Apr 17 2009

Da Berlinguer alla Moratti il grande disastro dell’Università


Category: Scuola e universitàgiorgio @ 05:44

 

Da Berlinguer alla Moratti il grande disastro dell’Università



I cambiamenti introdotti da Luigi Berlinguer, fatti propri dal ministro
Moratti, hanno abbassato ogni livello.


Dopo la laurea breve ci sono i due anni di studio specializzato che
dovrebbero permettere di insegnare nelle medie o nei licei.


Il primo inconveniente è che il corso di studi abbreviato non è veramente
riuscito a ridurre i cosiddetti studenti fuori corso.


Porre un tetto ai testi da studiare, poche righe di Tolstoj o della
Dickinson, induce a evitare l¹acquisto di libri.


I classici e i saggi firmati da grandi autori sono stati sostituiti da
 librettini che in sessanta pagine spiegano tutto Dante.




Qualche tempo fa, ho assistito a uno spettacolo singolare. 

Durante una
discussione televisiva, il ministro della Pubblica Istruzione, Letizia
Moratti, contestata da domande volgari, disse all¹improvviso con occhi
brillanti e squillanti: 

«Ma io apprezzo moltissimo la riforma universitaria
di Berlinguer. È ottima. È la migliore di tutte». 

Credo che l¹intero paese
sia stato scosso da un brivido d¹estasi. 

Non era mai accaduto che un
ministro della destra apprezzasse uno della sinistra (e viceversa). 

Per un
istante senza tempo, gli spettatori videro Berlusconi dare un affettuoso
colpetto sulla schiena di Prodi, che lo ricambiò con un bacio sulla guancia
(così si amano i potenti): i baffetti di D¹Alema si intrecciarono con i
folti manubri di La Russa: Bossi strofinò le gote malrasate dal barbiere di
Varese con quelle ispidissime di Di Pietro: le sopracciglia di Casini si
intrecciarono con quelle di Mussi: Buttiglione discusse intorno all¹Essere
con Cacciari: Agnoletto accarezzò teneramente Tremonti; e un¹aria di quiete,
di pace, di amore e di felicità si diffuse in tutta l¹Italia.


Purtroppo (o per fortuna) questa visione edenica rimase chiusa nelle
immaginazioni degli italiani. Letizia Moratti si era illusa.



La Riforma Berlinguer, approvata qualche anno fa da un ministro incompetente
assistito da consiglieri incompetentissimi, era la peggiore che abbia mai
funestato le facoltà di Lettere e di Filosofia e i professori ordinari,
associati e i ricercatori e gli studenti delle sventurate università
italiane. 

Non sono un professore universitario: ma ho molti amici
professori, che insegnano letteratura inglese e francese, filologia romanza
e comparatistica, storia antica e letteratura greca e letteratura bizantina.


Ho chiesto notizie: cosa quasi impossibile, perché in ogni università
accadono cose diverse, progetti vengono annunciati e ritirati, ardite
cosmogonie costruite e il giorno dopo distrutte, voci attraversano l¹aria,
vengono sostituite da altre voci, che a loro volta generano voci
completamente dissimili; gli studenti terrorizzati non osano più studiare, i
professori impauriti e annoiati preparano la lettera di dimissioni. 

Non
pretendo di dire cose certe, come un buon giornalista. 

Vorrei soltanto
raccontare al lettore di Repubblica la farsesca e sinistra storia delle
facoltà umanistiche italiane negli ultimi anni.

 Forse Berlinguer è stato
soltanto questo: un autore di pochades e vaudevilles neri.
Credo che il racconto debba incominciare con una notizia. 

Negli anni
passati, le università italiane avevano moltissimi studenti fuori corso:
molto più numerosi che nelle università inglesi, francesi e tedesche. Gli
studenti salivano a Roma da Lecce, da Bari, da Potenza, discendevano da
Civitavecchia o da Terni: alloggiavano in squallide pensioni vicino alla
Sapienza, lavoravano come camerieri, dattilografi e pony, amoreggiavano,
facevano manifestazioni di destra o di sinistra per il Corso, occupavano
l¹università, protestavano contro i professori, esaltavano la Roma e la
Lazio, si sposavano, tornavano al paese, avevano due o tre figli (che a loro
volta si preparavano fin dalla nascita a diventare studenti universitari):
senza mai riuscire a dare esami o a laurearsi, e qualche volta a vedere
un¹aula universitaria gremitissima di folla. 

Il cuore dell¹onorevole
Berlinguer era commosso e angosciato. 

Ma dimenticava due fatti. 

Il primo è
che soltanto nell¹università italiana si può ripetere, per trenta volte, lo
stesso esame. 

Il secondo è che era inutile preoccuparsi dei fuori corso. 

Gli
studenti di lettere, laureati in quattro o cinque anni, erano moltissimi. 

Il
loro numero superava quello dei professori richiesti dalle scuole medie,
dagli istituti tecnici, o dai licei. 

Gli studenti fuori corso avrebbero
potuto fare i falegnami, gli idraulici, i corniciai, gli elettricisti:
professioni nobilissime, difficilissime, e quasi abbandonate dagli italiani.


Il secondo fenomeno era più recente. 

All¹università si presentavano, come
sempre, studenti appassionati e brillanti, che leggevano tutti i libri,
frequentavano le eccellenti biblioteche italiane e straniere di Roma,
discutevano di Platone e di Hölderlin, frequentavano cinema e teatri, e si
nutrivano di pane, mortadella e coca cola. 

Ma giungevano anche plotoni di
studenti che non sapevano parlare. 

Ignoravano il linguaggio comune,
apprendevano qualche termine nuovo dalla televisione, e lo ripetevano senza
conoscerne il significato: la lettura del Corriere della Sera o di
Repubblica sembrava loro più ardua di quella di Finnegans Wake.

Quanto a
scrivere, nemmeno pensarci. 

Errori di ortografia, niente sintassi e
consecutio temporum, oblio del congiuntivo, incapacità di organizzare o
almeno di mettere in fila quelle debolissime idee che baluginavano nelle
loro teste, amore travolgente per una parola: discorzzo. 

Che poi esistesse
una cosa chiamata «pensiero», coltivata per secoli da Platone o da Spinoza o
da Musil, ecco, questo non l¹avevano mai saputo. 

Si accontentavano di
emettere suoni vagamente romaneschi, borborigmi, biascichii, blaterii senza
forma né contenuto.


 

Davanti a questa situazione drammatica, il ministro Luigi Berlinguer
intervenne con la forza, l¹impeto e l¹ardore di un generale napoleonico.


Escogitò il cosiddetto modello tre più due. 

I suoi consiglieri lo
assistettero con la fantasia degli escogitatori di parole incrociate e
l¹accortezza degli inventori di puzzle e giochi elettronici. 

Inventarono i
«moduli», i «crediti» e i «debiti». 

Non chiedetemi di spiegarveli. Il
principio fondamentale era questo. 

La laurea breve (in tre anni) doveva
essere una specie di liceo prolungato, dove si leggevano, per esempio, i
classici greci e latini quasi sempre in traduzione, si offriva una puerile
storia della letteratura e della filosofia, si insegnava vagamente qualche
lingua straniera. 

Dopo tre anni, ne conosciamo i risultati. 

Il livello degli
studi si è incredibilmente abbassato. 

Non si legge più. 

All¹università di
Roma La Sapienza, la maggiore d¹Italia, un professore che tenga un corso su
Shakespeare di circa due mesi non può imporre ai suoi allievi la lettura di
oltre duecentocinquanta pagine. 

L¹edizione Arden commentata di Amleto ne
comprende 570.


Il professore non potrà dunque adottarla, mai, a nessun costo, perché il
tenero cervello dell¹allievo ventenne o ventiduenne rischierebbe di
incrinarsi, sciogliersi, putrefarsi, nullificarsi, se venisse sottoposto
all¹intollerabile peso di trecento pagine in due mesi. 

Dovrà accontentarsi
del nudo Amleto, senza nessuna altra tragedia o commedia, accompagnato da
qualche paginetta di critica. 

Se le pagine adottate fossero
duecentocinquantadue, lo studente potrebbe rifiutarsi di leggerle, mentre il
direttore del dipartimento avrebbe il dovere di rimproverare, minacciare o
punire con le verghe il professore troppo «elitario». 

Una parte degli
studenti non acquista più libri (anche se un Oscar costa 12 euro e un
classico di Repubblica o del Corriere 7.90). 

Pretende di usare soltanto
fotocopie, che contengono esclusivamente le poche cose commentate durante le
lezioni (82 versi di Shakespeare, 13 della Dickinson, 60 dell¹Odissea, un
capitolo di Madame Bovary, 30 righe di Hölderlin). 

 

Ma siccome una minoranza
degli studenti italiani è molto più intelligente dei ministri (e spesso dei
professori), alcuni si ribellano e pretendono di studiare. 

Vogliono leggere
tutta l¹Iliade e l¹Odissea e tutte le Metamorfosi di Ovidio e quelle di
Apuleio e la Divina Commedia e il Faust e persino i tredici volumi che,
nella Pléiade, raccolgono la Comédie humaine di Balzac, e naturalmente
Guerra e Pace. 

Questo è, per fortuna, il paradosso italiano; su cento
sciocchi, ci sono sempre sette ragazzi intelligentissimi: molto più
fantasiosi e colti degli scrupolosi studenti americani, come dice un amico
che insegna anche negli Stati Uniti.


Il primo inconveniente, che l¹onorevole Berlinguer non ha previsto, è che il
sistema della laurea breve non funziona nelle facoltà universitarie. 

I fuori
corso continuano ad accumularsi, nelle tristi pensioncine vicino alla
Sapienza e alla Stazione Termini. 

Nessuno studia, o studia in modo confuso e
impreciso: eppure chi ha scelto la laurea breve non riesce a laurearsi, tale
è la frammentazione del sistema universitario, la moltiplicazione dei corsi
inutili, il groviglio burocratico, il caos, il guazzabuglio e la confusione
che la GRANDE RIFORMA ha introdotto nelle cose più usuali. 

Il secondo
inconveniente, molto peggiore, è che la laurea breve non porta a nessun
lavoro. 

In realtà, è una truffa. 

Non permette di insegnare nelle scuole
medie e nei licei: consente, sì, di diventare redattore nelle case editrici,
dove nessuno accoglierà mai un ventunenne che ignora la lingua italiana.


Permette di fare la guida turistica e il custode dei musei: ma non credo che
la richiesta sia grande. 

Consente una sola cosa: fare concorsi che gli
permettano di partecipare a nuovi concorsi che gli apriranno la strada a
altri concorsi, che infine gli consentiranno di scrivere, con mano rugosa e
tremante, la domanda per un concorso definitivo: la morte. 

Nemmeno questa
volta, forse, la sua richiesta verrà accolta.


Dopo i tre anni di laurea breve, ci sono i due anni di studio specializzato,
che dovrebbero permettere (ma non è sicuro) di insegnare nelle scuole medie
e nei licei.

Per ora, pochissimi hanno iniziato questo studio; ed è quindi
fuori luogo parlarne. 

Ma ho qualche dubbio. 

Mi sembra difficile che chi non
è riuscito a leggere 252 pagine in due mesi, si trasformi improvvisamente in
un eccellente studioso di Pindaro o di Dante o di Rilke.

Il risultato della
GRANDE RIFORMA è che, in cinque anni, si studierà molto meno e peggio che
nel vecchio, mediocre ordinamento universitario di quattro anni.


Intanto, come una pianta tropicale malefica, la GRANDE RIFORMA estende
dappertutto le sue ramificazioni; e fra poco, ce la troveremo in casa, tra
le pentole, le stoviglie e i bicchieri. 

Le diverse università si fanno
concorrenza fra loro, per attirare un numero maggiore di studenti, e per
riuscirci abbassano sempre più la severità degli studi. 

All¹interno di ogni
università, il professore di letteratura francese, a caccia di allievi, fa
concorrenza a quello di letteratura tedesca, di letteratura inglese, o di
storia della filosofia – e il modo migliore, naturalmente, è quello di far
leggere soltanto sessanta pagine di Racine e trenta di Molière e dodici
versi di Baudelaire, mentre l¹ingenuo germanista pretende almeno la lettura
integrale delle Affinità elettive (p. 290).


Il caos, le pretese, la megalomania, le ostentazioni, l¹invidia hanno
raggiunto il diapason; e i professori trascorrono pomeriggi interi (come
accade anche nelle scuole medie) in riunioni, discussioni e litigi
interminabili. 

Una volta, i volumi delle collane di cultura venivano
saggiamente adottati: era bello che uno studente conoscesse Curtius o Praz o
Duby o Mazzarino, o addirittura Gibbon; ma ora questi classici sono stati
sostituiti da librettini che in sessanta pagine spiegano Dante o le
Crociate. 

Tutto ciò contribuisce, come l¹onorevole Berlinguer non immagina,
alla rapida distruzione dell¹editoria di cultura, che qualsiasi governo
italiano pretende di amare e proteggere con tutto il cuore. E, infine, come
Claudio Magris, i professori fuggono.

 

 Non c¹è alcuna ragione di restare in
un¹Università dove l¹insegnamento è quasi impossibile. 

Molto meglio andare
in pensione: o scrivere articoli sui giornali, dove non c¹è la tre più due;
o insegnare negli Stati Uniti, dove ogni professore ha la chiave della
biblioteca e può entrarvi alle sette di mattina o alle due di notte,
togliendo amorosamente i libri dagli scaffali con le proprie mani e
studiando quello che vuole, quando vuole, come vuole, mentre nel campus
illuminato dalla luna i gatti neri e bianchi si inseguono con frenesia.


Non contenta delle imprese distruttive del suo predecessore, Letizia Moratti
sta preparando progetti forse ancora più spettacolari. 

Mi duole di non poter
essere preciso: perché, nell¹argomento dell¹Università, nulla è sicuro:
tutto oscilla, vaga, si contraddice, con la consistenza delle nuvole rosee e
grigie nel cielo tempestoso di aprile. 

Quello che dico oggi, domani non è
più vero. 

Il ministro non sa quello che prepara il suo ufficio studi. 

Gli
psicologi sabotano i pedagoghi. 

La Camera ignora quello che sta legiferando
il Senato. 

Berlusconi ignora quello che pensa Tremonti: e tanto più Prodi
che, nei suoi viaggi incessanti tra Bruxelles e Roma, medita certamente una
nuova, grandiosa GRANDE RIFORMA, che comprenderà in sé tutte le riforme
passate e future, tutte le riforme possibili e inverosimili, tentate in ogni
paese del mondo.


Mi limito a indicare non so se due progetti di leggi o due voci. 

La prima è
che, da qualche parte, in un oscuro armadio barocco della Camera o del
Senato, giace un progetto secondo il quale al 3+2 si sostituirà (o si
congiungerà) l¹1+4. 

Tutte le facoltà avranno un anno di corsi comuni -
sociologia dei buchi neri, scienza azteca, letteratura khmer, ermeneutica
della televisione, psicologia della settima età, propedeutica al sesso
orale, Che Guevara e il mito classico, arte e tecnica del terrorismo, Bush e
Bin Laden, metafisica di Umberto Bossi -; dopo il quale gli studenti
decideranno quale facoltà scegliere. 

La seconda è che la laurea breve (tre
anni) condurrà a due anni abilitanti: in questi due anni, non si insegnerà
niente. Si insegnerà a insegnare. 

Alcune migliaia di pedagoghi, psicologi,
teorici dell¹età evolutiva, apprenderanno agli allievi le arti, i trucchi, i
vezzi dell¹educazione. 

Dopo questi due anni, gli studenti della laurea
breve, senza sapere niente e aver letto pochissime fotocopie, andranno ad
insegnare nelle medie e nei licei italiani; e così via, all¹infinito,
secondo un processo di decadenza che non avrà più fine. 

Più preoccupante è
l¹ipotesi che riguarda gli studenti della laurea specialistica: perché dopo
tre anni di laurea breve, due anni di laurea specialistica, dovranno (forse)
affrontare altri due anni abilitanti. 

Totale: sette anni di studi quasi
completamente vani.


Non vorrei accusare soltanto Luigi Berlinguer e Letizia Moratti. 

Sebbene
siano nulli, sono (in parte) innocenti. 

Tutte queste demenze universitarie
dipendono anche dagli ultimi trenta (o quaranta) anni di folle benessere e
folle stupidità europea e americana. 

Andiamo alle Seychelles, alle Maldive,
a Samoa, in Antartide, passiamo il fine settimana nella seconda, quarta o
quinta casa, assistiamo alle trasmissioni in cui dodici genii discutono di
cose che ignorano completamente, o otto uomini politici cercano di sedurre
gli elettori con programmi che farebbero bene a nascondere. 

Tutti credono
che la democrazia sia l¹immensa facilità! 

I bambini non debbono stancarsi:
gli studenti universitari non debbono leggere – e mai, mai, mai, cose
difficili. 

Proibiti, Platone, Plotino, i Vangeli, san Paolo, Pascal,
Dostoevskij, Proust, Musil. Proibito camminare a piedi. 

Proibito nuotare.


Proibito guardare il mondo senza macchine fotografiche o cineprese.


Come ha scritto giorni fa Federico Rampini in un bell¹articolo su
Repubblica, i cinesi e gli indiani la pensano diversamente. 

Studiano cose
difficilissime: fanno ricerche, moltiplicano i brevetti. 

Gli americani (che
sono, malgrado la nostra infantile supponenza, molto meno sciocchi di noi),
sono preoccupati. 

Mentre le fabbriche e i lavori più elementari si spostano
in Oriente, l¹unico strumento dell¹Europa è l¹estrema esattezza e precisione
della mente (spero anche dell¹anima).

Le lauree brevi, i corsi abilitanti,
la facilità generale distruggono la poca precisione rimasta. 

Se le riforme
Berlinguer e Moratti non troveranno ostacoli, fra qualche anno non i cinesi
e gli indiani ma gli abitanti del Gabon e della Nigeria insegneranno storia
antica, letteratura francese e tedesca nelle nostre Università: lingua e
letteratura italiana ai licei. 

A me piacerebbe moltissimo: ma non so cosa ne
pensino gli attuali studenti di lettere.

Intanto, cogli occhi spalancati sul
televisore, gli italiani continueranno a fantasticare se Prodi sia meglio di
Berlusconi, o Berlusconi di Prodi.



 

 

Fonte: la Repubblica 8 giugno 2004

Un Commento a “Da Berlinguer alla Moratti il grande disastro dell’Università
”

  1. Lorella Mauro scrive:

    non posso commentare mi sto documentando per capire i perchè

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