperone di travertino su cui nacque l’abitato. Ad est il Carpino, quasi ai piedi della città, diventa affluente del torrente di Longano, mentre il Sordo, a nord della città, raccoglie le acque del fiume Rava, poi scende ad ovest dell’abitato per unirsi, a sud, con il torrente di Longano formando il fiume Cavaliere. Quest’ultimo, raccolte le acque del torrente Vandra e di tutti gli altri corsi che nascono attorno ad Isernia, si getta, poco a sud-est di Montaquila, nel fiume principale della valle: il Volturno.

Un altro corso d’acqua piuttosto importante nelle vicinanze di Isernia è il torrente Lorda che, scendendo da Castelpizzuto, si immette nei piano di San Vito, affiancando il Cavaliere, per confluire poi anch’esso nel Volturno.

Com’è evidente, quindi, i bacini idrici più importanti dell’alta valle del Volturno sono due: quello dell’altopiano di Rocchetta a Volturno (dove sorge l’Abbazia di San Vincenzo al Volturno), caratterizzato dalla presenza delle sorgenti del fiume, e l’area intorno ad Isernia con il quadro idrografico descritto. Scendendo lungo la sua valle, a sud di Venafro il Volturno trova una prima chiusa, formata dai monti San Leonardo e Cappella; una seconda chiusa si trova tra il Monte di San Ferdinando ed il Monte Monaco. Questo complesso sistema di rilievi e corsi d’acqua disegna ai piedi di Isernia un grande bacino idrico racchiuso tra le Mainarde a ovest, l’altopiano del Matese ad est, il vulcano  di Roccamonfina ed il Monte Maggiore a sud.

Questa è la situazione geologica attuale, ma alla fine dell’interglaciale Donau-Günz, circa 1.200.000 anni fa, il paesaggio attorno ad Isernia era completamente diverso. In quel lontanissimo periodo, il panorama geologico doveva apparire molto simile all’altopiano del Matese o alla pianura di Boiano: l’area oggi occupata dall’abitato doveva trovarsi vicina a modesti rilievi montuosi o collinari che facevano corona a una vastissima pianura ricca di acqua, solcata da fiumi e con zone lacustri nella parte centrale. L’ambiente botanico è stato magnificamente ricostruito dalla prof.ssa Carla Alberta Accorsi analizzando le argille, sedimentate e poi sezionate dall’incisione del fiume Cavaliere, poco lontano dall’abitato paleolitico, poi descritte nella mostra veneziana del 1985:  Homo. Viaggio alle origini della storia. L’apporto della palinologia nella ricostruzione dell’ambiente; (ma vedi anche: I reperti paleontologici del giacimento paleolitico di Isernia La Pineta, l’uomo e l’ambiente a cura di C. Peretto, Istituto per gli studi storici del Molise “V. Cuoco”, Cosmo lannone editore, 1994).

Sulle montagne attorno all’area dell’attuale abitato si trovavano foreste, piuttosto folte, di conifere: pini, abeti, tsuga, cedri, ginepri (queste specie non appartengono più alla flora spontanea attuale, essendo state sostituite con il passare degli anni, per evoluzione, da altre specie della stessa famiglia). Sulle colline la flora a latifoglie era composta da frassini, querce, carpini di tipo betulus e orientalis, carpini neri, castagni (anche queste specie erano diverse dalle attuali) e Zelkova ulmacea pontica, una pianta simile agli olmi attuali, considerata uno dei più interessanti ed eleganti alberi rustici del Caucaso, dunque scomparsa dal nostro territorio.

Nel fondo delle valli e ai piedi delle colline, nelle zone umide, crescevano lecci, ontani, salici. Le erbacee erano in prevalenza composte da graminacee e dalle cicorie.

Secondo questa ricostruzione, dunque, si può affermare che nel bacino inframontano di Isernia si trovava un ambiente di foresta con clima temperato-fresco, simile a quello attualmente rilevabile in Asia orientale e nel Caucaso; ci si stava perciò avviando verso la glaciazione Günziana.

Duecentomila anni dopo (un milione di anni fa), alla fine del Pleistocene inferiore e dunque nel mezzo della glaciazione Günziana, il paesaggio attorno al bacino di Isernia doveva essere cambiato completamente: sulle montagne e sulle colline la foresta non è più fitta, si ha un panorama aperto con praterie pressappoco simili alla steppa. La foresta è dominata principalmente da conifere, soprattutto pini, poche betulle, tassi e basso agrifoglio; sono scomparsi il cedro e la Zelkova. Resiste ancora, tuttavia, un certo numero di latifoglie: querce, carpini e frassini e, nelle zone umide, salici e ontani. Dominano su tutto il territorio le piante erbacee; le più frequenti sono le cichorioidaeae (comunemente dette radicchio o cicoria), le graminacee, gli aster, le chenopodiaceae (di questa famiglia fanno parte anche gli spinaci e le bietole), l’Artemisia el’Ephedra. Nella piana sussiste una flora arborea legata all’ambiente umido e acquatico con Butomus, falasco (oggi impiegato per impagliare sedie e fiaschi), Lemnea o Lente d’acqua, giunchi, Sparganium (volgarmente detto biodo o coltellaccio); sul fondo dei laghetti, infine, si vedevano ondeggiare le helobiae.

Sempre lungo le sponde del fiume Cavaliere, sotto gli strati di travertino, nei livelli argillosi di circa tre metri di spessore, la prof.ssa Daniela Esu, durante le ricerche raccolse conchigliette di gasteropodi (chiocciole) pubblicate poi in “Isernia La Pineta. Un accampamento più antico di 700.000 anni, Calderini, 1983”.

La raccolta malacologica comprende le seguenti specie: Lymnaea truncatula (Müller); Pupilla muscorum (Linnaeus); Succinea oblonga (Draparnaud) Vertigo pygmaea (Draparnaud); Vertigo moulinsiana (Dupuy); Vallonia pulchella (Müller). Tutte queste chiocciole vivono in un ambiente aperto, senza vegetazione arborea, con fenomeni ciclici a paludi o stagni  e clima freddo-umido. Sommando i dati scientifici, botanici e faunistici, appare una situazione climatica più fredda e arida rispetto a quella di 200.000 anni prima.

Verso i 770.000 anni fa inizia l’interglaciale Günz-Mindel e di conseguenza il clima cambia di nuovo: la temperatura progressivamente aumenta, la foresta si diffonde nuovamente sulle montagne e sulle colline. Nella flora sulle alture sono presenti soprattutto le latifoglie con carpini neri, carpini tipo betula e orientalis, betulle, castagni, noccioli, querce, faggi, ecc. Tra le piante sempreverdi si contano lecci, olivi e vari arbusti tra cui mirti e pistacchi; nelle zone umide crescono ancora salici e ontani; le erbacee sono molto abbondanti: graminacee, cicorie, falasco, spinaci, cisti, ginestre, ferule, ortiche, ecc., le piante acquatiche sono rappresentate per lo più da Helobiae e Alisma (conosciuta oggi come mestola o mestolaccia).

Una flora tanto abbondante suggerisce un ambiente climatico con temperatura calda e abbondanza d’acqua. La pianura intorno a Isernia infatti era un immenso lago; questo lo si desume dalle ultime argille depositate sotto gli strati di travertino: non sono più le argille caratteristiche di acque stagnanti o paludose ma quelle di una sedimentazione sempre molto lenta e tipica di un lago. A confermare questa ipotesi sta il ritrovamento, nelle argille, di conchiglie e opercoli di gasteropodi dei generi Bithynia leachi (Sheppard) e Planorbis: fauna, questa, tipica di acque calme e lacustri.

Le acque di questo lago, tranquille e ricche di carbonato di calcio, con l’aumento della temperatura evaporarono più velocemente mettendo in moto il meccanismo chimico-fisico che ha portato alla formazione degli strati rocciosi di travertino. Il carbonato di calcio contenuto nell’acqua, cioè, precipitando più velocemente sul fondo del lago, si fissava sui resti putrefatti dei vegetali imprigionati nel sedimento al tempo della loro deposizione, formando così i banchi travertinosi.

 

Particolare della paleosuperficie, taglio 3a. Al centro si può notare, tra le ossa e i ciottoli, un’area rotonda non occupata da oggetti: potrebbe essere l’impronta lasciata da un probabile palo, usato per la costruzione della capanna

 

Già in precedenza, circa 165 anni fa, lo studioso venafrano Leopoldo Pilla (nato il 20 ottobre 1805 e morto, in combattimento, durante la battaglia di Curtatone il 29 maggio 1848, alla testa dei suoi allievi volontari del corpo toscano dell’esercito piemontese), sosteneva che la vallata dell’alto Volturno, formata da travertino, quindi da calcare lacustre depositato da acque soprattutto sorgive nelle zone vulcaniche, derivasse da un grande lago. A conferma della sua tesi il geologo venafrano portava l’esempio dell’altipiano di Rocchetta a Volturno e la stessa Isernia, che sorge su una roccia travertinosa. A tale proposito non va scartata la tesi poi sostenuta da altri studiosi, i quali ritengono che il vulcano di Roccamonfina abbia avuto grande importanza nella formazione del piano alluvionale tra Isernia e Venafro, in quanto il vulcano, con le sue lave, avrebbe ostruito il corso del fiume Volturno. Il cratere del vulcano di Roccamonfina, infatti, si trova appunto molto vicino alle due “chiuse”: quella tra i monti San Leonardo e Cappella e quella tra i monti San Ferdinando e Monaco. Il Volturno, quindi, avrebbe formato un ampio bacino lacustre per aprirsi poi, con lenta azione erosiva, la via verso il mare.

Durante il periodo di sedimentazione il bacino lacustre andò colmandosi con il suolo di travertino; questo suolo di travertino, tuttavia, era allo stesso tempo sottoposto anche ad attività tettoniche, cioè a deformazione e a fratturazione, con una fitte rete di faglie al suo interno. La potenza di questa fase tettonica, che sembra essere via via aumentata, portò ad un innalzamento dei rilievi collinari circostanti e alla scomparsa del lago nell’alta valle del Volturno, con la conseguente emersione dello strato travertinoso, concludendone così la formazione.

Prima di proseguire con il nostro argomento, è necessario precisare poche cose, ma molto importanti, per capire il comportamento “dell’Homo aeserniensis”.

L’uomo, come tutti i mammiferi, doveva essenzialmente vivere vicino all’acqua; per questo motivo ha sempre scelto di costruire le sue città più importanti vicino a mari, laghi e fiumi (per individare gli abitati palafitticoli, ad esempio quelli del lago di Garda, bastava a volte cercare sulla carta topografica i luoghi delle sorgenti lungo le sponde del lago).

L’uomo usa ancora oggi i fiumi come vie di comunicazione e di trasporto delle merci, forza motrice, luoghi ideali per la caccia e la pesca, la difesa, ecc. Alcune di queste utilità sono di evidenza tanto elementare da rendere probabile che anche l’Homo erectus se ne servisse.

Tra i vari fattori che portarono all’evoluzione cerebrale dell’uomo, due furono fondamentali: la pigrizia e la comodità; anche noi oggi possiamo dire che le inventiamo tutte per vivere meglio.

All’incirca 736.000 anni fa, nell’interglaciale Günz-Mindel, il clima nei dintorni di Isernia era, come si è detto, temperato-caldo, con intense piogge nel periodo invernale. La flora era stupenda: alberi di latifoglie e sempreverdi sulle colline e sulle montagne; praterie di tipo steppico nella vasta pianura nata dal prosciugamento del lago (un panorama simile a quello delle steppe qui descritto si può osservare oggi nelle regioni centrali della Spagna), dove i fiumi scorrevano lenti; ipoteticamente, immaginiamo che uno di questi fiumi corrisponda all’attuale Volturno e che un altro, fra quelli che vi sono nel bacino idrico della zona di Isernia, corrisponda al Carpino.

I corsi d’acqua nella vastissima pianura creavano zone più o meno paludose lasciando scoperti piccoli isolotti di travertino (si riconoscono tuttora nelle vicinanze dell’Abbazia di San Vincenzo al Volturno, nella piana di Rocchetta a Volturno, e vennero utilizzati come base dall’uomo di Neanderthal e anche durante il Paleolitico superiore). In questo Eden viveva tutta la fauna già descritta, che era a disposizione dell’Uomo di Isernia che cacciava in particolare cervidi e orsi sulle colline, pachidermi e bisonti nella prateria.

Osservando la carta geologica disegnata dal prof. Mauro Cremaschi e pubblicata in Isernia La Pineta. “Un accampamento più antico di 700.000 anni, Calderinì 1983”, possiamo immaginare che l’uomo abbia scelto, intelligentemente, un isolotto travertinoso sul lato est dell’immensa pianura, protetto da basse colline su tre lati e vicino ad un fiume. La località era ideale sotto tutti i punti di vista: era protetta naturalmente contro il rischio di essere travolti da eventuali animali messi in fuga perché spaventati da cause naturali quali incendi, terremoti, eruzioni vulcaniche, ecc.; il vicino fiume procurava la materia prima per costruire gli strumenti: ciottoli fluviali di calcare e blocchetti di selce (nuclei).

I proff. Massimo Sozzi, Sergio Vannucci e Orlando Vaselli stabilirono e scrissero in “Le industrie litiche del giacimento paleolitico di Isernia la Pineta, lannone 1984”, che le selci rinvenute nel paleosuolo provenivano da strati selciferi affiorati fra le località Serre e Colle Calandrone, a est dell’abitato di Pesche (il fiume che scorre ai piedi di questi due colli è il Carpino).

Per immaginare come vivesse l’uomo nelle vicinanze di Isernia, in quel lontanissimo periodo, può essere utile ricordare ciò che scrisse David Livingstone (missionario scozzese, grande esploratore, nato a Clasgow nel 1813) quando, nel 1842, scoprì il piccolo e ormai prosciugato lago Ngami, nelle paludi dell’Okavango, nello stato del Botswana, in Africa meridionale:

«I Baieie: in mezzo agli altri popoli che si aggruppano intorno al lago, tutto attesta che essi sono gli abitanti più antichi; sono il vero popolo lacustre e fluviale, che ha imparato a combattere difeso dai suoi stagni e canali … Abitano sulle sponde nord e nord-est del lago Ngami, e frammezzo ai suoi numerosi affluenti fin verso il Ciobe.

Esso si mostra nella scelta dei luoghi dove abitare: sono frequentissime le isole, le penisole, i tratti elevati nei gomiti dei fiumi.

Circondati dalle sponde basse e paludose dei fiumi, difesi contro i loro nemici, ma tanto più esposti alle mortifere febbri palustri … Le capanne dei Baieie hanno forma di alveare, ottenute con bastoni piantati ad arco nel terreno e sono coperte di stuoie, e le costruiscono frequentemente sulle sponde o nelle isole del lago, il che, in questo paese, vuol dire che stanno gran parte del tempo dell’anno nell’acqua, ma pare che da lungo tempo siano avvezzi all’umidità.

Guazzando quasi sempre nell’acqua, hanno le piante dei piedi così molli che non reggono ad un lungo camminare sul terreno sodo. Solo una parte di loro ha orti che sono coltivati dalle donne. Gli uomini sono invece abilissimi nel guidare i loro tronchi d’albero sull’acqua, dove passano più tempo che non nelle capanne; sono anche valenti pescatori con la fiocina.

Fanno corde con una specie di canapa detta ife (Sansevieria, la pianta usata per decorare le nostre case per le sue foglie strette, rigide e verdi, più o meno variegate di grigio), abbondantissima presso le foci dei fiumi.

Danno la caccia agli ippopotami; fanno anche molte fosse coperte per prendervi gli animali che scendono ad abbeverarsi … L’unica arma che maneggiano abilmente sono certe piccole lance uncinate, cosicché tra le fosse coperte e queste armi l’avvicinarsi ai loro villaggi non è senza pericolo. L’acqua stessa contribuisce ad alimentarli con numerose piante che vi crescono; mangiano le radici, gli steli, le foglie, i fiori e i semi del loto, i semi e le radici di certi giunchi e specialmente le radici del giunco tsetla (juncus serratus), che negli anni di carestia sono il principale alimento. Con mirabile temerità le loro donne scendono a cercare queste radici in acque infestate da coccodrilli. Sono anni tristi per i Baieie gli anni di piene, durante le quali queste piante alimentari restano a troppo profondità».

La descrizione del popolo Baieie resa da Livingstone non si discosta molto dallo stile di vita che doveva condurre l’uomo di allora nella piana dell’antico lago isernino che lentamente si trasformava in prateria.

Lungo le sponde di un fiume protetto da basse alture c’era un isolotto di travertino ideale per sostare durante la stagione della caccia ai branchi di animali che popolavano la zona.

Su questo isolotto, già coperto da una coltre erbosa le cui radici avevano cominciato ad intaccare la superficie dello strato travertinoso, circa 736.000 anni dopo si rinvenne, a una profondità di circa 4,5 metri dal piano di campagna attuale, il più antico paleosuolo dell’abitato preistorico di Isernia (finora è stata studiata e siglata, come settore I,  taglio 3c, una sola piccola parte di 44 mq).

Gli oggetti lasciati dall’uomo, le ossa e i manufatti, appoggiavano direttamente sul travertino e talora apparivano incrostati di calcare;  fra di loro vi erano anche grossi frammenti di travertino disposti senza un ordine preciso; tutto ciò appariva distribuito sul suolo uniformemente.

Lo strato antropico conteneva gli stessi manufatti rinvenuti nello strato superiore: denticolati, raschiatoi, incavi, choppers, ecc. e resti delle stesse specie animali: bisonti, ippopotami, orsi, cervi, elefanti (di questa specie è stato rinvenuto un omero in splendide condizioni), ecc.

La vita umana in quell’ambiente probabilmente non era del tutto tranquilla: devono esserci stati infatti numerosi terremoti, tanto che alcune ossa e manufatti litici caddero nelle fessure provocate dai fenomeni tettonici di innalzamento del suolo.

Le lievi alture che proteggevano il primo paleosuolo hanno impedito che le acque del fiume in piena asportassero con la loro furia lo strato antropico, sul quale furono depositati soltanto strati sterili di limo per uno spessore di circa 50 cm.

I pellerossa dell’America del Nord erano, in alcune regioni all’inizio del 1800, prettamente cacciatori-raccoglitori e vennero studiati a fondo i loro sistemi di vita. Gli antropologi dell’epoca scrissero che la loro sussistenza era legata in modo particolare agli spostamenti dei branchi di bisonti. Come molti altri animali, i bisonti avevano un loro territorio e si spostavano  sempre lungo le stesse piste; per questo motivo le tribù pellerossa avevano, lungo quei percorsi, campi base in punti ben precisi, attrezzati con trappole per la cattura degli animali. In questi accampamenti stagionali trascorrevano periodi lunghi anche parecchi mesi.

 

La “CASA”

 

Non è azzardato presumere che l’Homo erectus di Isernia non si comportasse come i pellerossa? Dopo l’esondazione. l’uomo preistorico, avendo trovato precedentemente nell’isolotto un luogo ideale per le proprie attività, non si sentì sconfitto dalle forze della natura e decise di bonificare il suolo reso molle dai limi e dall’argilla trasportati dal fiume. Se l’uomo di Isernia, per la bonifica del suolo abitativo, avesse utilizzato del legname, questo sarebbe marcito col passare del tempo; è forse per questo che decise di utilizzare particolari ossa per compiere questa bonifica. La quantità e la qualità delle ossa rinvenute nell’area abitativa suggerisce che qui l’uomo si sia fermato per diversi anni, seppure periodicamente.

L’uomo di Isernia tentò quindi di realizzare opere definitive, che gli consentissero di stare all’asciutto: depose le ossa scelte in modo ordinato e le selezionò secondo le proprie esigenze; infatti, ad esempio, in soli 30 metri quadrati vi sono oltre una trentina di crani di bisonte, con la sola parte della testa che regge le corna e privi della parte anteriore; altre parti scheletriche di questo animale sono costituite solo da denti isolati, mentre rarissime sono le vertebre e le ossa lunghe.

Osservando poi la particolare disposizione dei crani di bisonte sul pavimento, si nota un particolare importante: sono tutti, tranne uno, posizionati con la parte craniale in alto, e non con il palato; questa particolare sistemazione evitava il rischio di ferirsi i piedi camminando sui crani.

Stiamo dunque immaginando la struttura abitativa dell’uomo di Isernia sulla base delle osservazioni del suolo così come si presentava; è opportuno allora fare cenno alla struttura della casa preistorica.

La casa più antica finora scoperta si trova a Olduvai, in Tanzania; è stata costruita dall’Homo abilis, circa 1,8 milioni d’anni fa, in cima a una colli netta di tufo. La presenza, attorno alla collinetta, di ossa di fenicottero e di radici di canna e papiro lascia supporre che la casa si trovasse vicino ad un lago ma in posizione elevata, come un basso promontorio. La struttura della casa è assai semplice: è un cerchio di pietre del diametro di circa 4 metri, con un muretto di pietre di lava messe le une sulle altre per un’altezza massima di 30 cm. Si può quindi immaginare una capanna circolare fatta di rami, con pietre di rinforzo alla base e tetto di paglia, come ancora le costruiscono gli Okombambi nell’Africa del sud. La costruzione di queste strutture abitative indica un insediamento continuo, della durata variabile da pochi giorni a qualche mese, che poteva essere stabilito con frequenza stagionale; questi abitati dimostrano inoltre che l’Homo abilis conduceva già una vita sociale.

 

La formazione del paleosuolo.

 

Vediamo ora come è costruito il paleosuolo di Isernia, osservando il grafico a pag. 196 e la figura a pag. 200.

Nell’area 1, sul lato ovest, il suolo archeologico si trova a contatto con il primo paleosuolo (t3c), le ossa sono molto fratturate, il pavimento è formato inoltre da una grande concentrazione di ciottoli medio-piccoli di calcare e travertino di circa 10-20 cm, i manufatti in selce sono pochi mentre abbondano quelli in calcare.

Le zone 2, 3, 4 e 5 poggiano tutte sul limo lacustre. Lo spazio 2 è strutturato con gli stessi oggetti del precedente (1) ed ha forma ovale. Il terreno 3, a nord-ovest, è composto quasi esclusivamente di ossa lunghe di elefante, frammiste a grossi ciottoli di travertino della misura di circa 25-40 cm e strumenti di calcare; tutto ciò, a volte, è mischiato insieme al limo. Nella superficie 5 notiamo una progressiva diminuzione della concentrazione di oggetti trasportati dall’uomo: le ossa sono di piccole dimensioni e gli strumenti sono sparsi un po’ su tutta l’area.

Il paleosuolo 4 è, a mio avviso, il più interessante: al suo interno vi è un’area semicircolare del diametro di tre metri e mezzo; alla base di questa, sul limo lacustre, sembra che l’uomo di Isernia abbia posto orizzontalmente del legname, forse tronchetti, sui quali abbia poi messo ossa lunghe, frammenti di omero e scapole di elefante, crani di bisonte e, in minore quantità, frammenti ossei di rinoceronte e pochissimi altri di megacero; naturalmente gli interspazi furono colmati con ciottoli, sia di calcare che di travertino.

Su questo pavimento vennero poi posati, in semicerchio, da ovest, nord e est, cinque grossi massi di travertino, il più grande dei quali misura circa 1,5. m di lunghezza, 80 cm di larghezza e 50 cm di spessore.

All’esterno di questo semicerchio si nota, da nord a est, una striscia che corre quasi a contatto dei massi, larga circa 20 cm e priva di qualsiasi materiale, cioè sterile: che sia stata occupata da materiale deperibile come legname?

Esternamente a questa fascia sterile sono disposti, sempre a semicerchio e per una  larghezza di m 1,5 circa, crani di bisonte, ossa di rinoceronte e poche altre di elefante. Tornando all’interno dell’area semicircolare i tre studiosi, in “Struttura della paleosuperficie t3a del I settore di scavo di Isernia La Pineta”, scrissero: «Si caratterizza per la grande concentrazione dei resti faunistici che si sovrappongono gli uni agli altri, per uno spessore dell’ordine di 10-40 cm. I ciottoli di calcare, e soprattutto i blocchi di travertino, si trovano non solo affiancati ai resti ossei ma spesso tendono a ricoprirli…».

Il prof. Mauro Cremaschi, inoltre, fa notare che «Alcune ossa sono infitte verticalmente per varie decine di cm nel limo non ancora consolidato…».

Ebbene, a me pare si possa dire (se non lo ha già fatto qualche altro studioso) che questa fosse la base di una “capanna” facente parte di un ampio accampamento ben organizzato, con spazi prestabiliti, come dimostrano quei pochi metri quadrati scavati finora.

Va tenuto presente che le popolazioni primitive tuttora esistenti, costruiscono capanne solo per dormire, mentre passano il giorno all’esterno e davanti alla capanna compiono i lavori domestici.

Questa stessa cosa è dimostrata chiaramente dal paleosuolo di Isernia: difatti l’area contrassegnata come zona 1 poggia sul primo paleosuolo (t3c), quello escluso dal limo, quindi più solido e adatto da essere usato per i lavori giornalieri; mentre per la notte, è stata costruita una solidissima e duratura capanna. Non è da escludere che durante il maltempo gli abitanti della capanna si riparassero al suo interno e si mettessero davanti all’ingresso a lavorare, come dimostra lo spazio ovale siglato come zona 2.

Questa bonifica del terreno me ne ricorda una uguale, realizzata su un’isoletta del laghetto di Fiave, in Trentino, dagli uomini dell’età del Bronzo; quella però era molto più recente, essendo stata realizzata circa 3.650 anni fa.

Tuttavia la cosa realmente straordinaria in tutto questo complesso di bonifica, che, se non vado errato, non è mai stata presa in considerazione, è la questione sul come siano stati trasportati e posizionati i grossi massi in travertino sistemati in semicerchio: sicuramente la sola forza umana non ci sarebbe mai riuscita, dunque l’Homo erectus di Isernia conosceva l’uso delle macchine semplici come il piano inclinato, il rullo e la leva.

Possiamo così affermare che la costruzione di quel paleosuolo sia una vera e propria opera di ingegneria.

Un’altra importantissima scoperta di questo straordinario giacimento preistorico è la più antica presenza dell’uso dell’ocra da parte dell’uomo in Europa.

Finora si sapeva che l’ocra rossa era stata usata nel nostro continente dall’uomo di Neanderthal; viene poi impiegata nelle sepolture del Paleolitico superiore, cosparsa sul terreno e sul cadavere, oltre che per le magnifiche pitture parietali nelle caverne.

Il suo uso è tuttavia molto più antico: venne ritrovata nel secondo strato del paleosuolo di Olduvai, in Tanzania, datato a circa 1.700.000 anni dal presente; Louis Leakey, l’antropologo che legò il proprio nome alla valle di Olduvai, sostiene che l’ocra rossa potrebbe essere stata impiegata per realizzare segni a carattere simbolico o decorativo anche sul corpo umano per cui si potrebbero vedere, nell’uso dell’ocra, le radici del simbolismo e dell’arte.

Le ocre si  trovano generalmente in filoni fra rocce secondarie; rocce secondarie sono quelle che hanno formato le montagne del Matese e delle Mainarde. L’uomo di Isernia, quindi, se voleva utilizzare le ocre doveva recarsi in quelle zone, il che dimostra che conosceva benissimo il suo territorio, a meno che le abbia scambiate con altri suoi simili. (Recentemente a Monteroduni, in località Selvotta dove è in costruzione un nuovo stabilimento, è stato messo in luce un poderoso strato di limo simile a quello della Pineta, fra cui raccolsi alcuni manufatti in selce e un osso).

Tutte queste notizie, raccolte sin qui a Isernia La Pineta, mostrano dati scientifici finora impensabili. L’Homo erectus di 736.000 anni fa avrebbe parecchio in comune con gli aborigeni australiani o con gli Andanesi, che vivono in varie isole al largo delle coste occidentali della Malacca e sarebbero gli unici al mondo incapaci di accendere il fuoco, mentre conoscono la decorazione del viso con sostanze coloranti.

In quel periodo lontanissimo, nella gran parte dell’Italia centromeridionale, si verificarono cataclismi di enorme portata, con terremoti, che determinarono in parte l’innalzamento della dorsale appenninica, ed attività vulcaniche. Il vulcano di Roccamonfina ebbe sul giacimento di Isernia lo stesso effetto determinato dal Vesuvio su Ercolano, nell’anno 79 dell’era cristiana: una colata di fango vulcanico si abbatté sull’abitato preistorico che in un attimo venne sepolto; allo stesso tempo si formarono i limpidissimi cristalli di sanidino che oggi permettono a noi di datare quella catastrofe.

Se per l‘Homo erectus, questi avvenimenti furono una disgrazia, per noi,  rappresentanti dell’Homo sapiens sapiens, si tratta invece di un miracolo, poiché ci permisero di apprendere tutte le notizie e i dati scientifici che ben conosciamo.

Questi fenomeni naturali sconvolsero il bacino di Isernia: il travertino sotto l’antico lago si fratturò in blocchi e si formarono alture, dalle quali scesero fiumi che trasportarono sul paleosuolo, ghiaie, argille e limi. Gli accumuli di sedimenti fluviali cessarono e l’uomo, che assiste a questi cataclismi, tornò per la terza ed ultima volta al “vecchio” abitato, lasciando sul terreno moltissimi strumenti, poche ossa e le probabili tracce del fuoco.

Su questo paleosuolo ripresero deboli attività fluviali con nuovi depositi di ghiaie, sabbie e argille; seguì poi una sedimentazione fluviale e vulcanica con deposito di tufi.

Una nuova eruzione vulcanica si verificò circa 550.000 anni dal presente ed il tufo sigillò nuovamente tutto il deposito sottostante; sembra sia stata questa l’ultima grande attività del vulcano di Roccamonfina. Seguirono nuovi, violentissimi terremoti, come dimostra lo strato di tufo che si è fratturato alzandosi o abbassandosi (la stessa Isernia, a quanto risulta dai rilievi geologici, si è alzata in rapporto al paleosuolo di circa 40 metri).

Questi nuovi movimenti tellurici, spaccando la crosta terrestre, modificarono l’originaria inclinazione degli strati rocciosi, portando probabilmente anche allo spostamento del letto del fiume “Cavaliere”, che venne “catturato” da una delle fenditure che si determinarono verticalmente durante i movimenti tettonici.  Il fiume “Cavaliere”, perciò, spostò il suo nuovo corso verso Isernia cominciando ad erodere la valle e lasciando intatto il paleosuolo (forse anche perché quest’ultimo venne protetto dalla corona di rocce terziarie che difese anche l’isoletta su cui venne costruito il primo abitato),

Questo fu un autentico miracolo: se ciò non fosse avvenuto, infatti, il fiume con la sua erosione avrebbe sicuramente distrutto l’abitato preistorico.

È doveroso terminare questa ricostruzione con le parole del prof. Carlo Peretto, responsabile del giacimento paleolitico:

«…E come una serie continua di eventi fortunati ne aveva permesso una eccezionale conservazione (fu scoperta la Pompei della preistoria n.d.r.), così anche la sua scoperta è stata occasionale e fortunosa. Non fosse stato per i poderosi sbancamenti effettuati per la superstrada Napoli-Vasto e la curiosità di un appassionato di Verona che, sposato a una molisana, trascorreva le ferie nella regione, quasi certamente del sito della Pineta di Isernia non si sarebbe mai avuta notizia».

ICONOGRAFIA

Foto di Alberto Solinas.

Grafici tratti da:Bullettino di Paletno/ogia Italiana, Roma, 1876 e 1878;

Atti della XXX riunione scientifica dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, Firenze, 1993;

Isernia La Pineta: un accampamento più antico di  700.000 anni, Calderini

Editore, 1983.

Fonte: da srs di Alberto Solinas

 

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